Roberto Silvestri
Cannes
La notizia e l'immagine shock del
commando di 'macellai' islamisti londinesi, alla caccia di 'infedeli'
colpevoli, da decapitare con l'arma bianca, pericolosa
sovrimpressione blasfema tra metodi del nemico imperialista e guerra
santa, Guantanamo in dissolvenza incrociata su Bin Laden, ci permette
di mettere a fuoco, collegandolo a un fatto di cronaca così
sconvolgente, il coraggio e le contraddizioni di questa “fiction di
popolo” ambientata però non in Afghanistan ma a West Bank:
Omar, diretto dal palestinese
Hany Abu-Assad che già si era distinto nel 2005 con Paradise now,
storia di due ragazzi indocili, dopo un momento di incertezza, al
grande gioco sacro della martiriologia.
Il nuovo film, presentato nella sezione
Un Certain Regard (che poi vincerà, presidente della giuria Vintenberg) è la storia di tre amici per la pelle, ventenni palestinesi,
che, usciti dalla disperata strategia suicida del corpo-bomba,
vogliono contribuire alla causa della liberazione nazionale formando
una cellula isolata di soldati della libertà che si conquisti sul
campo la possibilità di far parte del giro adulto della resistenza.
Come? Nel modo più istintivo e meno politico che esista. Preparando
un agguato e uccidendo, con un colpo da cecchino scelto, un soldato
israeliano di frontiera (oltretutto disarmato).
Omar (Adam Bakri) fa
il panettiere e, come l'uomo-gatto hitchcockiano, attraversa spesso e
disinvoltamente l'alto muro che separa il suo villaggio dalle case
degli amici Tarek e Amjad e soprattutto dalla fabbrica della sua
piccola amata bruna studentessa-lavoratrice, che però dimostra già
un certo feeling anche per Amjad, capace di imitare Marlon Brando nel
'Padrino' come neanche il boss Genovese, scatenado un corto circuito
emotivo che sarà fatale a Omar...
Infatti non sempre le cose vanno
liscie. Scoperto sul muro del salto, e ferito, poi umiliato da una
ronda, alla fine viene catturato, denudato e torturato dagli
israeliani in cerca di una confessione del delitto.
Intermezzo. Queste
sequenze violente e sconvolgenti procureranno guai al film, in Italia. Chi avrà il coraggio
di distribuire scene così anti-israeliane se non torturandole con le
forbici? Mica siamo nell'America della Bigelow!
Omar, nel frattempo, resiste.
Non so niente. Sigaretta bollente sui genitali. Non so niente.
Coltello roteante ovunque. Non so niente. Al culmine del trattamento
gli scappa un fatale: “Non confesserò mai”. E' già una ammissione
di colpa. Lo minacciano. 90 anni di reclusione. E non basterà
neppure una visita di Kerry per essere graziato da una amnistia, come
abbiamo visto.
Però Omar esce dal carcere. Cosa ancora più
pericolosa. Gli amici pensano che abbia tradito. L'amata lo lascia
senza più scrupoli (tanto è incinta di Amjad, molto meno romantico
di Omar che considerava il culmine del piacere erotico
scambiare con la ragazza bigliettini segreti d'amore). Anche il salto
del muro con la corda inizierà ad essere difficile, estenuante.
I
grandi dei nuclei islamisti diffidano sempre più di lui. Che in
realtà, dopo una seconda carcerazione, e un collare di sicurezza
alla caviglia, ha stipulato un patto infame con il poliziotto capo
israeliano, Rami (è Waleed F. Zuaiter, l'unico attore professionista
del cast). Gli consegnerà Tarek morto. Ma nell'ultima scena del
film...l'onore sarò salvo. Anche in questo film si dimostra che
l'onore vale più di qualunque politica. E' un finale di moda. Per un Lincoln palestinese bisognerà aspettare ancora un po'.
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