sabato 6 giugno 2015

Cinema Komunisto. I film di propaganda della ex Jugoslavia. Anche se Tito fu piuttosto un dittatore da "capitalismo di stato"


Il regista montenegrino Velicko Bulajic
Roberto Silvestri


L’uomo politico più cinefilo della storia? Non è stato F.D. Roosevelt, né Mussolini, Hitler, Aldo Moro, il principe Sihanouk , Fidel Castro (che pure fu comparsa a Hollywood in gioventù, dicono le leggende) o l’eterno ministro Gava (che amava solo i film polizieschi e sulla Mafia)….
E’ stato Josif Broz, nome di battaglia Tito. Comandante partigiano. Segretario del Partito comunista Jugoslavo. Presidente della federazione jugoslava dal 1945. Capace di rompere con Stalin, ma mai dallo stalinismo e dalla ideologia anti operaia del lavoro e del “sacrificio patriottico”. Altro che comunismo (leggere a questo proposito il saggio di C.L.R. James Capitalismo di Stato e Rivoluzione mondiale che contiene anche acute critiche alla posizione della Quarta Internazionale su Tito), altro che ‘pace e pane’ visto che fu proprio il pane ad essere il bene di prima necessità più tassato... Comunque.  Nominato presidente a vita dal 1975 dopo essersi sbarazzato via via dei migliori quadri comunisti non stalinisti Tito morì nel 1980. Pochi mesi dopo andò in frantumi anche la federazione di Serbia, Slovenia, Croazia, Montenegro, Macedonia e Bosnia-Erzegovina.  
Fu di Tito cinefilo l’idea di costruire i più grandi studi cinematografici del mondo, e dotarli di tecnologie avanzate tali da poter rivaleggiare con Hollywood. Fu lui ad attirare, oltre che i capitali americani, anche le star più prestigiose del cinema mondiale, da Sofia Loren a Alain Delon, da Rock Hudson a Charlton Heston, da Liz Taylor a Alfred Hitchcock, da Franco Nero a Bondarchuk e a Lee Marvin.  E a volere il festival di Pola.
I suoi attori preferiti? John Wayne e Kirk Douglas…
Pochi uomini politici, oltretutto, potevano vantare l’amicizia o almeno l’ammirazione di Orson Welles, a lungo un estimatore (esagerato) del modello “autogestionistico” titoista, oltre che marito della cineasta jugoslava Odja Kodar: “Se la grandezza di un uomo si misura dalla sua attitudine al comando – afferma Welles intervistato da un cinegiornale d’epoca - non si può negare che il maresciallo Tito sia il più grande uomo al mondo”. Welles era di casa sui set jugoslavi. La sua interpretazione nella Battaglia del Neretva (il cui poster fu disegnato da Picasso) del leader cetnico, monarchico e anticomunista (e per questo pronto ad allearsi con gli italiani e i nazisti e a sterminare civili musulmani e croati) Draza Mihajlovic  (niente a che vedere con il neo allenatore del Milan) resta mitica. Anche perché politicamente fu proprio Orson Welles, amico e consigliere del presidente Roosevelt, che aveva convinto gli alleati ad appoggiare i partigiani di Tito e non le truppe apparentemente anti naziste e anti ustasha di Mihailovic. Ma torniamo al cinefilo.  

Tito ha visto (durante la sua presidenza) ben 8801 film, quasi uno al giorno (anzi uno a notte, spesso fonda), spesso accompagnando la visione con giudizi, appunti e commenti. In media 300 all’anno, più o meno quante recensioni scriveva Roger Ebert in 12 mesi sul Chicago Sun Times. Parola di Leka Konstantinovic, il suo proiezionista privato, che – come la burocrazia impone - ha dovuto prima di tutto cercare le copie dei film interessanti in modo da non fargli vedere uno stesso film due volte (se lo ricordava, anche quando l’aveva visto) e poi registrare tutte le seance  private, nella lussuosa villa belgradese di via Uzicka, distrutta dai bombardamenti Nato del 1999 e mai più restaurata. Ovvio che appoggiava la produzione di film di guerra centrati sull’eroica lotta anti nazista del Partito. Adorava che i numeri della targa della sua macchina, in questi film, fossero trascritti alla perfezione.


Abbiamo scoperto tutto questo in Cinema Komunisto, la “storia di un paese che non esiste più se non nei film”, documentario serbo del 2010 basato su materiali di repertorio e interviste ad hoc (fondamentale la lunga chiacchierata con Leka) che arriva solo adesso nelle sale italiane, ed è già un miracolo degno di San Gennaro, dopo aver conquistato in questi anni i festival internazionali e soprattutto statunitensi (Sundance, Chicago, Tribeca, prima di tutto e in Italia naturalmente Trieste).
L’intento del progetto (che ha richiesto svariati anni di lavoro e un lungo montaggio curato da Alexandra Milovanovic ) - una esplorazione nel passato e nelle proprie radici dimenticate o rimosse ma non solo nostalgico -  era quello di raccontarci cos’è stata la Jugoslavia, stato oggi defunto, o meglio nuovamente balcanizzatosi, attraverso la storia dei suoi studi cinematografici, gli Avala di Belgrado, “i più grandi del mondo”, anche se mai completati e oggi abbandonati e semi diroccati. E tornare ai miti e ai riti del socialismo da costruire in un solo paese, per quanto complicato, rivedendo le scene madri dei film più patriottici e anti-fascisti, il genere principale dell’epopea spaghetti-eastern, scovando i suoi divi, dando la parola ai registi e ai produttori di quella inebriante avvenura (o almeno così ci appare). Dal cineasta di regime, il montenegrino Veljko Bulajić, che firmò nel 1969, sfiorando l’oscar La battaglia di Nerevta,  con un cast mozzafiato (Orson Welles, Sylva Koscina, Yul Brinner…) al super divo nazionale Bata Živojinović, che poi è stato sinistramente impegnato, dopo Tito, nel partito nazionalista di Milosevic, fino alla bionda e adorata attrice Milena Dravic, al produttore Dan Tana, che poi se n’è andato a Los Angeles e ha aperto un ristorante di lusso e nella scena più divertente del film rifiuta a Spielberg il tavolo “perché, mi dispiace,  è tutto esaurito”,  fino a Gile Djuric, che diresse gli Avala facendoli decollare come polo di produzione internazionale degno di Hollywood e che veniva dai servizi segreti di Tito (la famigerata Ozna), anche se a un certo punto fu fatto fuori perché proteggeva cineasti e film scomodi anche se dal punto di vista dei profitti era un manager genial.
La regista Mila Turaijlic 
Già. Era Tito, personalmente, a occuparsi di tutto, “compresi gli arresti e le eliminazioni”, anche qui la testimonianza è di Leka che, durante il festival internazionale di Pola, la manifestazione più importante del paese, era particolarmente omaggiato, blandito e intervistato da tutti i giornalisti critici locali per conoscere quali fosserlo le vere impressioni di Tito sui singoli film nazionali e sapere, dunque in anticipo, chi avrebbe vinto l’Arena d’oro e l’Arena d’argento e chi avrebbe avuto invece nel future serie difficoltà professionali….    
Tito, la moglie e Sofia Loren nell'isola privata, anzi "del popolo" presso Pola
Lo “studio system” e lo star system della Hollywood dell’Est si mostrano dunque attraverso film e documentari finanziati dallo stato e ricordi dei protagonisti, senza abuso di didascalie e senza voci fuori campo a spiegare i fatti. Ecco, la natura, il senso e il funzionamento della macchina di potere titoista, centrata sull’uso massiccio della propaganda così come era stata congegnata da Stalin, ed ereditata da Tito, svelarsi attraverso le sequenze più significative (spettacolari, ironiche, involontariamente comiche, struggenti, feroci…) di 56 film e kolossal di guerra, anche lussuose coproduzioni internazionali (Marco Polo, con Anthony Quinn; Genghis Khan, con  Omar Sharif; Quo Vadis? Con Brandauer e Max von Sydow…)  montate con finezza e scrupolo certosino che certamente Franz Josip Tito avrebbe gradito. Su un punto però Tito non era stalinista al 100%. Nella gestione del culto della personalità. Infatti appare a tutto tondo in un solo film, per quanto nella parte eroica del partigiano ferito dal nemico che ha una sola missione da compiere. Raggiungere i patrioti feriti e portarli in salvo. Lui è interpretato addirittura dal divo gallese Richard Burton e il film è The Battle of Sutjeska (1973) di Detic: non una sola batuta del copione è sfuggita alla sua revisione, compresa la scena del suo ferimento che scandalizzò i suoi scagnozzi perché vagava tutto solo senza che nessuno andasse a soccorrerlo. Tito invece volle mantenere la scena: “Andò proprio così”.
 
Il proiezionista di Tito, Leka, e la statua del Maresciallo
La giovane regista serba del film, l’esordiente Mila Turjilic, nel suo curriculum il set di Apocalypto, ha affermato in una intervista che questo film è dedicato ai giovani dell’ex Jugoslavia e che non è interessata tanto a quello che ne pensaranno i più vecchi, quelli che hanno vissuto durante gli anni di dittatura (prima dell’era Milosevic e della attuale ‘democrazia’), quando, come ricorda con commozione il vecchio bacucco Emir Kusturica, nei tornei mondiali di calcio e basket, primeggiavano le squadre jugo.  In quegli anni, però, è bene ricordarlo alle nuove generazioni che forse non lo sanno,  chi primeggiava davvero erano proprio i cineasti della nuovelle vague jugoslavia, quelli che Tito aveva costretto al silenzio o all’esodo, e fatto bollare dai critici di regime come dissidenti, destri, nemici del popolo, “generazione nera” . Erano i geniali e coraggiosi allievi praghesi della scuola di cinema, come Makaveiev, Paskalievic, Petrovic e Sijan, e sapevano coniugare sguardo etico, lucidità storica, ferocia politica, umorismo sferzante e analisi concreta di una situazione concreta. Rischiando la galera. Polemizzando con il cinema ufficiale, con Buljiaic in particolare, e con molti di quei ridicoli e retorici polpettoni resistenziali. Erano tra i pochi a criticare la dittatura, niente affatto “del proletariato” ma del Partito unico infarcito di opportunisti piccolo borghesi e yes men. Per esempio Makaveiev, e molto prima di Wajda, aveva avuto il fegato di incriminare in Sweet Movie, i sovietici, e non i nazisti, per il massacro di ufficiali polacchi a Katyn. Ma Turijlic non vuole fare la storia del cinema jugoslavo. Gira negli studi abbandonati, triste e un po’ nostalgica, e riprende gli scaffali ancora pieni di armature, spade, elmi e vestiti medievali per le comparse dei film sui vichinghi o sullepoca feudale. Filma i muri diroccati, le bobine e i copioni per terra, le fotografie ingiallite. Come indica la citazione del filosofo Ranciere, messa sui titoli di testa “la storia del cinema è la storia del Potere che creare storia”.


Il poster di Picasso de La Battaglia della Nerevta  (1969)

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