Mariuccia Ciotta (*)
Il
trentacinquesimo lungometraggio targato Disney 
ha perso quella via 
intergalattica all’animazione che aveva proiettato  Il Gobbo di Notre Dame verso i virtuosismi
della computer graphic.  La prospettiva  impossibile della cattedrale di Parigi  aveva 
introdotto un nuovo spazio del wonderland,  anche se lo schermo  risultava già privo della profondità  di campo e i movimenti  erano già 
spezzati e stilizzati dalla macchina.. “Hercules”, creatura nata da  idee artistiche e produttive conflittuali,
è  l’espressione definitiva della
catastrofe.  Il mix  tra  le
forme dei classici,  le nuove
tecniche  del cartoon per abbattere i
costi e sfornare un titolo all’anno, e la necessità di adeguare lo stile
ha  materializzato un mostro di
proporzioni mitologiche.  Ercole, il  mega-fusto e la  sua pupattola Megara, detta Meg,  sono  i
personaggi  di una gara  tv di 
“Mister e Miss  Olimpo”. E la
sceneggiatura  (Bob Shaw, Dinald McEnery,
Irene Mecchi)  segue l’evoluzione di
un  campione di quiz, che, diventato
famoso, crede di essere un eroe nazionale. Mentre, lo dice Zeus, per diventare
qualcuno non basta il merchandising, né l’assalto di un gruppo di fans
sgallettate che, lo dice Macao, vorrebbero farselo.  Si capisce perché la Grecia ha declinato  l’invito dell’anteprima mondiale al
Partenone. I greci non  gradiscono  il circolo dei  divini balordi 
tra le nuvole. Gli autori hanno osato scomodare James Stewart per Ercole
e Barbara Stanwyck per Meg, il  goffo
romantico e la femme fatale. Lui  al  massimo sembra Armand Assante nelle vesti
dell’Ulisse televisivo,  un ex  affiliato di Cosa Nostra, e lei  la 
pupa del boss.
Dunque,
i classici.  Per non dimenticare Walt, la
produzione ha pensato a  “Fantasia”, anzi
al brano della Pastorale  con i cavalli
alati,  fotogrammi sublimi della storia
del cinema, e ha creato Pegaso, il cavallo di Ercole,  e il satiro allenatore di eroi  Filottete, detto Fil,  secondo il rotondo, ingordo Dioniso.  Entrambi disegnati dall’artista britannico
Gerald Scarfe,  illustratore satirico di
molte prestigiose riviste, scenografo  di
“Pink Floyd – The Wall”.  E’ lui la
chiave di volta di “Hercules”. L’uomo del nuovo stile aguzzo e ardito, dai
fondali elettrici e piatti, da adattare alla memoria del computer di Burbanks,  dove sorgono gli studi americani, espropriati
da ogni protagonismo creativo. Il film infatti è “europeo”,  confezionato in gran parte nella sede Disney
di Parigi. I registi della “Sirenetta, John Musker e Ron  Clements e il celebre musicista Alan Menken
danno il loro nome all’ibrido.  Le
creature classiche di Walt, che già sono state riprodotte (bene e male)
stilizzate in molti film  del dopo-’66
(anno della morte del papà di Topolino) 
tornano deformate, non ridisegnate, nella penna comica di Scarfe,  che non sa cos’è il paese delle meraviglie,
né  l’avventura degli oggetti che
parlano, né l’impossibile-plausibile, né 
l’antropoformismo. Sa solo che c’è una storia da raccontare con lo sghignazzo
indirizzato al pubblico adulto, allusioni erotiche  da bassifondi per yuppie, con la donnina
appuntita  del mega-fusto, pronta a
ogni  esperienza seduttiva pur di
incassare l’immortalità,  suggerita dal
dio degli inferi, Ade, il violaceo cattivo ricalcato sulla strega-piovra
di  Ariel. Per non parlare della sequenza
con l’Idra a mille teste , esempio soporifero delle tecniche digitali.  “Hercules” è il manifesto della Disney del  supercapo Eisner, il distruttore dell’eredità
disneyana.  Il  businessman in causa con l’ex braccio destro
Katzenberg, cacciato dalla major e ora alleato con Spielberg.  L’uomo che ha osato perfino distruggere il
paese delle meraviglie reale, Disneyland di 
Anheim, Los Angeles,  imponendo
nel centro magico della New Orleans ricostruita 
la più remunerativa attrazione di Indiana Jones, con  relative file schiamazzanti nel bel mezzo
della piazzetta .  Questo e altri i misfatti
di Eisner.  Per fortuna, Walt si è
rigirato nella tomba e ha fatto scendere gli incassi americani di
“Hercules”.  Walt Disney. quella firma
svolazzante ci parla ancora dell’isola che non c’è, dell’essenza del
cinema,  far vedere l’invedibile,  mostrare oltre il mondo silenzioso le
creature che altrimenti resterebbero mute e informi,  quando invece volano e non certo come lo
sguaiato pezzo di carta Pegaso,  e i suoi
padroni scarabocchiati  per facilitare la
serialità  idiota di  un cervello 
elettrico.      
pubblicato sul manifesto 30 novembre 1997 
 

 
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