Non mi piace il verdetto, ma è 'perfetto'. Il grande successo di pubblico e di stampa e l'unanimità ecumenica con la quale è stato accolto il Palmares della giuria, per 4/9 formata da cineasti extraoccidentali, ottimo, senza alcun critico o storico cinematografico, pessimo, e il trionfo, dopo 5 anni di una opera francese, scandalosa e sentimentale, ma anche digeribile come un prodotto tv generalista, proprio come all'epoca di Brigitte Bardot, non possono nascondere le perplessità che la formula del festival - l'esibizione annuale della potenza creativa francese di 'qualità' e della gigantesca macchina promozionale della sua industria - suscita all'occhio imparziale e preoccupato per un ruolo subalterno che il cinema europeo, viziato di statalismo, sta volontariamente assumendo.
Si dice che quasi tutti i film in gara meritavano un premio. E' così solo quando l'ambizione di attraversare territori più spigolosi viene narcotizzata da un flusso più regolare e omogeneo. Ma a fine della festa cosa consiglierei agli amici? I film di Soderbergh, Haroun, Payne, Coen, Jia Zhan ke, Bruni Tedeschi. Ovvio Jarmusch e Polanski. Forse Desplechin (che però non ho visto). Meno della metà. Come in una normale edizione di Berlino e Venezia. E, fuori gara, troppi film si uniformano allo standard del film da festival.
Del vincitore Kechiche, poi, mi è piaciuto più il discorso durante la premiazione, un incoraggiamento forte alla rivoluzione per la democrazia e per la libertà nel Maghreb, del suo Adéle, per quanto sia una lancia spezzata in favore della libertà e dell'insorgenza delle donne, e un omaggio alle teenagers francesi. Ed è stato un gustoso atto di sadismo, da parte della giuria, rendere complici della fase artistica le due performer. Una palma d'oro, per una volta divisa in tre... Orson Welles avrebbe gradito, sono gli attori i veri director.
Il fatto che Steven Spielberg, presidente del qualificato gruppo giudicante (Kawase, Kidman, Auteuil, Waltz, Mungiu, Ang Lee e l'attrice indiana Vidya Balan), nella serata di premiazione, abbia voluto rendere omaggio all'eccezione e alla diversità culturale, i cavalli di battaglia dell'Esagono nella guerra per salvaguardare margini di manovra nazionali nell'epoca della flessibilità global, e del dominio sempre più incontrastato dei giganti audiovisivi, dichiarazione inimmaginabile dieci anni fa, fa infatti capire che una stagione è definitivamente tramontata.
Netflix, colosso internet del consumo a pagamento, e anche Apple, You Tube e Google, stanno mettendo nei guai il modello francese. Molto ben congeniato e organizzato: la salvaguardia del lavoro e dell'occupazione nazionale (il salario di cittadinanza per gli artisti del cinema qui è garantito); il coinvolgimento di banche e privati in un business così gigantesco e cruciale come quello culturale; l'attenta politica di coproduzione con cineasti provenienti da tutti i paesi del mondo (indipendenti Usa compresi, in ponte ideale con l'istituto e il festival Sundance di Redford); una cronologia dei passaggi di filiera bel rispettati; l'uso raffinato e non mafioso della tassazione dei biglietti venduti (anche dei blockbuster Usa) per sostenere sia la produzione media che 'd'autore', cioé il canone e ciò che sarà il format futuro del cinema come divertimento popolare (una manovra che l'Italia non ha mai potuto attuare, garante delle major, per lungo tempo, Andreotti). Tutto questo è fantascienza rispetto all'architettura produttiva italiana, che subisce la sua marginalità in Europa senza fare piazza pulite di leggi controproducenti e di una sistema di poliziotti dell'immaginario (i funzionari Rai e Mediaset) arcaico. Ma la Francia riuscirà adesso a reinventare tutto, a scendere a compromessi con i nuovi padroni dei media digitali e a tassare i proprietari di iphones e Samsung?
Gli Stati Uniti, che hanno trasferito tutto il loro esercito di produttori e distributori qui sulla Croisette, dai giganti delle majors ai 'pazzi' radicali della Troma ai geniali inventori di Hbo di forme innovative (non c'è qualità formale senza sostanza formale) sembrano intenzionati a far concorrenza alla Francia nella produzione e distribuzione anche dei film fuori formato che saranno i format di domani.
Lo spicchio di mercato marginale, la "nicchia" di qualità occupata finora dalla Francia è a rischio. A giudicare dal prodotto medio che è passato in passerella sulla Croisette. Harmony Korine, Sofia Coppola Kathe Bigelow, Spielberg di Lincoln, Ben Affleck di Argo sono già gli avamposti di un altro tipo di 'cinema bis' (rispetto ai kolossal 3d eroico-mitologici). Per questo Cannes non può esimersi dal rendere omaggio a Payne, Soderbergh, a uno dei film meno 'formalisti' dei Coen, a Jarmusch (che ha fatto fischiare una proiezione stampa che proiezione stampa non è più) e Polanski (che americano in esilio è, più che europeo in stato di allerta). Ma non può premiarli troppo. Bruce Dern in qualche modo, finalmente in una parte adeguata alla sua storia di fuoriclasse della cultura contro, li rappresenta tutti, in secondo piano.
Bruce Dern |
Da questo punto di vista l'indicazione teorica (osannata esageratamente) che ci viene dal palmares principale fa riflettere e preoccupa. La crisi degli snodi e dei giochi postmoderni è palmare. La riflessione sulla storia e sulla 'nuda vita' resa immagine dai venti film in competizione è penetrante e responsabile, gli attrezzi del mestiere sono stati lucidati e restaurati, sia nella scelta dell'affresco storico (Escalante, Jia Zhang Ke, Grey, Payne, Haroun, Takashi Miike, Soderbergh, Desplechin...) che dell'autofiction o nel grottesco metaforico (Farhadi, Valeria Bruni Tedeschi, Sorrentino, Refn, Warmerdam). Maneggiano bene i generi, il mélo soprattutto, e anche la qualità documentaristica, di cui è affamato anche il più pigro degli spettatori televisivi. Il problema come sempre è di immagine. Aperta o chiusa, critica o chiusa in un visuale televisivo che è parola d'ordine subdolamente imposta, meticoloso inghiottimento della libertà di sguardo nella rigida accettazione di un ferreo dato simbolico immutabile (autoritario, come si vede dall'imprigionamento del binomio uguaglianza, di sessi soprattutto, e libertà, che si esprime nella rabbia salafita in Maghreb e in Egitto e nelle violente manifestazione degli integralisti cristiani contro il diritto al matrimonio per tutti).
Il terrore dell'esplosione d'immaginario, registrato con un certo tremore, si avverte nelle due opere che più hanno affascinato lo strano pubblico della sala Lumiere. Non è Adele H., melodramma expanding e exploding, La vita di Adele capitolo 1 e 2. L'amore impossibile non apre sentieri alternativi esistenziali, non scopre desideri di vita 'altra' e non contesta gli archetipi vigenti, concentrati sulla famiglia diversamente patriarcale. Ma la quiete familiare di due donne (e del loro figlio) da una parte e l'attraversamento delle turbe adolescenziali omosessuali di una ragazza che troverà presumibilmente la sua identità nella complementarità eterosessuale. L'ossessione della macchina da presa come strumento di seduzione che Valeria Golino innesca in Miele sembra più avventurosa e 'aperta' di quella analoga di Kechiche sul volto della sua Adéle Exarchopoulos. In fondo sganciare una donna dalla passione lesbica non è il luogo comune del machio latino (e beur)?
Hitchockiano come sempre nell'attentissimo e microscopico indagare tra i sentimenti e i microsentimenti che costruiscono una azione domestica e la spostano verso il suspense, dove il crimine è nell'anima, Farhadi indica, come Jia Zhang Ke, nel passato, nelle radici, nelle tradizioni, in certe tradizioni e non in altre, nella memoria, il territorio fertile che accentua la suggestione e la fantasia e la soluzione invisibile di un duello coniugale.
Anche qui, come nel Kechiche più spettacolare (la lunga scena d'amore morbido e simulato-non simulato, esplicitamente non esplicito), la donna è in primo piano. Scutata, come nelle analisi di Laura Mulvey, dall'occhio dell'uomo. Giudicata. Condannata. In base a degli apriori fuori del tempo. Certo. Non dalla banale lettura coranica postmoderna, quella fanatica e letteralista. Ma spirituale, profonda, neoarcaica. Anche le donne sono importanti. Se al loro posto. Nella differenza. Non nell'indifferenza. Se no, rottura. Crudeltà. Cattiveria. Massacro. Viene in mente, come antidoto, un passo di La valigia del dissidente russo Sergei Dovlatov: "Tutt'attorno sorgevano e crollavano con fragore mondi misteriosi e meravigliosi. Come corde tese allo spasimo si spezzavano rapporti umani. I nostri amici rinascevano e morivano alla ricerca della felicità. E noi? A tutte le tentazioni e gli orrori della vita contrapponevamo la nostra unica facoltà. L'indifferenza. Ci si può chiedere: cosa c'è di più duraturo di un castello costruito sulla sabbia?... Cosa c'è nella vita familiare, di più resistente e affidabile dell'apatia di entrambi i coniugi?...Cosa ci si può immaginare di più prosperoso di due stati ostili incapaci di dfendersi?...
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