di Roberto Silvestri
Proprio mentre la città si riaccostava con la migliore
sinistra laica, dopo la parentesi funesta di questi 5 anni, atroci per la
cultura, e la Lazio umiliava la Roma, è morto a Roma, forse un po’ più riappacificato con i suoi
concittadini, uno dei protagonisti più abili, simpatici e spregiudicati della
‘rivoluzione Massenzio’, Angelo Vittorioso. Era il ‘Little Tony dei cinefili’,
un appassionato studioso di frontiera, un carissimo amico a cui invidiavo curiosità
extraoccidentale, sapienza del territorio, abilità organizzative ‘rock’ e
stomaco ‘heavy metal’ tali da smontare e bypassare qualunque ostacolo
burocratico capitolino. Ed erano tanti, allora sì che c’era la Casta, ed era
pure principesca e nerissima. Mi ricordo le litigate con i distibutori quando
chiedevamo per il club-cine Politecnico dei film che per noi erano magici e per loro
vecchi fondi di magazzino, che so, un vecchio Mario Bava, e ci chiedevano la stessa tariffa di noleggio che
pretendevano per un blockbuster dell'Adriano…
La storia di Vittorioso è lunga, ma importante.
Comunista, apparentemente il tipico romano da ‘sezione’ periferica, buon
giocatore di football, laziale - quella strana forma di dandysmo calcistico, umorismo blasé, una generazione più adulta e
pragmatica della nosta, quella dei ventenni di allora, Bruno Restuccia,
Giancarlo Guastini, Gianni Romoli, Silvia Viglia e Roberto Farina (che di quel
capitolo sono stati i cosmonauti più fantasisti e creativi) fu il vero pioniere,
alla fine degli anni sessanta, nella riconversione dei cine-club da vigili
urbani dell’immaginario, cattolici o comunisti che fossero, in spazi dinamici,
laici ed esplorativi. Era stato infatti uno dei protagonisti della salutare
‘rottura Aiace’.
Roma in quegli anni (ma anche Genova, Torino, Napoli, Padova,
Milano, Bari…) fabbricava consumo vivo e spregiudicato attraverso un network,
muscolare e sudato, non ancora immateriale, di cinema d’essai. E restano mitici
gli affondi cosmopoliti della sala più incandescente di tutte, il Nuovo Olympia
(dove Godard, Rocha, Antonioni, Bunuel e Fellini scatenavano tifo da stadio). O
del Planetario, che negli anni sessanta ci fece scoprire Dreyer e Bergman e gli
espressionisti tedeschi. O, nei primi anni 70, del Rialto, oggi spazio fantasma,
dannato nell’eternità per aver scodellato a un passo dal Vaticano una delle
rassegne storiche sul cinema pornografico radicale e post maschilista (Gola profonda, The Devil in Miss Jones,
Behind the Green Door…) che non pochi guai gli procurarono, ma che per
miracolo traghettarono la provinciale Roma in un ‘mood’ metropolitano. Senza
Aiace romano niente Massenzio e niente Estate romana.
Una nottata tipica di Messenzio 1976 |
Certo adesso, ormai, il circuito d’essai è stato divorato e anestetizzato dalle sale,
per lo più ex parrocchiali pentite, del colosso romano ‘Circuito Cinema’. Ma
allora costituì l’anello mancante tra la sala commerciale e il club-cinema, una
zona liberata d’immaginario che, tramite tessera associativa, permetteva la
visione di film che non dovevano sottostare alla censura preventiva o di
classici espulsi dal commercio mercantile e che nessuna tv privata allora poteva
rigenerale. Urrà! Finalmente si stabiliva un colloquio quotidiano con le
immagini fertili del passato e vive, e il tutto in contemporanea con Londra,
Parigi, Berlino.
Arrivarono fiumi di Andy Warhol, opere rivoluzionarie
(pochissime, solo 3 erano tollerate da Mao) della grande rivoluzione culturale
proletaria cinese, i classici del cinema muto, strappati con la forza alle
cineteche, nazionai o private, rock movies coi Cream e Jimi Hendrix, i più
‘pazzi’ e lisergici underground nostri e altrui, il ‘canone rioluzionato’ dagli
autori atipici nordamericani (Fuller, Siegel, Aldrich, Corman, Altman), Carmelo
Bene, Jean Marie Straub, le prime agguerrite femministe, i film arabi turchi e
africani, Mario Schifano… testi, più che commerciali, che venivano letti in
maniera trasversale o travisati fecondamente, contro se stessi, da abili
decodificatori appassionati come (gli scomparsi) Michele Mancini, Maurizio
Grande, Gianni Menon, Giuseppe Turroni, Enzo Ungari.
Angelo Vittorioso aveva fondato con Enzo Fiorenza una
rivista, Altro Cinema, più militante,
pungente, estrema e teenager di quelle nate dalla diaspora Aristarco (Cinema nuovo e Cinema sessanta, della vecchia sinistra; Filmcritica e Cinema e Film
della nuova sinistra sessantottina) e laboratorio di giovanissimi dagli occhi,
dal cuore e dalle orecchie aperte (Paolo Isaja, oggi tra i nostri migliori
documentaristi; Gian Domenico Curi e Teresa De Santis che scovavano a Londra e
a New York gli ska, punk e rap moviea, e a Brixton le immagini giamaicane e
molto fumate della generazione reggae. Dietro tutto questo c’era Angelo
Vittorioso.
il manifesto di Massenzio 1981 |
Non è un caso che quando Renato Nicolini decise di negare i soldi
agli esercenti che, per tradizione, ogni estate andavano a battere cassa al
comune di Roma per chiedere un finanziamento pubblico e coprire così i loro (colpevoli)
buchi di incasso (l’aria condizionata era considerata una americanata), si
rivolse ai club-cine (L’occhio l’orecchio la bocca, il più camp, con le sue
maratone di peplum e di gaymovie; Il Politecnico, il più obliquamente
hollywoodiano e il Filmstudio, il più avantgarde, ma ‘era Aldo Moro tra i soci)
e ai più esperti Angelo Vittorioso e Fiorenza e gli chiese: ‘se questi soldi li
do a voi invece che all’Anica-Anec riuscirete a organizzare qualcosa di
favoloso per la città?”
E fu Massenzio. Costato niente e che capovolse l’ordine
dei desideri e la gerarchia urbana della città. Per una volta in grado di
progettare l’utopia di un altro modo di vivere, di spostarsi, di comunicare, di
divertirsi - basso costo - travestendosi da pubblico in cittadinanza critica, globalizzazione 'dal basso'. E fu l’Estate Romana, i poeti di
Castelporziano, il Napoleon di Abel Gance, quell' ultimo omaggio d’addio alla grande
tradizione italiana della commedia, della farsa comica, del western spaghetti e
dell’horror e della fantascienza, dei generi che altri, la new Hllywood,
avrebbero sviluppato. L'elogio di un cinema industriale che stava morendo, manipolato male da una nuova casta a venire. L’equivalenza schermica, dal 1977 e poi per venti anni, nel
flusso fertile del consumo cinematografico, di una società in lotta che non aveva paura
di fabbricare 'crescita', sviluppo nello scontro, nell’attivazione estetica di tutti i
sensi esistenti e di altri a venire.
Angelo
Vittorioso, per decenni, al fianco di Francesco Pettarin, è stato l’organizzatore
dell’Estate romana, e il presidente della cooperativa Massenzio. Una
architettura mutante e desiderosa di scomparire se le tv commerciali, a
pagamento e internet avessero trasmesso anche solo un po’ di quella anima politica
che le aveva sollecitate. Non è andata così. Ma non è detto che il progetto di
Angelo non tornerà ad essere Vittorioso.
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