giovedì 23 maggio 2013

Le palme d'oro crescono in Nebraska


Mariuccia Ciotta
Cannes
Finalmente la Palma d'oro, Spielberg giurato numero uno permettendo, in questi ultimi giorni di festival pietrificato nello smarrimento dei “tempi che cambiano”, popolato di cineasti annichiliti dal mondo imperscrutabile e dominato dall'”io”. Registi che non “vedono”. Per aguzzare lo sguardo, Alexandre Payne torna in Nebraska, dove è nato 52 anni fa, e si incammina sulla strada con l'andatura sbilenca dell'ottuagenario Bruce Dern, via dalle Hawaii (The Discendants, 2011) per rievocare il Jack Nicholson disilluso e testardo di About Smith (2002).
Nebraska (concorso), incanto del cinema ritrovato dove il bianco e nero è il detour nella filiera del film-format, un segnale stradale verso Lincoln, cittadina luminosa e sperduta, traguardo di padre e figlio lungo il percorso dell'origini, da L'ultimo spettacolo di Bogdanovich ai paesaggi western di Ford con l'orizzonte a metà schermo per ricordare che il mito è passato e adesso ci sono solo i campi secchi, i villaggi fantasma del mid-west, l'abbandono di luoghi sospesi nel nulla, la crisi...
Deviazione e visita al monte Rushmore, Sud Dakota, anche i presidenti scolpiti nella roccia non hanno più il glamour di Hitchcock con quelle facce non finite... a qualcuno “gli mancano le orecchie” osserva lo svaporato Woody Grant (Dern), chioma bianca arruffata e la smania di arrivare a destinazione per ritirare la vincita di un milione di dollari come promesso da un volantino pubblicitario-mappa del tesoro. Invano il figlio David (Will Forte) cerca di persuaderlo che si tratta di una lotteria fasulla, Woody Grant ci crede e se ne andrebbe a piedi dal Montana al Nebraska, inseguito dalla moglie indiavolata contro il vecchio demente e alcolizzato che vuole un nuovo truck e un “compressor”, il suo gli fu rubato dall'ex compagno di officina Ed Pigram (Stacy Keach).
Sorpassando il trattore di David Linch, Payne distilla dai generi classici la benzina per ricomporre nuovi linguaggi, pesca in Frank Capra con i suoi angoli miracolosi di provincia, la tipografia di un vecchio giornale dove l'ex girl-friend conserva le edizioni rilegate, e dove c'è una foto del giovanissimo Woody in divisa. Tornato dalla guerra in Corea non parlò quasi più. Ed eccolo che si fracassa la testa cadendo per troppo birra, scappa dall'ospedale con indosso il grembiule e dialoga con i parenti rivisti dopo decenni, abbrutiti davanti alla tv, con l'humour straniato di Kaurismaki.
Epopea di Woody Grant, che tutti credono milionario, nell'esilarante incontro con la gente della sua infanzia, una specie di Christmas Carol infiltrato di tutta la memoria del cinema, e scandito dai luoghi del West, i bar a immagine dell'antico saloon, giocatori di poker, banconi di legno, e Ed Pigram che si merita un pugno sul naso dal gentile David per aver sbeffeggiato il vincitore immaginario.
Alexandre Payne compone la sua lirica, ricordando Bruce Springsteen, sulle musiche sensuali di Mark Orton, e dimostra che è solo da quel cinema vitale si può ricominciare. Nebraska, pellicola old fashion, marchio Paramount compreso, guarda al domani con gli occhi accesi di Bruce Dern al volante del suo nuovo truck lungo la main-street della piccola città, fiero di aver vinto, se non la lotteria, il suo irriducibile amore per le nuvole e i sogni in viaggio.    

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