mercoledì 9 settembre 2015

Skolimowski allievo di Brian De Palma. E altri gioielli veneziani








Fredrick Wiseman
Roberto Silvestri
Venezia

Siamo un po' indietro di una decina di film almeno di cui parlare. Il livello, come sempre, si alza. Ci sono in ogni festival di fascia A almeno dieci opere che restano impresse. Quella che cresce di più nella memoria è In Jackson Heights di Frederick Wiseman, 190 minuti girati nella zona del quartiere di Queens, New York City, considerata una delle più trans-etniche del mondo. Quasi 200 lingue che vi si incrociano. Ma via dalla mitologia del crogiuolo di razze! Cinema diretto allo stato puro. Ma con qualcosa di più, dentro, che non avevamo mai notato in un lavoro del grande documentarista statunitense. Ira. Rabbia. Furia. Indignazione? Ci sono sempre. Nascoste nel fuori campo o sotto le righe del nastro digitale. Ma qui c'è un'altra dolcezza di sguardo. Qualcosa di più della compassione. E della complicità con gli emarginati del sogno americano (che quel sogno a forza di sudore lo realizzano per gli altri). Come se l'occhio della telecamera vedesse sfilare in sovrimpresssione mentale spettri combattenti,  ipotesi ancora disincarnate di cambiamento sociale. Hope. Così Wiseman fa il maoista, qui, il pesce nell'acqua. Fa un'inchiesta basata sulla triade critica, autocritica e trasformazione. Sembra quasi Joris Ivens.  Diventa parte del territorio. Ipotizza risposte. Wiseman torna così all'aria aperta. Basta con le istituzioni da radiografare in profondità, con metodo ormai accademico, come il Crazy Horse o la National Gallery di Londra...Invece: descriviamo la vita di un quartiere pulsante. Là manca un semaforo e i bambini muoino attraversando la strada. Siamo alla citazione di Jonathan Demme (Cugino Bobby). E ancora. Il trio di mariachi, ma le musiciste sono donne messicane, e contagiano la piazza, e allora siamo dalle parti di Tarantino. Poi un piccolo mattatoio, El pollo vivo, come si spenna il pennuto e si trasforma, stritolato dalla macchina, in docile confezione da supermarket. Il cinema splatter. La novantenne dell'ospizio che aspetta la morte molto annoiata; la gentrificazione, ovviamente, stanno cacciando le piccole botteghe anche lì. Le associazioni di volontari che tutelano o inventano i diritti (abitazione lavoro sanità...) per chi ha scavalcato i confini, per gli illegali per lo più ispanici che racccontano le loro tragedie desertiche, e almeno le possono raccontare;  i militanti che raccolgono firme contro i soprusi di zona, aizzando all'organizzazione, all'unione. La sinagoga di quartiere diretta da un rabbino evidentemente eccentrico che diventa il "covo" di un movimento di massa multireligioso che protegge trans, gay, atei, clandestini, perseguitati di ogni tipo...  Una nuova atmosfera Iww sta contagiando l'America che si appresta a chiedersi se votare o no mister Trump? Wiseman sembra fiancheggiare da militante un movimento dal basso organizzato contro la globalizzazione dall'alto. Non l'avevamo mai visto così radicale. Un po' come Mario Monicelli. Invecchiando non si ha più nulla da perdere?  

Riunione politica a Jackson Height, Queens, N:Y:
A proposito di maoisti.Sono al potere in Nepal (in un governo di coalizione e compromesso) dopo la guerra che è durata 10 anni, dal 1996 al 2006. Eppure, scivolone inspiegabile del Sncci, si sceglie da Kathmandu un film striato di propaganda arcaica. E nel catalogo della Settimana della critica si leggono frasi filomonarchiche sul presunto arruolamento forzato di bambini rapiti dalle scuole ("dove gli insegnanti tentavano di strapparli all'analfabetismo", figuriamoci) e "arruolati a forza nelle file maoiste". Sic. Anche nei titoli di coda del film si leggono cose anti comuniste, ovviamente legittime - visto che il regista ci racconta di essersi ispirato a fatti accadutigli e di cui è stato testimone - ma che non hano niente a che vedere con la sostanza drammaturgica scodellata dalle immagini. Stiamo parlando di La gallina nera, un'opera prima nepalese ambientata nel 2001, sotto l'Himalaya, durante la rivoluzione (per fortuna riuscita) contro il dispotico e oscurantista potere feudale della monarchia (i reali più amati del mondo, in realtà, ma solo negli anni 60-70, quando da laggiù arrivava in occidente una qualità insuperata di hascisc. Nel film, in realtà si fuma molto, anche troppo). Il regista, buddista, Min Bahadur Bham, non sempre a suo agio con un parco attori più che dilettante, finge di raccontare una fiaba morale (due ragazzi - alla ricerca di una gallina perduta, unica speranza di reddito nella povertà rurale più atroce - litigano tra di loro perché la divisione in casta rovina ogni spontanea amicizia)  ma in realtà si serve di questo esile filo conduttore non per aggredire le vecchie idee con le idee nuove ma per ricantare i soliti ritornelli: i comunisti fanno spettacoli di danza e musica ridicola. I comunisti torturano crudelmente e sadicamente i loro prigionieri. Peccato che non c'è una sola scena nella quale bambini vengono arruolati a forza. Anzi, la sorella del protagonista va spontanemante sulle montagne per far parte del distaccamento rosso femminile. Insomma un pasticcio.

Fascisti "privati" (ma sempre ben protetti dall'alto) all'opera, dalla prima all'ultima inquadratura, invece in El Clan, diretto da un beniamino dei festival, capofila del nuovo cinema argentino, Pablo Trapero (in concorso) che getta di solito dell'ottimo acido corrosivo (qui in modo più insidioso e indiretto) sul tradizionale modo di raccontare una storia. Tutto consequenziale. Tutto spiegato. Senza una inquadratura di troppo. Verismo e realismo a manetta nel raccontare la vittoria del bene sul male. Invece Trapero, disinteressandosi spesso perfino della plausibilità dell'azione, e facendoci sorbire un interno di famiglia tutto noia domestiva, proprio come accade nella vita di tutti i giorni se non arrivasse Hitch, intraprende un match privato, a forza di primi e primissimi piani, con il suo attore protagonista, Arquimedes, nella parte della "banalità del mostro", slavandogli lo sguardo, radiografandone ogni atto di patriarcale sovranità, e portandolo da subito alla sbarra "etica". Ebbene gli occhioni gelidi di buon cristiano del vecchio, che prega prima di ogni pasto, reggono magnificamente gli shooting della macchina da presa. Ha ragione lui. Incarna il nuovo spirito dei tempi. L'individualismo sfrenato. Altro che bandiera argentina sacra da conservare nella cassettiera buona. Dimentichiamoci quel che in un film d'azione è il motore,  il suspense, il fatto che qualcuno stia braccando il cattivo per catturarlo prima che sia troppo tardi. No. Qui il catalogo va avanti, ripetitivo, senza intoppi. Rapimento dopo rapimento. Uccisione dopo uccisione. C'è stato un tempo, forse, in cui la violenza fascista della dittatura militare poteva anche avere delle motivazioni elevate, perfino spirituali, quelle di difendere i valori cristiani degli argentini dal pericolo del comunismo materialista. Perfino Sokurov potrebbe dare ragione a Videla. E invece al povero Arquimedes viene lasciato il fardello di incorporare il vero segreto della violenza fascista di quegli anni. Soldi. Profitti. Conti in banca da proteggere. Paura di mollare un solo cent per colpa della destra e della sinistra peronista. Del radicale Alfonsin meglio non preoccuparsi. I radicali al potere in Argentina durano lo spazio di un mattino....Dopo la caduta di Videla, comunque, saranno quelli i valori spirituali dominanti. Grazie Archimede.   
Il film è tratto da un tremendo fatto di cronaca. Una famiglia "rispettabile" della media borghesia del quartiere San Isidro, i Puccio, padre padrone (e membro dei servizi segreti) più madre insegnante e figli troppo servizievoli e "embedded", rapisce nei primi anni 80 ricchi rampolli della borghesia di Buenos Aires e, presi i soldi del lauto riscatto, li ammazza senza pietà, uno dopo l'altro. Funziona da magnete irresistibile, e scudo (perché la sua popolarità tiene i Puccio lontano da ogni sospetto) Alejandro, il figlio maggiore, un riccioluto campione di rugby, idolo dei Pumas, adorato da tutti coloro che, con i militari al potere, hanno visto i loro conti in banca crescere, crescere, crescere smisuratamente. E' il fascino del fascio, bellezza. Sulle prime Archimede fa finta di essere un militante rivoluzionario del Fronte di liberazione Nazionale. Poi fa sempplicemente la jena. Anche perché i cattivi vanno fortissimo di questi tempi. Se poi sono schegge impazzite degli squadroni della morte di Galtieri e Videla, addestrati al sequestri di persona politico, e che continuano ad agire indisturbati perfino dopo che il radicale Alfonsin è ritornato garante della democrazia, il godimento sarà massimo. Certo essere esposti alle radiazioni dei Puccio per 108' può nuocere gravemente alla salute.       

11 minuti di Jerzy Skolimowski
Attenzione. Potrebbe finire tutto di colpo. Siamo sull'orlo dell'abisso. Fateci un film sopra. Detto fatto. Una decina di cittadini, a Varsavia. Quasi tutti seguiti, estremizzando Roger Corman, negli ultimi 11 minuti della loro vita. Attrice sexy, regista geloso, cineasta hollywoodiano lubrico, venditore di hot dogs, suore dal buon appetito, ragazzi che sniffano coca e portano pacchi, paramedici robusti, lavavetri, ex disegnatore di identikit per la polizia, ladro frustratoNon si conoscono tutti tra di loro, ma le loro azioni e pulsioni, i loro sotterfugi e sentimenti, i loro progetti e destini, il loro lavoro e i loro automezzi, la loro coca e i loro champagne, li condurranno tutti nei pressi di un hotel di lusso tutto vetri e cemento (ma dalla pessima manutenzione esterna) del centro città. Dove misurarsi, per il regista, con la potenza visiva degli artisti e dei fotografi (le luci sono di MikolajLebkowsi)  e dei musicisti delle ultime generazione (le armonie sono di Pavel Mykietyn), sarà una sfida più che eccitante .... Il regista, qui più che altro un Giove che osserva dall'Olimpo le miserie umane, Jerzy Skolimowski, padrino della nuova onda polacca anni sessanta, tifa nella curva opposta rispetto a quella di Trapero. Il suo cinema è dalla parte della comunicazione non verbale, sta per gli shock visuali, sta per la fabbricazione di meccanismi amorali e di misteri umorali. Si parte da una immagine e si costruisce da lì un puzzle di immagini. Andando a ritroso, avanti e indietro nel tempo.La regia di questo musical catastrofico è affidata al destino, piuttosto cinico. In 11 minuti (in concorso), perché il film si svolge dalle 17 alle 17 e 11', Skolimowski ha 81 minuti di tempo per dare sfoggio di virtuosismo spaziale e sonoro (il merito maggiore va al fonico, Radoslaw Ochno, che trasforma perfino un aereo che atterra nella cavalcata delle valchirie),  e va ancora più in là del divertissment cronologico Lola corre e molto deve alla lezione di Brian De Palma.

Brian De Palma
Brian De Palma il vecchio, proprio il gioiello della new hollywood, il creatore di classici del cinema come Il fantasma del palcoscenico, Le due sorelle,  Carrie, Gli Intoccabili, Obsession, Hi Mom e dei più sorprendenti noir mai concepiti dentro e ai margini di Hollywood racconta se stesso a Noah Baumbach e Jake Paltrow, esponenti della next generation già attivi (Frances Ha...) in De Palma. E' una lunga intervista realizzata in circa dieci anni. Il cineasta del New Jersey, dalle studentesche passioni scientifiche, arrivato molto tardi alla regia, rampollo del teatro off di Manhattan, scopritore di De Niro, folgorato sulla via di Damasco da Vertigo, segnato per tutta la vita dall'assassinio Kennedy, spiega in maniera dettagliata, umoristica e illuminante la sua vita, le sue mogli, le sue attrici d'affezione, le sue opere bellissime, tutte anche quando lui non ci crede e si schernisce, la sua famiglia difficile, i suoi film d'affezione (Godard, Truffaut...ma soprattutto Hitchcock di cui è il discepolo unico), il suo rapporto con gli attori (perfino con Michael J. Fox, perfino Sean Penn che lo prendeva per il culo "sei solo un attore tv!"; o  Al Pacino che lo ha lasciò di punto in bianco andandosene dal set metropolitano troppo faticoso di Carlito's Way), le sue amicizie professionali (the group: Cappola, Lucas, Spielberg, non Robert Towne il pessimo, Schrader, Scorsese...), perché ha combattutto contro l'aggressione al Vietnam e all'Iraq, utilizzando ogni strumento possibile perfino la cinepresa digitale portatile, perché ammirava le Black Panthers, perché deve essere grato a Medevoy, producer geniale dell'United Artists e poi Orion, il mistero dei suoi piani sequenza a gru carpiata o a forma di otto, il suo andare avanti e indietro, a Hollywood e via, verso l'aria più pura, e perché ogni sua scrittura cinematografica ha un senso preciso, anche se può sembrare uno scarabocchio (ed è sembrato indecifrabile a molti critici illustri, eccetto che a Pauline Kael e a quasi tutti gli europei).  A chi, come i critici fondamentalisti, considera immutabili le leggi aristoteliche della narrazione, per esempio la scansione a,b,c e d.... eroe all'opera, prime difficoltà, situazione quasi senza uscita, vittoria sorprendente finale, De Palma appare l'anti Cristo, perché lui dice che, se sono applicate al cinema d'azione, fanno sempre dormire sonni profondi e nauseabondi. Credo che se c'è qualcuno che ha avuto il coraggio di misurarsi e sfidare con il Drago che erurtta fuoco chiamato Hollywood dagli anni 80 ad oggi è stato proprio Brian, domatore in Blow out di Travolta (da cui è stato a sua volta conquistato) e che ha accettato di attraversare l'inferno Tom Cruise-Mission impossible, uscendone vivo e vegeto dall'esperienza (molto meno quel "traditore" di sceneggiatore di nome Robert Towne) 

Un film turco, d'atmosfera dark, e in concorso, è un bel ritorno. Anche se negli ultimi anni Ankara ha espresso già un cineasta testa di serie, da festival di primo livello, come il denso e spesso criptico Bilge Ceylan, di cui Emil Alper, 41 anni, studi in storia e economia, è stato assistente. Ma se nel plot di Abluka (Follia), in concorso, che in inglese suona addirittura Frenzy come se stessimo nei dintorni di Hitchcock, che racconta sul difficile sodalizio tra tre fratelli, si insiste anche su un personaggio che per mestiere uccide i cani randagi sia con il fucile che con le polpette avvelenate ecco che la memoria ci riporta esplicitamente a uno dei capolavori di Yilmaz Guney, il regista curdo marxista leninista, per anni in carcere dopo un processo truffa e messo al bando come terrorista comunista per decenni, ma che oggi viene ristudiato dalle giovani generazioni, riverito, restaurato e diffuso all'estero (Umut è qui, nella sezione dei classici riesumati). Chissà come mai. Forse perchè è sempre stato contrario al separatismo curdo, perché a favore dell'internazionalismo proletario. Guney parlava di un paese lacerato dalla lotta di classe. Diviso in due, tra Erdogan il sinistro e Demirel il destro. Con gruppi armati che si colpivano vicendevolmente. Con colpi di stato sia di destra che di sinistra per rafforzare un kemalismo che sembra ormai nascosto da un fondamentalismo che solo i media chiamano moderato. Ebbene anche la Turchia di oggi, che Erdogan sta conducendo alle elezioni forzando su un clima da stato d'assedio, appare simile a quella di Yol o di Muri. Si bombardano i covi Isis come i patrioti curdi. Si scatenano strane stragi di stato. Si rievoca la resurrezione dei gruppi armati di estrema sinistra. Anche in questo film in campo agiscono i servizi segreti, gli informatori della polizia spediti nei quarieri più incandescenti, una guerriglia endemica, bombe che esplodono di notte, squadre anti terrorismo che non riescono a scovare i colpevoli. E i nostri tre fratelli di cui uno è scomparso e forse è leader della guerriglia (di che tipo non si capisce), un altro ha i sensi di colpa per aver accoppato tutti i randagi della zona e se li sogna di notte che lo divorano e per questo alleva in grande segreto un bastardino. E il terzo, Kadir, il protagonista, che, in libertà condizionata, se scopre qualcosa di losco e riferisce  ai capi, se no sconterà tutti i 22 anni, entra in paranoia e inventa la più assurda delle ipotesi di complotto. Una doppia sindrome folle che fa deragliare il film avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori i sogni di uno dei fratelli o gli incubi dell'altro. Non sempre il regista porta a consonanza le troppe dissonanze. 
Follia di Emil Alper

  
Un film di Laurie Anderson. Che esperienza. Come parlare con un saggio vagabondo del dharma. Penso a Enzo Ungari che portò a Monticelli nei primi anni 80 i suoi video concettuali, sculture pixellate, autoritratti in bianco, grigio e nero. Ci dicevano: "siete voi stessi le opere d'arte. Abbiate il coraggio di esibirle, trasfomatevi. Sappiatevi far risuonare". Se l'occhio è per così dire l'evoluzione biologica di una lacrima, da una blue note cosa scaturirà tra qualche migliaia di anni, un secondo cuore? un cervello di riserva?  Avete presente "Dog star man", inizi anni 60 di Stan Brakhage? Questa ne è la versione overground, donna, digitale, in prosa. "Heart of a dog". Fosse stato presentato a Rotterdam transennavano le entrate. Il problema allora non è Barbera e la Mostra, ma il paese e la sua desertificazione. Non la classe dominante, è il suo lavoro sterminare, ma soprattutto le classi dominate, è il suo lavoro impedirglielo. E invece.   

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