di Roberto Silvestri
Dal ritorno di Giovanni Cioni |
La Storia me la ricordo così e mentre la
racconto chi legge la intreccerà con immagini sue private, o pubbliche, a
facile portata di mano.
70 anni fa il campo di sterminio di Auschwitz
(capitale dell’inferno hitleriano) è stato conquistato e smantellato. I
prigionieri, ebrei, soprattutto, ma anche comunisti, oppositori politici, rom,
omosessuali, prigionieri di guerra, in sostanza “l’immondizia umana” secondo le
squilibrate teorie eugenetiche nazifasciste, furono liberati dall’Armata Rossa.
Pochi i “musulmani” sopravvissuti alla madre di tutti i pogrom. Molti
dei vivi non sarebbero stati creduti,
tornando a casa. Nonostante prove documentali agghiaccianti di ciò che accadde
nei lager tedeschi, polacchi, cechi, italiani… si vive a stento con quello che si è vissuto, si sopravvive,
in certi casi limite, a fatica.
Come sappiamo molti soldati traumatizzati
sopravvivono a stento, perseguitati da allucinazioni che li portano sull’orlo
della follia, agli shock bellici. Lo
psicodramma cruento allestito attorno a Bred Pitt e al suo carroarmato troppo
eroico nel pur modesto Fury ne offre
una pallida testimonianza. Figuriamoci poi sopravvivere alla fabbrica sadica del III Reich, funzionantissima e
criminalmente perfetta, come tante altre eccellenze tedesche.
I registi alleati, anche angloamericani, al
seguito delle truppe che liberarono la Germania dai mostri (Fuller, Stevens, Hitchcock,
Huston…) girarono in quei giorni immagini insostenibili – a prova di qualunque
negazionismo - dai centinaia di lager
impegnati nella soluzione finale, le
montagne di cadaveri, ossa e teschi, i corpi scheletriti, i “saponi”, le foto
degli impiccati e dei cortei di uomini e donne denudati costrette ad avviarsi
verso le docce a gas, il regno del famigerato Ziklon B e le ceneri ancora fumanti
dei forni crematori …Ma erano a fatti compiuti. Dal di fuori. Fotografie e documentari che hanno comunque
sconvolto il mondo nell’immediato dopoguerra e sono diventate patrimonio
dell’umanità non ancora disumanizzata (come sono ridotti i Maroni e i Salvini, e
i loro adepti e vestali). Intanto, processati e condannati a morte gli
assassini della Gestapo (non tutti), morti di vecchiaia (e qualcuno suicida) i
testimoni scampati allo sterminio, esportati dalle democrazie colonialiste, in
Indonesia, Algeria, Congo Belga e America latina e altrove le tecniche di
tortura più aberranti e molti esperimenti di annichilimento delle coscienze
“made in SS”, la memoria del mondo ha iniziato a offuscarsi, confondere,
dimenticare, rimuovere.
Silvano Lippi in " Dal Ritorno" |
Per reagire a questa pericolosa “distrazione
storica” negli ultimi anni si sono moltiplicate azioni di guerriglia
immaginaria e di controinformazione violenta.
Schindler’s list, La vita è bella di
Benigni. Ancora Steven Spielberg e la sua preziosa (anche se, nel metodo, non
esente da critiche) schedatura-archiviazione delle ultime testimonianze ancora
possibili affianca così una serie di autobiografie (in quinta elementare,
quando la scuola era davvero buona, noi leggevano alla Quinto Ennio di Roma, nel
1960, Si fa presto a dire fame di
Piero Caleffi) e di testimonianze orali che nel corso degli ultimi anni si sono
succedute, dal magnifico film di Sivan sul processo Eichaman, ai documentari di
Lanzmann, e in particolare alla intervista a Murmelstein, il rabbino austriaco
considerato il più colpevole dei
collaborazionisti, l’ultimo degli ingiusti, perché nel campo di
concentramento di Terezin/Theresienstadt compilava le liste dei morituri da
smistare a Buchenwald e a Mathausen. E a Cannes Il figlio di Saul, opera prima di Laszlo Nemes ha conquistato il
gran premio della giuria anche se il protagonista era un altro piccolo
collaborazionista “per forza”, un membro ebreo del Sonderkommando, cioè delle
squadre di prigionieri costretti a portare i prigionieri nelle camere a gas, a
ripulirle dei cadaveri, da far spedire poi nei forni. Nemes riesce a costruire
un piccolo allucinato meccanismo di autodifesa del prigioniero yiddish in
totale balia e poi di sublime vendetta etico-spirituale, in parallelo con
l’arrivo dei liberatori.
Silvano Lippi in "Dal Ritorno" |
Adesso arriva da Cinema du Réel parigino e dal
Biografilm Festival (5-15 giugno) di Bologna dove è stato proiettato il 6
giugno scorso (unico film italiano in concorso) e verrà replicato il 10, un
altro documentario su un sopravvissuto del Sonderkommando di Mathausen, il
toscano Silvano Lippi. Si tratta di un altro esempio di insostenibile ma necessario pezzo di “cinema orale”. E questa volta
non possiamo utilizzare il nostro bagaglio iconografico e la nostra memoria. Chi
racconta è più di un testimone di crimini commessi da altri. Questo film è
davvero shockante perché racconta di una stagione all’infermo che è durata
tutta la vita, e perché chi parla, viaggia e viene interrogato diventa una
macchina da presa che fa carrellate e zoomate sull’invisibile. L’inverosimile plausibile è sul trauma di
un umiliato e offeso, di un disumanizzato totale a cui non riuscirono a
togliere la scatola nera del senso
etico. Quello che i nazisti – sergentelli maggiori della violenza sadica - non ebbero il coraggio di riprendere e diffondere. Che speravano nessuno potesse rivelare. E che
invece questo sergentello maggiore destinato a morire, ancora incredulo,
racconta, filma, sollecitato dal regista, fabbricando immagini che scaturiscono
dalla triangolazione di pensieri, interferenze di tre menti: il regista, il
filmato, lo spettatore.
Depuis le
return-Dal ritorno di Giovanni Cioni,
italiano nato in Francia, è una coproduzione Francia/Belgio/Italia che si
avvale – come segmento italiano – della Citrullo international di Carlo Hintermann e Gerardo
Panichi spalleggiati da Rai Cinema (nuova, sorprendente, gestione). Dopo 60
anni di quasi totale silenzio (interiormente rumorosissimo) Silvano Lippi ha scritto un libro di
memorie, nel 2000, (edizione Multimage), ha iniziato a raccontare qualcosa agli
amici e ai parenti, ha avuto perfino il coraggio di tornare nel lager tedesco, lo
stesso dove gli morirono accanto tutti i suoi amici; quello dove fu torturato
con i fili elettrici nel sedere in stile Abu Ghraib; e mangiò la pseudo
minestra leccandola sulle pietre e nella terra; e dormiva, 25 chili di peso
mentre accanto tutti sognavano di mangiare qualsiasi cosa e qualcuno urlava
“mamma salvami!”. E dove staccò cadaveri avvinghiati tra di loro, in cerca
d’aria pura, e invece sanguinanti e in un mare di vomito e feci, soffocati
dallo Ziklon B (sono le immagini che Nemes si rifiuta di farci vedere in Il figlio di Saul, anche lì incollandosi
al volto del protagonista e tenendo i corpi nudi sfocatissimi nel fondo); lì
dove fu costretto dalle armi a affogare con le sue stesse mani un prigioniero
russo giovanissimo che aveva chiesto da bere e che lui finì in un secchio
d’acqua (questa imagine rovesciata in farsa è stata usata da Mohammed Zemmouri
in Gli anni folli del twist, una commedia sulle torture dell’Oas ai
partigiani algerini, con il feddayn che quell’acqua del secchio se la beve
tutta, perché la sete atavica è inestinguibile. Il senso tragico delle due
“scene” è identico). E si è messo a raccontare questa e altre esperienze terrificanti (e quelle,
esiziali, dei suoi amici di sofferenza, assassinati con l’acqua ghiacciata,
impiccati per le braccia fino a spappolare tutto il corpo, altro che la dolce
impiccagione….) agli studenti delle scuole primarie e secondarie e alla troupe
di Giovanni Cioni, prima di morire qualche mese fa, il 14 ottobre 2014, a 92
anni.
Le immagini di Duccio Ricciardelli e Giovanni Cioni non hanno temuto il primissimo
piano, cercando di investigare dentro gli occhi cosa Cioni tralasciasse di dire
perché indicibile, perché il reale del cinema è mentale; e così i fonici Saverio Damiani e Tokuhiko Katayama, vicinissimi alla sua bocca, a coglierne smorzie
sonore quasi invisibili, mentre Aline Hervé al montaggio ha scelto la strada
della ripetizione di fatti e aneddoti senza preoccuparsi di dare al materiale
un ritmo andante con brio solo per
stare dentro i tempi della lunghezza canonica di un doc sotto standard (52
minuti è il format tv).
Lippi viene fatto prigioniero in Grecia dai
tedeschi e dai repubblichini dopo l’8 settembre del 1943. Dopo un’odissea
tragica da un’isola all’altra del Mare Egeo, rischiando la morte per
soffocamento, schiaffato con altri 700 in carghi da 200 persone, e risparmiato
miracolosamente pur dopo aver ferito gravemente un ufficiale nazista con il manico
di un cucchiaio, passerà 39 mesi a Mathausen come addetto prima alle camere a gas e poi ai
forni crematori. Tornato a casa si è
sposato due volte, ha finito gli studi in ragioneria, trovato lavoro come
contabile presso l’ospedale San Giovanni di Dio, girato filmini amatoriali (che
Cioni utilizza non come biografico e nostalgico home movies, ma come footage
psicosomatico) avuto figli e nipoti, ma una parte del suo
corpo è sempre rimasta lassù. L’altra circondata da spettri capace di seguirlo
ovunque.
Cioni
che oggi vive e lavora in Toscana, ha firmato anche Per Ulisse (2013), Gli
intrepidi, Nous/Autres; Laboratori Uccellacci. Nyon nel 2011 gli
ha dedicato una retrospettiva.
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