domenica 6 settembre 2015

L'intervista ufficiale a Luca Guadagnino. Materiali per un dibattito


Ralph Fiennes e Tilda Swinton in A bigger splash di Luca Guadagnino
ASPETTANDO LA RECENSIONE DI QUESTO BELLISSIMO FILM IN COMPETIZIONE RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO DAL PRESS BOOK DI PUNTO E VIRGOLA L'INTERVISTA "ISTITUZIONALE" A LUCA GUADAGNINO.

attenzione lettori ormai le interviste saranno sempre più puro materiale pubblicitario e promozionale. Dunque beccatevi questo. Nel corso del recente "junket" (sì, deriva da junk, immondizia, ma sono i viaggi ufficiliali pagati ai giornalisti con soggiorno negli alberghi 5 stelle per promuovere un film in tutto il mondo a spese delle majors) londinese per il lancio di Star Wars (per altro sarà l'ennesimo capolavoro di J.J.Abrahams) ai giornalisti venivano date in anticipo le domande da fare e ai giornalisti televisivi veniva dato il girato solo dopo montaggio dell'Universal Europa. La cosa ormai può sembrare ovvia e banale. Non meritevole di indignazione. Capisco che siamo nell'era di Cameron, ma forse stiamo un po' esagerando a conformismo introiettato. Con i critici ridotti a far colore e i film che sono trasformati dai mass media in materiale pr delle star. E allora visto che si pubblica solo apologia scegliamoci i cineasti di cui fare l'apologia. A una domanda rivoltami a Pechino, Università del cinema, e alla stessa identica domanda rivoltami a Pechino, Accademia d'Arte drammatica: "Cosa c'è di bello in Italia nel cinema dopo Tinto Brass?" non potevo infatti che rispondere "Asia Argento e Luca Guadagnino", facendo l'apologia dei due cineasti più odiati dal pensiero critico cinematografico paraparrocchiale dominante in Italia (dopo lo sterminio dei cervelli effettuato dalle famigerate macchine della NORMALINA azionate dopo la legge Mammì e dopo la trasformazione delle sale parrocchiali cattoliche controllate e censurate in cinema d'art e d'essai). Ma non c'è solo il regno Fefé, anche se effettivamente dalle reazioni del pubblico della mistra del cinema di Venezia, di Berlino e di Cannes mi sa che ho torto marcio. 

Qual è stata la genesi del film?
All’origine di A Bigger Splash ci sono un triplo desiderio e un duplice rifiuto. StudioCanal - attraverso Ron Halpern, capo della produzione, e Olivier Courson, Ceo di produzione e distribuzione - mi avvicinò dopo l’uscita di Io sono l’amore chiedendomi di dirigere un rifacimento di La piscine di Jacques Deray. Alla prima richiesta risposi "no grazie". La cosa mi fu riproposta dopo un mese e io dissi nuovamente di no. Quando tornarono da me per una terza volta mi ricordai di uno dei miei motti e cioè che ai desideri altrui si deve venire incontro.



Arrivò dunque alla conclusione che tornare su quel film era possibile?
Persuaso dall’intelligenza seduttiva di Studio Canal e dall’incontro con due persone che amo molto per la loro capacità di capire il cinema come Olivier e Ron, ho accolto la loro intuizione.
Il film di Deray l’avevo visto da ragazzino e poi mai più. Schegge della Piscine baluginavano davanti ai miei occhi perché una sequenza era stata usata per la pubblicità di un profumo. È un film del 1969 realizzato secondo logiche di preistoria del marketing: Alain Delon e Romy Schneider erano stati una coppia, al momento delle riprese erano ormai separati, ma ancora rappresentavano icone potenti per l’immaginario mainstream europeo. E questo proprio in un momento in cui le Nouvelles Vagues in Francia, Italia, Giappone, Brasile, esplodevano con una potenza di fuoco straordinaria, con la loro capacità di riformare il linguaggio, di capire il segno politico di ogni immagine che si produceva. La piscine era antitetico rispetto a quel momento storico. Ma parlava di desiderio, di quattro persone chiuse in una stanza mentale che è la villa in cui si svolge l’azione. Di temi che mi attraggono: la rinuncia, il rifiuto, la violenza nei rapporti tra le persone.



Come ha affrontato la fase della scrittura?
Ho chiesto di lavorare con uno scrittore anglosassone; mi piaceva l’idea di giocare con i toni della lingua in maniera vera, non traducendo una sceneggiatura magari scritta da me in italiano. Mi erano stati sottoposti in passato alcuni lavori di David Kajganich, soprattutto sceneggiature di film horror: il talento di David era evidente, la sua capacità di comprendere la complessità delle azioni umane andava molto al di là degli imperativi del genere. Ci siamo incontrati a Los Angeles, abbiamo passato settimane a parlare, a capire il film, i suoi temi, i mondi che sviluppava. E da subito abbiamo compreso quanto cruciale sarebbe stato ambientarlo a Pantelleria.


Una scelta carica di conseguenze, anche dal punto di vista logistico.
Volevo che il paesaggio fosse il personaggio silenzioso che si aggiungeva ai quattro protagonisti. Perché, da un lato, funzionasse come marca potente del reale e, dall’altro, come specchio che rifletteva i conflitti. Pantelleria è un posto incredibilmente violento, è adagiata su un vulcano le cui attività sono silenziose, ma costanti. Il vento la sferza, il caldo non dà tregua, ma possono esserci sbalzi di temperatura quasi africani con notti inaspettatamente fredde. È un luogo non riconciliato, e questo mi piaceva molto.
Una scelta che imponeva anche di lasciare aperta la porta alla realtà?
Da lì dunque siamo partiti, lasciando però aperta la porta alla realtà. Pantelleria è Mediterraneo, non può certo essere ridotta a location, è un luogo che urla la propria urgenza. E il mio più grande desiderio, ancora una volta, era quello di mostrare come il privato di uomini e donne potesse venire squadernato dal reale. Se ognuno dei quattro protagonisti del film si confronta con l’alterità all’interno del gruppo, era indispensabile che tutti fossero anche costretti a confrontarsi con l’alterità vera, che è quella del Mediterraneo, con la presenza dei migranti che irrompono nella storia. E spero che il modo in cui questo incontro è raccontato nel film possa costituire per lo spettatore uno spunto di riflessione sul modo in cui anche ciascuno di noi considera quella alterità.
Non riconciliata è anche la musica dei Rolling Stones, centrale nel film.
Il Rock’n’Roll, segno del ‘900 che si allunga fino al XXI secolo, non può certo essere ridotto a costume: ho voluto che diventasse architrave del film. Il Rock’n’Roll nel film ha un corpo, si incarna nella figura del giullare, l’eterno Peter Pan, l’ingiunzione al godimento fatta uomo. Harry, un produttore musicale che ha vissuto tutta la sua vita all’insegna della verità, della necessità bruciante di non mentire mai e al contempo di divertirsi sempre, si specchia in Paul, un uomo molto più giovane e che ha quindi forse la necessità di trovare in Harry un padre. Ma Harry è un padre del godimento, un padre che non gli dà consigli, che al contrario gli dice: "Sei libero, puoi fare quello che vuoi".
Quali sono le conseguenze di questa contraddizione?
L’impossibilità di sostenere questa libertà scava tra i due uomini fiumi carsici di risentimento. Costringendoli a confrontarsi con le due donne. Marianne Lane è una grande rockstar e ha compreso di non volere la propria identità ridotta alla produzione di godimento per il pubblico per cui è diventata una leggenda. Il suo istinto nell’affiancare Harry nell’esplorazione degli eccessi del Rock’n’Roll si è trasformato, crescendo, nel desiderio di una maggiore tranquillità e nella capacità di una pacata protezione di sé con un nuovo compagno. L’agente incontrollabile, la giovane Penelope, viene dal nulla e forse ritornerà in una zona che non conosceremo mai, storicamente separata dal mondo di Harry e Marianne, ma anche di Paul. Penelope corrisponde alla generazione di oggi che cerca di osservare quelli che c’erano prima di lei e cerca di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Innescando, senza accorgersene, reazioni estreme.


Il titolo del film viene dal celebre quadro di David Hockney: ha rappresentato una fonte di ispirazione?
Il quadro di Hockney rappresenta una regolarità di linee sconvolta da un tuffo, da uno splash di cui non si vede l’artefice, con una sedia da regista come unico dettaglio eccentrico. Insieme alla Nouvelle Vague, l’esperienza avanguardista di Hockney ha rappresentato una guida importante per questo film. Certamente più del "cinema di papà" di Jacques Deray. Mi sono chiesto, perché il quadro di Hockney, così apparentemente minimalista, apra in realtà una voragine di senso in chi lo guarda? Perché è un’immagine che nella sua semplicità, nell’attimo in cui la superficie dell’acqua si frange, apre mille prospettive, mille possibilità. Che cosa c’è sotto? Chi si è tuffato? Che cosa succede nella casa? Hockney cattura l’attimo che coincide con l’imprevedibilità del desiderio in maniera straordinaria contenendo i colori, la luce californiana in un modo che ha rappresentato per noi un’ispirazione formale fortissima. La lezione di Hockney ha guidato me, il montatore Walter Fasano, il direttore della fotografia Yorick Le Saux, trasferendola dallo spazio addomesticato della California a quello africano, incontrollato di Pantelleria.



Punti di riferimento importanti nel cinema che si sono manifestati durante la lavorazione di A Bigger Splash?
Dal punto di vista formale Viaggio in Italia di Roberto Rossellini ha certamente rappresentato una fonte di ispirazione. Come One Plus One di Jean-Luc Godard, il film sulla creazione di Simpathy for the Devil dei Rolling Stones. Ingrid Bergman che in Viaggio in Italia si abbandona, disperata e tormentata alle peregrinazioni per Napoli, che visita i musei o osserva i vulcanelli, ecco attraverso quelle immagini Roberto Rossellini costruisce una trama di suspense fortissima, la musica di Renzo Rossellini è quasi thriller, si potrebbe dire che sia una sorta di film hitchockiano, dove il disvelamento del colpevole è nell’interiorità della relazione impossibile tra i due protagonisti.



A Bigger Splash è un film ensemble: il processo di casting deve essere stato cruciale.
Gli attori che hanno lavorato nel mio film non sono solo attori, sono cineasti. Tilda Swinton ed io non possiamo non lavorare insieme, siamo come dice Tilda "partners in crime".
Una sorella per me ed una dei miei collaboratori più preziosi: non solo come performer il suo contributo è stato essenziale. È stata sua l’idea di privare della voce il personaggio di Marianne Lane, da lì è nato il dispositivo che permette di esplorare il suo tormento nei confronti del proprio cambiamento proprio quando l’handicap non le permette di esprimerlo.

Ralph Fiennes è sempre stato una mia personale ossessione: quando pensi un film devi partire da un erotismo spietato nei confronti dei corpi che vuoi raccontare e degli attori attraverso cui vuoi metterli in scena. Quando vidi Schindler’s List, Quiz Show, Strange Days, The End of the Affair, rimasi abbagliato da



Ralph. È un lungo percorso di desiderio che si compie: nella mia cameretta di ragazzino avevo le foto di Tilda e le foto di Ralph.

Dakota Johnson, poi, è il cinema incarnato, una vera, autentica, straordinaria creatura di Cinema, dotata di una grandissima intelligenza interpretativa. Sono felice ed emozionato di averla incontrata e di aver iniziato con lei quella che considero una lunga collaborazione.
Ho scoperto Matthias Schoenaerts in Bullhead. Di lui mi colpì subito la flagranza corporale coniugata ad una sensibilità lunare. Caratteristiche che io credo siano visibili in A Bigger Splash in una nuova declinazione: la fragilità di Matthias è il regalo più bello che ha fatto al film.



Anche Corrado Guzzanti fa parte dei desideri antichi che non ho mai smesso di coltivare, un attore sublime e raffinatissimo, al di là del divertimento che ci ha regalato nella sua lunga carriera. È stato un privilegio che abbia accettato di fare un provino con me: dimostra la sua grandezza e la sua grande solidità di essere umano. Corrado si è messo a rischio interpretando il personaggio di un commissario di polizia e un fan. La legge che diventa fan di una rockstar. Solo lui poteva farlo.

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