Mariuccia Ciotta
CANNES
Sotto l'acqua, ancora, la fila
interminabile dei festivalieri di Cannes ha atteso il via libera alla sala
Debussy per il film in concorso dei fratelli Ethan e Joel Coen. Molti sono rimasti
fuori, e più tardi, alla proiezione supplementare nella
saletta Bazin, le “tessere blu”, la casta inferiore dei periodici
e dei quotidianisti in esubero, hanno inscenato un “Occupy Cannes”,
tutto seduti davanti all'ingresso della sala, ancora zuppi di
pioggia, e forti del diritto di visione hanno preteso di entrare
prima delle “tessere rosa”. Ben fatto. Il festival dovrà
porsi il problema di garantire agli accreditati l'accesso alle sale,
e smettere di discriminare i giornalisti senza privilegi di testata.
Una sala stracolma, dunque, ha assistito all'opera dei registi di Non
è un paese per vecchi, un film sottotono rispetto allo
standard Coen, Inside Llewyn Davis, ispirato alle memorie del
folksinger Dave Van Ronk, scomparso prima di aver terminato il suo
“diario”.
Carey Mulligan e Justin Timberlake |
1961, Greenwich Village, scena musicale
del folk revival, prima di Bob Dylan che si lasciò affascinare
da Van Ronk, e duettò con lui negli anni successivi. Un club
dal pubblico incerto, il Gaslight Café, diretto da un certo
Pappi Corsicato (un omaggio?), e un uomo solo alla chitarra Llewyn
Davis (Oscar Isaac, Agora di Amenabar, Che di Soderbergh) che, la
voce è sua, intona una canzone triste del repertorio Van Ronk.
Il film inizia così con tre minuti di esibizione (l'originale
sentito alla fine è ben più vitale) e un seguito che
sarà proporzionato agli applausi, pochi.
Scritto e diretto da Joel e Ethan,
Inside Llewyn Davis mette in scena il “perdente” della
tradizione yiddish, il “fratello fallito del re Mida che trasforma
in merda tutto quel che tocca”, secondo la sua ex Jean Berkey, una
Carey Mulligan appena uscita da The Great Gatsby, sempre
temibile nonostante il cambio di colore, da biondina a furia dai
capelli neri.
Tutti o quasi gli daranno addosso,
compreso un tipo col cappellaccio che sbuca dal buio di un vicolo e
lo massacra di botte, è un cantante della tradizione folk, al
quale Davis ha sbeffeggiato la goffa moglie canterina. Inizio e fine,
la scena si ripete prima dei titoli di testa, e il cerchio si chiude
dopo un girovagare disperato tra canapé di fortuna e un
viaggio sotto la neve, in giacchetta striminzita, verso Chicago e la
speranza di un incontro con un manager di successo.
Van Ronk non era affatto un “loser”,
ma un incorruttibile musicista alle prime armi, personaggio che i
Coen trasformano nella metafora dell'artista incompreso, e afflitto
da una dose massiccia di sfortuna, maldestro come Jerry Lewis e Woody
Allen messi insieme. Llewyn Davis è il corpo stesso del film,
una digressione nella carriera dei fratelli acclamati per il loro
cinismo acido, e i “clin d'oeil” rivolti al pubblico, un film
malinconico, spinto dalla nostalgia per l'epoca new beatnik del
decennio 50-60, un film “loser”, probabilmente, al botteghino.
Eppure, il film è così
tragicamente commosso dal molesto Llewyn - infiltrato nelle case
altrui, sempre a chieder soldi in prestito, padre ignaro di un bimbo
di due anni, che credeva “abortito”, figlio della moglie del suo
miglior amico - da infrangere il muro del cinema di maniera. Aiuta
uno strepitoso John Goodman, enorme, perfido e claudicante, che
“everettssloaneggia” attraverso la scena, secondo le indicazioni
dei regista tanto per citare l'Everett Sloane della Signora di
Shangai. E aiutano le punteggiature dell'umorismo ebraico sotto
forma di freddure, a volte deja vu, e di caratteristi allampanati,
surreali, malconci, e anche una gatta arancione che sfugge
continuamente a Llewis per poi tornare tra le sue braccia e quindi
tra quelle del legittimo proprietario, un amico che lo ha ospitato,
nelle pelliccia di un gatto maschio.
Non mancano neppure le frecciate al
cinema dei “buoni sentimenti”, che per i Coen assomigliano alle
magnifiche commedie Disney di quegli anni, e alle quali finiscono per
soccombere. Infatti, il tour del triste e testardo folksinger, il cui
partner si è suicidato dal ponte George Washington, invece che
da quello tradizionale di Brooklyn, tocca un momento di grande
intensità quando, sulla strada fredda e buia di Chicago, una
volpe, o forse il fantasma del gatto abbandonato, finisce sotto le
ruote della macchina guidata da un sonnolento Llewis, che guarda
nella notte un se stesso ferito e perduto. I Coen rinunciano anche ai
loro ipercromatismi e si siedono al Gaslight Caffé nell'ombra
delle ballate di Dave Van Ronk.
In concorso, Tale padre, tale figlio
del giapponese Hirokazu Kore-Eda (After life) che dietro una storia
un po' zuccherosa – padre e madre scoprono che il figlio di sei
anni è stato scambiato nella culla con un altro neonato –
racconta il Giappone delle caste, l'etnie separate e le classi
sociali “incompatibili”, quelle di un freddo manager dei
quartieri alti, e di un “bottegaio” allegro e disinibito, proprio
quando “l'impero del sole” vive la sua pericolosa fase di riarmo
ideologico nazionalista (e nucleare) con il primo ministro Abe.
Kore-Eda compone i suoi quadri minimalisti, segue i due ragazzini che
portano nel sangue l'eredità dello loro status, scopre che
l'amore non ha Dna, ma pasticcia con le personalità e i tic,
narrativamente incoerente, senza mai una digressione. Documentarista
e regista tv, il regista compone un film “carino” che non ha mai
un momento emotivamente alto, e non grida come il piccolo Ryoata
dagli occhi di pietra nera quando viene consegnato a degli
sconosciuti.
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