Mariuccia Ciotta
Passeggiare nell'era giurassica non
genera più meraviglia come accadde ventidue anni fa con l'opera
pionieristica di Spielberg che ci mostrò il futuro del cinema nel
salto all'indietro, verso il passato e oltre, coniato con il primo
esperimento (dopo Tron) di computer-graphic. Riaccendere i
sensi alla vista dei giganti prima del tempo è il problema di
Jurassic World, quarto capitolo in 3D della saga ispirata al romanzo
di Michael Crichton, progetto rimasto a lungo in stand-by, dopo la
doppietta del regista di E.T e il terzo sequel firmato da Joe
Johnston, grandi incassi ma poco fascino, datato 2001.
Molti anni e molti cervelli hanno
covato le uova del T-Rex che si schiudono nei titoli di testa e
promettono un nuovo prototipo, esemplare unico creato in laboratorio
a base di innesti di Dna, pixel e motion-capture. A chi siano stati
applicati gli elettrodi per ricavarne e-motion e movimento è un
mistero, ma l'Indominus Rex, per gli amici I-Rex, è nato, ha la
pelle biancastra, i geni selezionati dalle miglior specie, rapidità
da velociraptor, capacità mimetica, potenza massima e un tocco
eccentrico ricavato dal genoma di seppia.
Il mostro celibe, incapace di relazioni
(ha divorato il fratello clone) fa spavento per un dettaglio: non è
un dinosauro. E' un ibrido, un tecno-animale dall'intelligenza
artificiale.
Qualcosa di innominabile deve essere
finita nella pentola del genista capo Henry Wu che se la gode nel
laboratorio annesso al parco tematico Jurassic World come ogni
scienziato pazzo pagato bene, e di cui si trova traccia nel filone
Isola del dottor Moreau e
nella cronaca.
Chris Pratt |
L'idea è buona. E anche lo slogan,
“Più denti”, alla base del rilancio dell'Isla Nublar, al largo
del Costa Rica, dove Crichton immaginò di aprire il villaggio
turistico per grandi emozioni e dove il magnate entusiasta John
Hammond (Richard Attenborough) sognò una convivenza ludica con i
rettili preistorici. “Più denti” è la richiesta del pubblico
che vuole sempre nuove attrazioni e spinge ogni parco a tema a
sfornarne di più spettacolari, anche a costo di sfigurarne l'anima.
Metafora dell'esistente, vale anche per l'ingordigia da botteghino.
Se ne avesse meno di denti, Jurassic World sarebbe quasi
all'altezza di un altro sequel spielberghiano, Lo squalo 3,
scritto dall'insuperato scrittore di Science Fiction Richard
Matheson.
“Divergenze tra l'Universal e gli
sceneggiatori” è il motivo ufficiale dei tredici anni di attesa e
l'alternarsi di nomi importanti (tra cui quello di John Sayles) fino
alla scelta di un quasi esordiente, Colin Trevorrow, al suo secondo
film dopo il premiato al Sundance 2012 Safety Not Guaranteed,
non a caso, un viaggio sulla macchina del tempo. Il trentanovenne
regista (co-sceneggiatore insieme a Derek Connolly) ha scelto il set
di una immensa Disneyland con una sola area tematica, Adventureland,
abitata da pacifici maestosi erbivori, plasmata sul modello
zoo-safari, visitabile a bordo di “girosfere”, veicoli a forma
di palla trasparente, e dotata di uno spazio per bambini invogliati a
cavalcare mini-dinosauri proprio come accade ad Anaheim (con i pony).
Set, lo zoo di San Diego, tra i più belli del mondo, i paesaggi
verdeggianti delle Hawaii (l'isola di Kauai), le pianure d'acqua di
New Orleans...
L'orribile macelleria di Jurassic
Park si muta in paradisiaco mondo della creatività invaso da
decine di migliaia di visitatori nella luce radiante del Pacifico e
sulle note esuberanti di Michael Giacchino che, come tutto il film,
rende omaggio al capostipite della serie, e cita il leit-motiv di
John Williams. A rinsaldare l'effetto remake è Chris Pratt, il
protagonista del blockbuster anomalo dell'estate scorsa, Guardians
of Galaxy, ironico danzante reebot di Guerre stellari.
Ma, ci vogliono “Più denti” e
Jurassic World si piega ai diktat dell'Universal. Non prima
però di aver scodellato il pezzo forte dello script. Owen Grady
(Pratt), istruttore di velociraptor, anziché di delfini, è in grado
di comunicare con i feroci e snelli dinosauri, battezzati Blue,
Charlie, Delta e Echo, sottomessi dall'imprinting, ammaestrati e
ubbidienti (quasi) al “maschio Alpha” davanti a una folla
sbalordita e all'eccitamento dell'affarista Vic Hoskins (Vincent
D'onofrio, The Cell, Men in Black) che li vorrebbe reclutare
al posto dei marines per un business di guerra.
Il contatto uomo-animale si produce
nell'impossibile non solo perché riscrive la (prei)storia, ma
perché prefigura il rapporto con il “selvatico”, la bestia che
non si può addomesticare, tranne se al posto della frustra a battere
sul muso non sia una carezza. E siamo dalle parti di Dragon
Trainer, il cartoon.
Owen Grady, il domatore di velociraptor |
A spazzare via l'incantesimo arriva la
fuga e la caccia all'Indominus Rex, così furbo da strapparsi dalla
carne il chip di rilevamento, e il film perde d'intensità con le
scene dejà vu. Due ragazzini inseguiti dal colosso dentuto,
peripezie varie con addetti al parco divorati a decine, il boss di
turno (indiano) della Masrani Corporation che oscilla tra la
protezione dell'investimento miliardario e quella dei visitatori
aggrediti dai dinosauri “cattivi” in combutta genetica con il
bestione, il nerd imbranato (anche se per una volta è una lei), e
tutti gli avidi malefici fatti a spezzatino.
La nota dominante, però, resta la
fanta-commedia, un gioco di rimandi con la memoria cinefila, a
cominciare dalla solerte Claire (Bryce Dallas Howard), capelli rossi
come il padre (Ron), responsabile delle operazioni del parco, che da
signorsì in tailleur si trasformerà in amazzone accanto al tenero
macho Owen, pronta a sfidare stormi di pterosauri in una
sequenza-tibuto a Hitchcock pur di salvare i nipotini.
Altra strizzata d'occhio riservata al
maestro Spielberg sta
nell'”attrazione” Mosasauro, coccodrillone nutrito a squali che,
appesi a una gru, lo fanno balzare a fauci spalancate dalle acque di
una immensa vasca. Promozione del tour agli Studios Universal dove
campeggia l'icona di Jaws.
Il kolossal costato 150 milioni di
dollari (più dei tre precedenti) rischia nella sua vocazione
meta-cinematografica di perdere proprio la meraviglia che non è mai
una formula, come credono gli executives. Se non fosse per
l'imprevisto, il fuori fuoco, l'incertezza emotiva degli esseri
resuscitati per incontrare l'uomo, per scambiarne lo sguardo
amorevole che li sedurrà tanto da tradire la specie e l'ordine
devastatore del “figlio della provetta”, l'unico alieno, lo
snaturato killer per piacere.
Spielberg, produttore esecutivo,
innesta suggestioni originali (la sua “unica” idea) come la corsa
degli uomini in motocicletta affiancati dai velociraptor, un affresco
videoarte nel buio della giungla. E nel finale ci vuole lo
striscione scolorito di Jurassic Park per
dare un fremito di nostalgia e ricordare il senso liberatorio
della generazione New Hollywood e il gioco anarchico delle immagini.
E' il T-Rex stilizzato nel celebre profilo, ombra cinese in fermo
immagine, a riprendersi il podio nell'ultimo ruggito solitario in
cima all'Isla Nublar, l'isola che non c'è.
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