“Molti dibattono tra Casablanca e Quarto potere. Io non ho dubbi: è Jason and the Argonauts il mio numero uno”.La pensa proprio come John Landis che non ha diretto quasi un film senza la presenza-cameo di Ray (Spie come noi, Beverly Hills Cop III, Burke & Hare), come George Lucas (“Senza Harryhausen non ci sarebbe mai stata l’epopea di Guerre Stellari”), e come Olivier Assayas: Harryhausen non è il discepolo di O’Brien, ma l’allievo che ha superato di gran lunga il maestro e che ha inventato con gli effetti speciali visivi moderni il cinema contemporaneo. A lui devono tutto tutti, non solo Tom Savini, Rick Baker e Stivaletti, ma Sam Raimi, George Lucas, Guillermo Del Toro e la scuola inglese di animazione dei vari Nick Park e Ivo Caprino. Nel 1992 l’Academy consegnò a Harryhausen il premio Gordon E. Sawyer alla carriera e dieci anni dopo i giovani animatori Seamus Walsh e Mark Caballero aiutarono Harryhausen a terminare The Story of the Tortoise and the Hare, sesta e ultima delle sue fiabe corte iniziata nel 1952. Infine Steven Spielberg è riuscito a realizzare il sogno irrealizzato della sua vita. La guerra dei mondi, da Wells. (r.s.)
domenica 12 maggio 2013
Requiem per Harryhausen
Vi ricordate in Matinée di Joe Dante (1993) il "film nel film", l’horror in bianco e nero Mant! con le creature spassionatamente mostruose fatte in casa che sconvolgevano ed elettrizzavano i teenager alle prese con il doppio gioco della paura? L’omaggio era all’antenato della new Hollywood, al Méliès californiano inventore di trucchi e effetti speciali, il losangelino di origini tedesche Ray Harryhausen (1920-2013). Già, un coetaneo di Andreotti (sono morti insieme) ovvero come assegnare allo stesso spazio-tempo di vita intenzionalità opposte: l’apertura al sogno libero e al lavaggio dei panni più sporchi, da una parte; la chiusura di ogni recinto e la pulizia ipocrita e sospetta, dall’altra. In comune però la pazienza, la politica dei piccoli passi, l'invenzione di soluzioni eccentriche, solo con le dita...La leggenda vuole che Harryhausen preparasse, e tutto in famiglia, solo 13 studiatissimi fotogrammi di ‘model animation’ al giorno. Allievo di bottega di Willis O’Brien, si può dunque considerare l’anello di congiunzione tra King Kong - amo la grande bestia che è in noi e di cui Hitler fu solo una funebre parodia da sergente maggiore - e Joe Dante, segna il tragitto tecnologico dalla elettricità dell’era Fred Astaire all’elettronica d’epoca James Cameron/Peter Jackson che attraversa il 68 e conquista, come unica grande, immensa zona ancora immateriale ‘liberata’, Silicon Valley. Non a caso il cineasta americano d’Inghilterra Terry Gilliam ha dichiarato: "Quello che oggi noi realizziamo con i computer Ray lo ha fatto digitalmente molto prima di noi, e senza computer. Solo con le dita". E John Lasseter in Monsters, Inc. rende omaggio a Harryhausen nella scena in cui Mike Wazowski e Celia Mae vanno al sushi bar, l’Harryhausens’s.
Stop Motion Model Animator
Vedere 100 volte di seguito King Kong e studiare il lavoro certosino di O’Brien sul primate gigante e peloso aveva fatto dunque molto bene a Ray, tredicenne e quattordicenne: quel capolavoro penetra nell'essenza della della società di massa, indocile al suo status. Ray ruba, adolescente appassionato, il 16 mm a un amico della madre e si dedica allo stop-motion, animando, micromovimento dopo micromovimento, ciò che animato non è, pupazzi, peluche, oggetto di casa, giocattoli, soldatini (ricordate Small Soldiers?). E’ il Dyanimation o Dynorama, stop motion-no stop emotion - diventerà la sua scienza esatta (l’animazione di modelli tridimensionali: Pixar!). La famiglia è povera, l’Ucla di Los Angeles è costosa, ma seguendo i corsi notturni studia fotografia, trucco, ceramica e scultura. Già, le migliori scuole di cinema non insegnano cinema. L’artista eccentrico ungherese in esilio George Pal lo chiama per migliorare i suoi pupazzi, i Puppetoons, realizzati a colori per la Paramount, ma scoppia la guerra. L’Europa sarà un corso rapido di geografia del dolore. Al fianco di Frank Capra, Ted Geisel (Dr. Seuss) e Dimitri Tiomkin imparerà che le forme danno un senso in più alla vita, e viceversa e girerà cartoon per i militari. Girerà anche delle piccole fiabe con la sua 16mm, i Teething-rings. Nel 1949 proprio con Willis H. O’Brien (conosciuto nella bottega Puppetoons) torna allo scimmione per Schoedsack, un regista che si trova sempre agli appuntamenti con la storia dalla parte sbagliata della barricata, quella più armata, ma anche dalla parte giusta dell’immaginario, quella più disarmante. Mighty Joe Young (Il re dell’Africa) vince l’Oscar per gli effetti speciali, lanciandolo definitivamente perché O’Brien vuole che affianchi il suo nome sui credits. Quel tipo di animazione ibrida e sperimentale, in split-screen, a schermo diviso che poi si raccorda alla recitazione ‘live’, appassiona anche i budget divaricati di Disney e Corman, rigeneratori di una industria allora a corto di idee. La morte di Roosevelt, nel 1945, aveva traumatizzato il paese attivo e deformato nel profondo il sistema sensorio e nervoso dell’America tutta. Non si può che raddrizzarlo con una caritatevole quantità b di fantasy, fantascienza, mitologia, horror e super eroi, le sole terapie intensive degli anni 50 del terrore atomico e della guerra fredda.
Blue-Ray: Sinbad, Giasone e gli Argonauti
Il nome di Harryhasen comincia a diventare sempre più grande sui titoli di testa di pellicole di b-movie distribuiti da Warner e Columbia in una Hollywood in crisi nera (tanto che Ray finirà per vivere a Londra dal 1960). Il produttore per la pelle Charles H. Schneer gli affiderà l’intera sezione make up e gli effetti speciali (in sostanza una credibile gigantesca piovra) di It come from beneath the Sea (di Robert Gordon, 1956) dopo averlo visto all’opera in The Beast from 20 000 Fanthoms, basato su un racconto del suo amico Ray Bradbury, su un dinosauro che distrugge New York. Da allora, e per la prima volta, un mago degli effetti speciali, sarà il coproduttore di tutti i suoi bis-film: Earth versus the Flying Saucers (di Fred F. Sears, ‘56), con Washington rasa al suolo dai dischi volanti (Tim Burton lo cita apologeticamente in Mars Attacks! E nel blue-ray i due ne discutono); Twenty Million Miles to Earth (Nathan Juran, ‘57), con il marziano gigante che lotta contro un elefante e sbriciola il Colosseo di Roma come neanche Bruce Lee. Ma il ‘monster on the loose’, in piena potenza distruttiva, con il disgelo, va in cantina. Ed ecco il ciclope gigante, la principessa miniaturizzata, lo scheletro spadaccino, il dragone del capolavoro a colori The Seventh Voyage of Sinbad (Nathan Juran, 1958); The Three Worlds of Gulliver (Jack Sher, 1960), con le musiche, ormai fisse, di Bernard Herrman. In Mysterious Island (del black listed Cy Endfield, 1961), ormai pieno sconfinamento nel genere avventuroso-femminista, c’è però una gigantesca gallina feroce e nei panni del capitan Nemo addirittura Herbert Lom; scaraventato nel mondo della mitologia greca è il suo capolavoro, con l’esercito di scheletri (molto disneyano, la battaglia è costata 4 mesi e mezzo di lavoro), l’Idra dalle sette teste e un gigante di bronzo, Jason and the Argonauts (Don Chaffey, ’66). Unico film in Panavision della carriera, invece, quello ‘spaziale’, First Men on the Moon (Nathan Juran, ’64), mentre dinosauri, che piaceranno molto a Steven Spielberg, e Rachel Welch, giganteggiano nel trionfale e giurassico One Million Years B.C. (Don Chaffey, ’66), mentre un western fantastico con i cawboy messicani e i mostri preistorici in duello all’Ok Corrall è Valley of Gwangi (James O’Connolly, 1969), eterno progetto di O’Brien, finalmente realizzato (scena clou un allosauro che distrugge nel 1912 cattedrale spagnoleggiante e plaza de toros), una lontana ispirazione per il recente Cowboys vs. Aliens. Dopo Frog (Freddie Francis, ’70), John Philip Law lotta contro una statua della dea Kali e le sue sei braccia in The Golden Voyage of Sinbad (Gordon Hassler, ’74), mentre a Caroline Munro è affidato il siparietto sexy. In Sinbad and the Eye of the Tiger (Sam Wanamaker, ’77) c’è uno strano troglodita, la tigre furiosa del titolo, Patrick Wayne e la figlia di Tyrone Power, Taryrin. Gran finale, mega budget, superstar in Clash of the Titans (’81), dall’esito trionfale al botteghino. Quando a Tom Hanks chiesero quale fosse il suo film preferito, rispose:
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