Roberto Silvestri
Cannes
Oltre all'autofiction, il racconto
autobiografico che eredita dal documentario una forte dose di
credibilità (sto narrando cose vere, frutto della mia esperienza, il
quoziente di verità è alto, dovete credere a questa parzialità),
che ha raggiunto il vertice estremo dell' “impudicizia” (rubiamo
la definizione a Le Monde) nel film di Valeria Bruni Tedeschi,
in concorso quel che più attira nell'anno 2013, l'ispirazione degli
auteurs è la pena di morte,
legittimata rispetto all'infanticidio, all'omicidio, a sfondo
sessuale o di altro tipo, di un minore. Descrivete, con dovizia di
particolari o con il più rigoroso riserbo formale, il peggior dei
crimini concepibili (se vi fate un giro nelle carceri ne avrete
conferma) e chiedete allo spettatore: e tu che faresti? La maggior
parte dei paesi al mondo considerano che lo stato etico di diritto
non può equipararsi, degradarsi a set mentali individuali,
all'assassino. Dunque esclude la pena di morte: sarebbe una resa
della comunità alla deviazione, spesso sperduta nel buio, di un
singolo. La rivoluzione anti-psichatrica di Basaglia (riportare alla
collettività e alle sue responsabilità sociali la cura della
demenza infuriata, zona d'ombra razionalmente gestibile) non è
diventata senso comune globalizzato. Cuba, la Cina, gli Stati Uniti e
il Giappone ammettono la pena di morte. Qualcuno di questi paesi,
anzi, reagisce all'escalation dei serial killer e dei gesti folli
inconsulti diffondendo l'uso privato delle armi, meglio se ai minori,
invece di autocriticare le parti sbagliate del proprio sistema
sociale, della propria concezione del mondo. E dentro le democrazie
c'è chi si sente sedotto sempre più irresistibilmente dal fanatismo
e dal fondamentalismo che esige una giustizia sostanziale e non
formale per chi mette in discussioni i principi fondativi della
tradizione, islamica come cristiana come buddista. I film di Nicholas
Winding Refn (Danimarca) e di Takashi Miike (Giappone), hanno come
punto di partenza l'assassinio a scopo sessuale di due ragazzine. Il
primo, Solo dio perdona, già
dal titolo ci immerge in una atmosfera esotica, da western
all'italiana 'normalizzato'. Set Bangkok. Che è tutto un programma
di viaggi erotici organizzati dalle compagnie che hanno scovato un
guizzo di profitti nella prostituzione clandestina. La Thailandia si
è così conquistata una leadership poco invidiabile nell'immaginario
collettivo, raddoppiato dal peso specifico assunto dal peccaminoso
mercato della droga. E il film vampirizza il paese con grinta
colonialista. Notte, luci artificiali, agguati d'ogni sorta cruenta,
coltelli e spade volanti, spezzettamenti di arti, bordelli al neon,
deambulazioni zombie, karaoke, arabesque formali che ordinano per
ciascun personaggio una collocazione a intarsio dentro un viluppo di
ombre e chiarori di leziosa calligrafia. Ora l'occhio, ora il naso,
ora la bocca di ciascuno viene tagliati da un gioco luministico che
non crea personaggi immersi in una atmosfera 'noir', sottolineando
una stasi o un salto narrativo per far crescere la tensione, ma
immergendo tutti i personaggi, considerati burattini, maschere (la
boss della droga, i suoi sgherri, le vittime, i poliziotti...) in uno
stesso acquario variopinto e a incastro intercambiabile, ma
rassicurante, per quanti scempi vi si compiano, garanzia di un
viaggio turistico 'sicuro' che vende quel che promette. Una avventura
tropicale in slow motion. Mostri wasp vi si aggirano nella metropoli
tentacolare padroneggiando, anche con il ralenti, ogni spazio, dalla
thai boxe con il suo sistema di scommesse, al giro della coca, alla
sopraffazione sessuale più arrogante e devitalizzata. E' il
procedimento che in Drive
aveva spogliato in chiave formalista uno dei grandi e laceranti
drammi metropolitani della contemporaneità, Driver di
Walter Hill. Refn, con il suo attore feticcio Ryan Goslin, campione
della semplificazione gestuale, sempre alla ricerca di una emozione
radiante, almeno da 'Mamma ho perso l'aereo', qui esaspera il canone,
rubacchiando a Wong Kar Wai la grana del tessuto visuale setoso e
festosamente disegnata (merito o colpa di Larry Smith giocoliere
delle luci). Poi la redenzione, certo causata dal senso di colpa che
un calvinista estroverso come Rafn non si esime dall'esibire. Visto
che la triade di energumeni wasp composta da Julian il bello e Billy
il bruto, e capitanata da mamma Crystal (una Kristin Scott Thomas
sbiancata come Rita Hayworth) mostra, certo con la complicità della
luna piena, il suo lato peggiore, la micro gang della droga viene
facilmente stanata dal capo della polizia Chang, ex campione vero di
thai boxe, e in più esasperante spadaccino, che con qualche trucco
da infernale Quinlan (il film è dedicato al peso massimo del
trance-movie, Aronovsly), mette il sistema a posto. Quando il gioco
si fa duro, i più corrotti (e coperti dal re) iniziano a giocare. Il
trucco è semplice. Nella stanza della bambina stuprata e
annichilita, in un bagno di sangue, con accanto il corpaccione
ubriaco di Billy viene chiamato il padre dell'assassinata. “Ne
faccia quello che vuole”. Il padre esegue. Julian vorrà vendicarsi
e Chan, buon padre di famiglia, ottimo canterino dilettante, li
distrugge tutti. L'onore thai è salvato. La condanna a morte viene
così privatizzata. Un bel modo per tirarsi fuori dall'impaccio.
* * *
Molto
più angosciante e 'americano', nel ritmo, nel genere (noir
d'azione), nelle esplosioni spettacolari, nei raccordi, nella
organizzazione spaziale dell'immagine e nella sostanza conoscitiva e
etica, il film di Takashi Miike, Scudo di paglia, non
a caso distribuito internazionalmente dalla Warner
Bros. Un presunto
giovane serial killer di bambine, Kiyomaru, viene fermato dalla
polizia che lo dovrà trasferire nella non vicina Tokyo. Poco dopo lo
zio multimiliardario dell'ultima vittima, il vecchio, Ninakawa,
claudicante come Everett Sloane, offre una taglia di 76 miliardi di
euro a chi giustizierà Kiyomaru 'in accordo con la polizia'. Una
inserzione che, uscita su tutti i quotidiani (in Giappone li
leggono), rende particolamente vulnerabili, uno 'scudo di paglia'
facilmente sfondabile, i quattro poliziotti 'integerrimi' incaricati
del trasferimento, non più via aerea (sarebbe facile organizzare un
attentato), né via camion super scortato (assalito anch'esso), né
un treno superveloce (e, come si vede, ancor più facilmente
deragliabile) ma, a un certo punto, addirittura via taxi. Il problema
sono non solo i cittadini, inermi, almeno i nipponici, ma i
poliziotti (sottopagati) supersedotti dalla taglia, compreso qualche
insospettabile ragazzo della scorta. Il viaggio seminerà talmente
tante vittime, compresa una poliziotta di scorta onesta anche se
ambiziosa, che ci si chiede, nel foro della coscienza, visto che il
presunto colpevole dimostrerà con abbondanza di prove di essere
stato davvero lui l'assassino, anzi un mostro degno di 'M', infatti
continuano a prudergli 'le mani' e il resto, e visto che poi sarà
regolarmente condannato a morte da una corte 'imparziale', se non
fosse stato meglio giustiziarlo immediatamente, a taglia promessa,
invece di provocare tanto altro sangue, mettendo subito dentro anche
Ninakawa per turbative all'ordine pubblico e corruzione.... E persino
l'unico sbirro dotato di distintivo e morale, che sarebbe poi l'eroe
del film perché consegna il colpevole, non si chiederà mai se è
giusta o meno in se' la pena di morte (in particolare comminata a un
giovane evidentemente fuori di senno) ma solo se è legittimo
compiere il proprio dovere, e salvaguardare l'onore dello stato,
nonostante sia circondato da ispettori e superiori corrotti e
venduti. Si. E' giusto. Il codice etico lo impone. La tradizione. Il
bushido. Andiamo bene.
Nessun commento:
Posta un commento