Mariuccia Ciotta
Venezia
Sangue del mio sangue
(concorso), la “trasfusione” in due tempi di Marco Bellocchio fa
toccare punte alte alla Mostra, sguardo rivolto indietro per guardare
avanti, cinema a cui basta un tocco, polifonia leggera e stupore in
agguato.
Sul set di Bobbio (dove
tiene corsi di cinema, e dove ha esordito con I pugni in tasca,
'65), Bellocchio ha riunito la famiglia, i figli Pier Giorgio ed
Elena, il fratello Alberto e Francesca Calvelli, montatrice e
compagna. Non solo legami di sangue, però.
E' il suo cinema che si
convoca a Bobbio, complici gli allievi della scuola all'opera intorno
al film. Il gioco di incastri provoca disorientamento, un raccordo
eccentrico lega due tempi girati e ambientati in epoche diverse con
in scena gli stessi fantasmi, Federico (Pier Giorgio Bellocchio) e
il suo doppio, il gemello prete sedotto da suor Benedetta (Lidiya
Liberman), enigmatica e allusiva, che nel Seicento dell'Inquisizione
vuol dire schiava di Satana.
Il processo evoca quello a
Giovanna d'Arco (e Dreyer) ma suor Benedetta non è un'eretica,
è una maga d'amore e si diverte a stuzzicare i suoi
inquisitori, a incantare anche il fratello del morto suicida,
confortato nel suo strazio morale da una sommessa, erotica Alba
Rohrwacher a lume di candela (in magnifico tandem con Federica
Fracassi). Lungo un fiume livido e sassoso, la suora incriminata
sembra un prolungamento della natura, un chiarore sull'acqua, una
presenza di liberazione, e Bellocchio in un movimento circolare e
segreto ci riporta a Buongiorno, Notte con la liberazione
sognata di Aldo Moro che “vince” sulla luttuosa lotta Br, e va
nella luce. Suor Benedetta ci mette pure un carico sessuale nel
rompere le catene e la gabbia di mattoni in cui è stata
murata per anni, corpo flagrante e riconsegnato integro al tempo.
Salto nella modernità
ed ecco Federico redivivo nella parte di un ispettore ministeriale
fasullo con al seguito un riccone russo, intenzionato a comprare le
carceri in disuso di Bobbio (l'ex convento di suor Benedetta). Ma nei
meandri umidi dell'edificio, in fondo a cunicoli degni di Dracula,
vive nascosto il Conte (Roberto Herlitzka, già interprete di
Moro), al pari di un capo bastone rifugiato nel covo. E' il
democristiano doc, padrone del paese, apparizione notturna e
vertiginosa, alla quale si inchinano i notabili del posto, i
truffatori dello stato, evasori e corrotti. Allucinazioni con brio,
Bellocchio compone il suo teatro dell'assurdo, tra il dècor
mentale del passato remoto e il bagliore degli smartphone, strumento
del diavolo di oggi.
Sangue del mio sangue
entra ed esce dall'inquadratura, si muove leggero anche al seguito di
un sincopato Filippo Timi, il corpo che si divincola dai luoghi
comuni del cinema (come l'incompreso Corrado Guzzanti di Guadagnino),
pesante attrezzo per molti giovani registi di ogni latitudine, e
guizza euforico nel paradosso e nel tragico.
Ps. A proposito del Conte.
Di speculazione edilizia nella zona del piacentino, di vendita e
compravendita di immobili, di piani regolatori irregolarmente
imposti, di patrimonio artistico sciaguratamente gestito e di mafia
dei palazzinari. Chiarisce meglio il significato del film quel che
successe alla famiglia Bellocchio e a una rivista prestigiosa degli
anni sessanta, i Quaderni Piacentini, diretta dal fratello del
regista e punto di riferimento dei maggiori intellettuali della
sinistra critica dell'epoca. Dissidi nel piano regolatore dei primi
anni Sessanta tra socialisti piacentini e aree più
oscurantiste e “maccartiste” della Dc locale, provocò, tra
le altre conseguenze, la denuncia, il processo e la macchina del
fango ai danni di un collaboratore della rivista, Aldo Braibanti.
Quel processo, per il reato di plagio (un reato poi cancellato dal
nostro codice), colpì un'intellettuale, espulso dal Pci per
omosessualità e mise in stato d'accusa chi lo difese (tra
questi Alberto Grifi, poi incarcerato). Fu la prova generale del caso
Valpreda. Come si costruisce in epoca moderna la strega, il mostro.
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