Mariuccia Ciotta
Cannes
Finalmente la Palma d'oro, Spielberg
giurato numero uno permettendo, in questi ultimi giorni di festival
pietrificato nello smarrimento dei “tempi che cambiano”, popolato
di cineasti annichiliti dal mondo imperscrutabile e dominato
dall'”io”. Registi che non “vedono”. Per aguzzare lo sguardo,
Alexandre Payne torna in Nebraska, dove è nato 52 anni fa, e
si incammina sulla strada con l'andatura sbilenca dell'ottuagenario
Bruce Dern, via dalle Hawaii (The Discendants, 2011) per rievocare
il Jack Nicholson disilluso e testardo di About Smith (2002).
Nebraska (concorso), incanto
del cinema ritrovato dove il bianco e nero è il detour nella
filiera del film-format, un segnale stradale verso Lincoln, cittadina
luminosa e sperduta, traguardo di padre e figlio lungo il percorso
dell'origini, da L'ultimo spettacolo di Bogdanovich ai
paesaggi western di Ford con l'orizzonte a metà schermo per
ricordare che il mito è passato e adesso ci sono solo i campi
secchi, i villaggi fantasma del mid-west, l'abbandono di luoghi
sospesi nel nulla, la crisi...
Deviazione e visita al monte Rushmore,
Sud Dakota, anche i presidenti scolpiti nella roccia non hanno più
il glamour di Hitchcock con quelle facce non finite... a qualcuno
“gli mancano le orecchie” osserva lo svaporato Woody Grant
(Dern), chioma bianca arruffata e la smania di arrivare a
destinazione per ritirare la vincita di un milione di dollari come
promesso da un volantino pubblicitario-mappa del tesoro. Invano il
figlio David (Will Forte) cerca di persuaderlo che si tratta di una
lotteria fasulla, Woody Grant ci crede e se ne andrebbe a piedi dal
Montana al Nebraska, inseguito dalla moglie indiavolata contro il
vecchio demente e alcolizzato che vuole un nuovo truck e un
“compressor”, il suo gli fu rubato dall'ex compagno di officina
Ed Pigram (Stacy Keach).
Sorpassando il trattore di David
Linch, Payne distilla dai generi classici la benzina per ricomporre
nuovi linguaggi, pesca in Frank Capra con i suoi angoli miracolosi
di provincia, la tipografia di un vecchio giornale dove l'ex
girl-friend conserva le edizioni rilegate, e dove c'è una foto
del giovanissimo Woody in divisa. Tornato dalla guerra in Corea non
parlò quasi più. Ed eccolo che si fracassa la testa
cadendo per troppo birra, scappa dall'ospedale con indosso il
grembiule e dialoga con i parenti rivisti dopo decenni, abbrutiti
davanti alla tv, con l'humour straniato di Kaurismaki.
Epopea di Woody Grant, che tutti
credono milionario, nell'esilarante incontro con la gente della sua
infanzia, una specie di Christmas Carol infiltrato di tutta la
memoria del cinema, e scandito dai luoghi del West, i bar a immagine
dell'antico saloon, giocatori di poker, banconi di legno, e Ed Pigram
che si merita un pugno sul naso dal gentile David per aver
sbeffeggiato il vincitore immaginario.
Alexandre Payne compone la sua lirica,
ricordando Bruce Springsteen, sulle musiche sensuali di Mark Orton,
e dimostra che è solo da quel cinema vitale si può
ricominciare. Nebraska, pellicola old fashion, marchio Paramount
compreso, guarda al domani con gli occhi accesi di Bruce Dern al
volante del suo nuovo truck lungo la main-street della piccola città,
fiero di aver vinto, se non la lotteria, il suo irriducibile amore
per le nuvole e i sogni in viaggio.
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