Roberto Silvestri
CANNES
Jasmine Trinca |
Un coetaneo infermiere
(Libero di Rienzo) la coinvolge nell'affare illegale dell'eutanasia
(di cui nulla deve sapere il padre, o l'amante o le amiche): non deve
essere più redditizio, negli ospedali, scommettere sull'ora di
morte dei pazienti gravi.... Irene, un'ombra di dolore nello sguardo,
diventa così 'Madame Morte'.
Si tratta di procurarsi, e poi
iniettare lentamente, un barbiturico introvabile dall'autopsia e sul
mercato (se non in Messico, il paese degli scheletri danzanti), e
aiutare - semplice il rito - i malati terminali consenzienti, che
presto saranno ridotti allo stato semivegetativo a passare a
migliore vita se pure la famiglia è d'accordo.
Una
professionista in carriera, questa enigmatica se non nell'ostinazione
Irene, capelli da maschietto, con la carta Millemiglia sempre pronta
e un codice d'onore immacolato. E anche la regista del film raddoppia
il pudore: come nella tradizione del western classico non vedremo mai
in campo, nella stessa inquadratura, chi spara e chi muore,
l'avvelenatrice e l'avvelenato cadavere. Solo i preliminari.
Ma un
giorno Irene, pseudonimo di lavoro Miele, che vede nel frattempo
sbriciolata la sua vita privata, sarà costretta a fare i conti
con la propria coscienza - l'eutanasia in fondo è permessa in
alcuni stati del nord Europa e ci si sta dividendo anche in Italia
sulla sua legalizzazione - perché un cliente, il signor
Grimaldi (Carlo Cecchi), architetto di fama, non è affatto
malato, sta bene fisicamente, solo ha deciso di svanire. E la
depressione non è contemplata nel decalogo di Irene. Libero di
uccidersi lui, libera di salvarlo con ogni mezzo necessario lei. Che
ha volontà di potenza da vendere. E che sa declinare un
raggiante sì alla vita senza esserne una apologeta frivola.
Tratto liberamente da un recente romanzo, attualizzato da tragici,
recenti suicidi illustri l'incastro emozionale è doloroso e
penetrante, e viene accentuato dalla fotografia dolce e fredda di
scuola esteuropea (Georgely Poharnok), da una cinepresa innamorata di
Miele quanto di Irene, dal montaggio schizofrenico (Giorgio
Franchini), a volte addirittura sfrontato, più che
semplicemente nervoso (il passaggio tra Città del Messico e
una piazza di Forlì è piuttosto ardito ma efficace) ma
anche capace di fluidità romantica.
Esordio felice nella regia
della nostra attrice più cosmopolita e formalista Valeria
Gollino - smarcatasi, come Quadrado, dal nostro cinema medio affogato
da una nera poltiglia nauseabonda di personaggi femminili subdecenti
- questo Miele ha un design adeguato al mercato internazionale,
è al Certain Regard di Cannes dopo una uscita brillante in
Italia, perché non spettacolarizza la morte ma problematizza
l'individualità senza aura di una operatrice sanitaria anche
se clandestina.
Perfetta la performance di Jasmine Trinca, al massimo
della concentrazione doppia, e talmente magnetica nel ruolo di 'morte
al lavoro' da farsi carezzare amorevolmente tutto il tempo dalla
macchina da presa con microaffondi arditi, che ne segnalano o ne
imprimono soprassalti, paure, indecisioni, distrazioni. Neanche fosse
Isabelle Huppert.
Autoprodotto dalla sua (e di Riccardo Scamarcio)
Buena Onda e affiancato nella scrittura da un duetto non conformista
(Francesca Marciano e Valia Santella), solo a tratti (il finale
islamico, con il volo del foglietto) riportato all'ordine del
racconto, il film di Valeria Golino gioca tutto sulla apparente
contraddizione tra “miele” e “morte”, tra luce e buio, tra
leggerezza e tenebre. Questo legame tra l'eccessivamente dolce,
solare, silvestre acquatico (gli esterni privati di Irene) e la
putrefazione interiore dei cadaveri, analizzato con rigore da
filosofi e antipsichiatrici estremi (Deleuze, Guattari, Cooper) in un
magnifico documentario di Alberto Grifi (“A proposito del dolce”),
dallo straordinario, stoico suicidio di George Sanders (che non era
neppure depresso 'dopo una vita così felice”) e dalla
proliferazione sconvolgente di suicidi kamikaze politico-religiosa
(con ingresso glorioso e agevolato nel paradiso dei beati) trova qui
una sintesi visuale di sconvolgente bellezza, partecipazione e
candore. A parte una strana battuta di Cecchi che alluderebbe al
fatto che tra depressione e non avere figli ci potrebbe essere un
nesso causale, post hoc ergo propter hoc...
Valeria Golino |
Nessun commento:
Posta un commento