Roberto Silvestri
Cannes
I cineasti extraromani che penetrano
nella esiziale bellezza della città eterna e delle sue 'gran dame',
rischiano la paralisi operativa creativa. Possono lasciarci le penne.
Troppa crudeltà in questi spazi Borgiani e controriformati. Alcuni
devono scappare. O trasfigurare, immaginare altro. Per questo ci
vogliono subito antidoti, camere di decompressione. Magari pregando
Luca Bigazzi di superare Woody Allen nel travestire Roma con un
mantello di luce così rossodorata da trasformare in una bomboniera
rococò perfino il bar di San Callisto, centro trasteverino odierno
della laboriosa comunità cinematografara e degli ultimi frikkettoni.
O schiaffandosi nelle orecchie simil-Bruckner o gregoriana a manetta
via ipod come se fosse acqua santa.
I migliori abitanti di Roma, dice il
luogo comune, sono sempre i turisti, vittime di un caos maligno
millenario. Uno, giapponese, all'inizio de “La grande bellezza”
(concorso) stramazza al suolo di fronte al panorama del Gianicolo,
magari pensando al conto dell'ultimo ristorante. Sorrentino, invece,
fa fronte. Un bel coraggio.
Ci vorrebbero miracoli, una bomba N per
liberare l'Urbe dal traffico e dai suoi esseri umani imprigionati e
ipnotizzati nell'inautenticità, restituendola al mondo, almeno a
quello digitale del 3d, ripopolata di fenicotteri e giraffe che
svaniscono nel nulla. Ovvio che i migliori sguardi, punti di
osservazione di tutto questo sfacelo debbano essere misantropi,
cinici, violenti, appassionati. O nazi-chic come quello di un Céline
che non trovi più, al giorno d'oggi, per i suoi viaggi al termine
della notte, pappe e baldracche pulciose e vitali come si deve (c'è
solo il mesto coatto del night club che è passato all'eroina, ma i
tre puntini di sospensione non ha lo swing per metterli). Di sensi
che sentano se stessi sentire, insomma, neanche l'ombra.
Da Céline riparte Paolo Sorrentino. Il
regista del Divo, già fuggito oltremare per rigenerare le pile,
con il suo alter ego campano Toni Servillo - che qui sembra uscito
dall'uomo in frac di Domenico Modugno - dopo la Roma imperiale e
molto maleodorante di Andreotti, rientrato nelle catacombe
paleocristiane e tra i templi barocchi, che per primi elessero la
vibrazione (tra spazialità interna e spazialità esterna) a
categoria estetica, a terremoto dello spirito (sognando i Beach
Boys), ora abbassa il tiro divistico. La Roma è meno magica di un
tempo, nonostante appaia Venditti.
La grande bellezza plana così
tra i magnifici orrendi quartieri alti, negli attici e sulle terrazze
molto frequentate dai cineasti alla moda (fin dall'era Ettore Scola),
dai condoni amministrativi compiacenti e da un esercito di figuranti
dell'intellettualità artistica più o meno all'altezza o
dell'aristocrazia più o meno sedicente di sangue. O di partito (il
mitico ras Scajola) o di gang. E gioca al teremin con tutti loro. Li
fa vibrare. Come negli show tv di oggi.
Tutto dentro un bagno di armonie
polifoniche, frasi celebri di scrittori illustri incorniciate e pezzi
d'arte antica collezionati sui muri di questo film, quasi a
purificarsi con la gloria passata, con la bellezza vera autenticata,
e a esorcizzare (c'è tanta voglia di esorcismo, di messa nera nel
film) l'orrore odierno, la bruttezza morale elevata a chic, che
Sorrentino dimostra comunque di maneggiare come il papa, tuffandovisi
dentro come lo storico tuffatore nel Tevere: si veda la satira
appositamente puerile della Abramovich, quella clamorosamente
infantile della bimba scarabocchiante informale (non dico Brandi,
forse Sgarbi?), la parodia di Rosa Fumetto magistralmente fabbricata
da Sabrina Ferilli. Già. La chiacchiera, la curiosità, l'equivoco,
il gossip finalmente sono presi sul serio, e a dosi da pusher. E Jep
Gambardella (Toni Servillo), il gagà da paese che ci nuota dentro
come un pesce nell'acqua, ne fa un tragitto di crescita spirituale da
niente, svolazzando proustianamente all'indietro, verso la dolcezza
del primo amore. Lui, che sa come burlarsi anche del burlesque. Gli
altri ci cascano, come fosse un lavoro. Lui sa come irridere i
radical chic senza disincanto (lo ha letto sul 'Foglio') e nello
stesso tempo affezionarsi all'unico personaggio klossowskiano
disponibile (proprio lei, l'ipocrita super, una stupenda, superba,
settantasettina, 'impegnata', anche coi titoli d'azione, Galatea
Ranzi) che lo ha costretto già a un monologo pateticamente corretto
e di misoginia d'altro secolo (applaudito solo dal pubblico Fn di
Cannes).
Un puzzle di siparietti, alcuni buffi, altri pensosi, di evidenziato stampo abusato felliniano (i parties quasi carnascialeschi, le cene chic con prelato, la Santa pluricentenaria dei poveri, i fantasmi autobiografici, la donna gigante e la donna in miniatura, anche se, come notava Preminger, mai fidarsi di figuranti non credibili, questi non sembrano sotto paga da Canale 5), altri di celata volgarità Mediaset (il mago esoso del filler di acido iarulonico, il trenino che viaggia verso il nulla cocainico, le parodie dell'intellettualità frivola, che neanche Sordi, l'autocitazione del funanbolo del pallone...) per raccontarci la Roma alemanniana di oggi in un'estate di notte, molto preoccupata per lo stato di salute di Totti, vista dai colli o dai piani alti. Una geografia di palazzi inaccessibili violati, di corpi mutanti e chirugicamente corretti che, ahimé, invece di inebriarci con le armi del cinema verso i mille colori del nulla, la distrazione, il vedere erratico, la curiosità dell'innovazione, dei sensi affilati e prensili, si ripiega nel nostalgico (si veda il personaggio di Carlo Verdone che torna al paesello, credendo che non sia un rientrare nella 'stessa Roma') o nel raccoglimento, nella chiacchiera come vacuità non come dilatazione delle nostre capacità percettive. “La chiacchiera è alla portata di tutti, è l'estrema pigrizia che esime da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto”. Da Cèline a Heidegger. Invece il 'non lavoro' di cui Jeb è maestro (un po' come mezza Italia) esibisce i suoi caratteri affermativi attraverso le figure della vita inautentica, nell'equivoca sostituibilità di tutti i significati.
Un puzzle di siparietti, alcuni buffi, altri pensosi, di evidenziato stampo abusato felliniano (i parties quasi carnascialeschi, le cene chic con prelato, la Santa pluricentenaria dei poveri, i fantasmi autobiografici, la donna gigante e la donna in miniatura, anche se, come notava Preminger, mai fidarsi di figuranti non credibili, questi non sembrano sotto paga da Canale 5), altri di celata volgarità Mediaset (il mago esoso del filler di acido iarulonico, il trenino che viaggia verso il nulla cocainico, le parodie dell'intellettualità frivola, che neanche Sordi, l'autocitazione del funanbolo del pallone...) per raccontarci la Roma alemanniana di oggi in un'estate di notte, molto preoccupata per lo stato di salute di Totti, vista dai colli o dai piani alti. Una geografia di palazzi inaccessibili violati, di corpi mutanti e chirugicamente corretti che, ahimé, invece di inebriarci con le armi del cinema verso i mille colori del nulla, la distrazione, il vedere erratico, la curiosità dell'innovazione, dei sensi affilati e prensili, si ripiega nel nostalgico (si veda il personaggio di Carlo Verdone che torna al paesello, credendo che non sia un rientrare nella 'stessa Roma') o nel raccoglimento, nella chiacchiera come vacuità non come dilatazione delle nostre capacità percettive. “La chiacchiera è alla portata di tutti, è l'estrema pigrizia che esime da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto”. Da Cèline a Heidegger. Invece il 'non lavoro' di cui Jeb è maestro (un po' come mezza Italia) esibisce i suoi caratteri affermativi attraverso le figure della vita inautentica, nell'equivoca sostituibilità di tutti i significati.
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