Mountains May Depart |
Per "Cannes a Roma e a Milano", e a Roma anche lunedì 16 giugno alle ore 20 al cinema Giulio Cesare, dopo essere stato in concorso sulla Croisette, è stato presentato Mountains May Depart, atteso titolo di Jia Zhang-Ke, Leone d'oro a Venezia (dove aveva già presentato Platform) con Still Life (2006), regista quarantenne in cima alla lista della nuova generazione cinese. Il film è arrivato all'ultimo momento, fresco di montaggio e con qualche problema tecnico (la proiezione si è interrotta un paio di volte), ma, accolto con entusiasmo, è stato tra i favorite - dimenticato dalla giuria - per la Palma d'oro.
Jia Zhang-Ke ha affilato la sua poetica nel documentario, tema dominante la Cina in via di trasformazione. Addio al sapore di un'antica cultura (e dei ravioli al vapore), all'infanzia che ha radici nella piccola città di Fenyang, nella provincia centrale di Shanxi, dov'è nato e vissuto il regista. Il film si apre nel 1999 con il vortice chiassoso di un balletto di ragazzi a ritmo di Go West dei Pop Shop Boys, cult da discoteca in quegli anni, ed esibisce il formato stretto della prima cinepresa digitale di Jia Zhank-Ke, una serie di “appunti” che col passare del tempo, non solo cinematografico, si allargano nel cinemascope, fino al fantamondo del 2025, ripreso con l'Arriflex Alexa.
Un percorso spazio-temporale che stringe il presente tra memoria e preveggenza e si materializza nel corpo di Tao (Zhao Tao, moglie del regista e attrice in molti suoi film) divisa tra due amici di sempre, il presuntuoso e rampante Zhang, padrone di una stazione di servizio e deciso a far soldi, e Lianzi, gentile e dimesso minatore. Sceglierà il peggiore, perché “i nostri modi di vivere sono stati sconvolti con l'irruzione del denaro al centro di tutto”.
Tanto che Zhang chiamerà il suo bambino Dollar, e lo spedirà appena possibile, dopo il divorzio con Tao, in Australia, più lontano geo-emotivamente possibile dalla Cina, un luogo simbolo dell'emigrante incapace di parlare l'inglese e di dialogare con i figli. Materiali misti, reali e immaginari, che viaggiano metaforicamente su auto (lussuosa e rossa quella di Zhang), treni, aerei, e oggetti domestici primitivi accanto a schermi e cellulari ultrapiatti, trasparenti... il passaggio da “com'eravamo” a come “come saremo”, Mountain May Depart già nel titolo indica il traguardo.
Quello originale vuol dire “i vecchi amici sono come le montagne e i fiumi, immutabili”, paesaggi di riferimento. Traduzione dall'inglese, “le montagne possono andarsene”, e si vede. In ogni inquadratura, sullo sfondo, campeggiano gru monumentali sospese su grattacieli in costruzione, note allarmanti nello skyline cinese, giganti che incombono sulle casette malferme, le botteghe di artigianato, i mercati, i prati di Fenyang.
Se con Touch of Sin
(in gara a Cannes 2013) il regista ha scritto un diario in nero del paese, film
a episodi di vita spietata, qui lievita l'angoscia, un sommesso, crescente
malessere che fa svaporare l'allegria di fine Novecento e si dispiega nella
storia di Tao, sempre più disillusa. Perderà il padre, scrigno di memoria, e
anche il figlio se ne andrà così lontano da dimenticare il nome della madre.
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