Fredrick Wiseman |
Venezia
Siamo un po' indietro di una decina di film almeno di cui parlare. Il livello, come sempre, si alza. Ci sono in ogni festival di fascia A almeno dieci opere che restano impresse. Quella che cresce di più nella memoria è In Jackson Heights di Frederick Wiseman, 190 minuti girati nella zona del quartiere di Queens, New York City, considerata una delle più trans-etniche del mondo. Quasi 200 lingue che vi si incrociano. Ma via dalla mitologia del crogiuolo di razze! Cinema diretto allo stato puro. Ma con qualcosa di più, dentro, che non avevamo mai notato in un lavoro del grande documentarista statunitense. Ira. Rabbia. Furia. Indignazione? Ci sono sempre. Nascoste nel fuori campo o sotto le righe del nastro digitale. Ma qui c'è un'altra dolcezza di sguardo. Qualcosa di più della compassione. E della complicità con gli emarginati del sogno americano (che quel sogno a forza di sudore lo realizzano per gli altri). Come se l'occhio della telecamera vedesse sfilare in sovrimpresssione mentale spettri combattenti, ipotesi ancora disincarnate di cambiamento sociale. Hope. Così Wiseman fa il maoista, qui, il pesce nell'acqua. Fa un'inchiesta basata sulla triade critica, autocritica e trasformazione. Sembra quasi Joris Ivens. Diventa parte del territorio. Ipotizza risposte. Wiseman torna così all'aria aperta. Basta con le istituzioni da radiografare in profondità, con metodo ormai accademico, come il Crazy Horse o la National Gallery di Londra...Invece: descriviamo la vita di un quartiere pulsante. Là manca un semaforo e i bambini muoino attraversando la strada. Siamo alla citazione di Jonathan Demme (Cugino Bobby). E ancora. Il trio di mariachi, ma le musiciste sono donne messicane, e contagiano la piazza, e allora siamo dalle parti di Tarantino. Poi un piccolo mattatoio, El pollo vivo, come si spenna il pennuto e si trasforma, stritolato dalla macchina, in docile confezione da supermarket. Il cinema splatter. La novantenne dell'ospizio che aspetta la morte molto annoiata; la gentrificazione, ovviamente, stanno cacciando le piccole botteghe anche lì. Le associazioni di volontari che tutelano o inventano i diritti (abitazione lavoro sanità...) per chi ha scavalcato i confini, per gli illegali per lo più ispanici che racccontano le loro tragedie desertiche, e almeno le possono raccontare; i militanti che raccolgono firme contro i soprusi di zona, aizzando all'organizzazione, all'unione. La sinagoga di quartiere diretta da un rabbino evidentemente eccentrico che diventa il "covo" di un movimento di massa multireligioso che protegge trans, gay, atei, clandestini, perseguitati di ogni tipo... Una nuova atmosfera Iww sta contagiando l'America che si appresta a chiedersi se votare o no mister Trump? Wiseman sembra fiancheggiare da militante un movimento dal basso organizzato contro la globalizzazione dall'alto. Non l'avevamo mai visto così radicale. Un po' come Mario Monicelli. Invecchiando non si ha più nulla da perdere?
Riunione politica a Jackson Height, Queens, N:Y: |
Fascisti "privati" (ma sempre ben protetti dall'alto) all'opera, dalla prima all'ultima inquadratura, invece in El Clan, diretto da un beniamino dei festival, capofila del nuovo cinema argentino, Pablo Trapero (in concorso) che getta di solito dell'ottimo acido corrosivo (qui in modo più insidioso e indiretto) sul tradizionale modo di raccontare una storia. Tutto consequenziale. Tutto spiegato. Senza una inquadratura di troppo. Verismo e realismo a manetta nel raccontare la vittoria del bene sul male. Invece Trapero, disinteressandosi spesso perfino della plausibilità dell'azione, e facendoci sorbire un interno di famiglia tutto noia domestiva, proprio come accade nella vita di tutti i giorni se non arrivasse Hitch, intraprende un match privato, a forza di primi e primissimi piani, con il suo attore protagonista, Arquimedes, nella parte della "banalità del mostro", slavandogli lo sguardo, radiografandone ogni atto di patriarcale sovranità, e portandolo da subito alla sbarra "etica". Ebbene gli occhioni gelidi di buon cristiano del vecchio, che prega prima di ogni pasto, reggono magnificamente gli shooting della macchina da presa. Ha ragione lui. Incarna il nuovo spirito dei tempi. L'individualismo sfrenato. Altro che bandiera argentina sacra da conservare nella cassettiera buona. Dimentichiamoci quel che in un film d'azione è il motore, il suspense, il fatto che qualcuno stia braccando il cattivo per catturarlo prima che sia troppo tardi. No. Qui il catalogo va avanti, ripetitivo, senza intoppi. Rapimento dopo rapimento. Uccisione dopo uccisione. C'è stato un tempo, forse, in cui la violenza fascista della dittatura militare poteva anche avere delle motivazioni elevate, perfino spirituali, quelle di difendere i valori cristiani degli argentini dal pericolo del comunismo materialista. Perfino Sokurov potrebbe dare ragione a Videla. E invece al povero Arquimedes viene lasciato il fardello di incorporare il vero segreto della violenza fascista di quegli anni. Soldi. Profitti. Conti in banca da proteggere. Paura di mollare un solo cent per colpa della destra e della sinistra peronista. Del radicale Alfonsin meglio non preoccuparsi. I radicali al potere in Argentina durano lo spazio di un mattino....Dopo la caduta di Videla, comunque, saranno quelli i valori spirituali dominanti. Grazie Archimede.
Il film è tratto da un tremendo fatto di cronaca. Una famiglia "rispettabile" della media borghesia del quartiere San Isidro, i Puccio, padre padrone (e membro dei servizi segreti) più madre insegnante e figli troppo servizievoli e "embedded", rapisce nei primi anni 80 ricchi rampolli della borghesia di Buenos Aires e, presi i soldi del lauto riscatto, li ammazza senza pietà, uno dopo l'altro. Funziona da magnete irresistibile, e scudo (perché la sua popolarità tiene i Puccio lontano da ogni sospetto) Alejandro, il figlio maggiore, un riccioluto campione di rugby, idolo dei Pumas, adorato da tutti coloro che, con i militari al potere, hanno visto i loro conti in banca crescere, crescere, crescere smisuratamente. E' il fascino del fascio, bellezza. Sulle prime Archimede fa finta di essere un militante rivoluzionario del Fronte di liberazione Nazionale. Poi fa sempplicemente la jena. Anche perché i cattivi vanno fortissimo di questi tempi. Se poi sono schegge impazzite degli squadroni della morte di Galtieri e Videla, addestrati al sequestri di persona politico, e che continuano ad agire indisturbati perfino dopo che il radicale Alfonsin è ritornato garante della democrazia, il godimento sarà massimo. Certo essere esposti alle radiazioni dei Puccio per 108' può nuocere gravemente alla salute.
11 minuti di Jerzy Skolimowski |
Brian De Palma |
Un film turco, d'atmosfera dark, e in concorso, è un bel ritorno. Anche se negli ultimi anni Ankara ha espresso già un cineasta testa di serie, da festival di primo livello, come il denso e spesso criptico Bilge Ceylan, di cui Emil Alper, 41 anni, studi in storia e economia, è stato assistente. Ma se nel plot di Abluka (Follia), in concorso, che in inglese suona addirittura Frenzy come se stessimo nei dintorni di Hitchcock, che racconta sul difficile sodalizio tra tre fratelli, si insiste anche su un personaggio che per mestiere uccide i cani randagi sia con il fucile che con le polpette avvelenate ecco che la memoria ci riporta esplicitamente a uno dei capolavori di Yilmaz Guney, il regista curdo marxista leninista, per anni in carcere dopo un processo truffa e messo al bando come terrorista comunista per decenni, ma che oggi viene ristudiato dalle giovani generazioni, riverito, restaurato e diffuso all'estero (Umut è qui, nella sezione dei classici riesumati). Chissà come mai. Forse perchè è sempre stato contrario al separatismo curdo, perché a favore dell'internazionalismo proletario. Guney parlava di un paese lacerato dalla lotta di classe. Diviso in due, tra Erdogan il sinistro e Demirel il destro. Con gruppi armati che si colpivano vicendevolmente. Con colpi di stato sia di destra che di sinistra per rafforzare un kemalismo che sembra ormai nascosto da un fondamentalismo che solo i media chiamano moderato. Ebbene anche la Turchia di oggi, che Erdogan sta conducendo alle elezioni forzando su un clima da stato d'assedio, appare simile a quella di Yol o di Muri. Si bombardano i covi Isis come i patrioti curdi. Si scatenano strane stragi di stato. Si rievoca la resurrezione dei gruppi armati di estrema sinistra. Anche in questo film in campo agiscono i servizi segreti, gli informatori della polizia spediti nei quarieri più incandescenti, una guerriglia endemica, bombe che esplodono di notte, squadre anti terrorismo che non riescono a scovare i colpevoli. E i nostri tre fratelli di cui uno è scomparso e forse è leader della guerriglia (di che tipo non si capisce), un altro ha i sensi di colpa per aver accoppato tutti i randagi della zona e se li sogna di notte che lo divorano e per questo alleva in grande segreto un bastardino. E il terzo, Kadir, il protagonista, che, in libertà condizionata, se scopre qualcosa di losco e riferisce ai capi, se no sconterà tutti i 22 anni, entra in paranoia e inventa la più assurda delle ipotesi di complotto. Una doppia sindrome folle che fa deragliare il film avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori i sogni di uno dei fratelli o gli incubi dell'altro. Non sempre il regista porta a consonanza le troppe dissonanze.
Follia di Emil Alper |
Un film di Laurie Anderson. Che esperienza. Come parlare con un saggio vagabondo del dharma. Penso a Enzo Ungari che portò a Monticelli nei primi anni 80 i suoi video concettuali, sculture pixellate, autoritratti in bianco, grigio e nero. Ci dicevano: "siete voi stessi le opere d'arte. Abbiate il coraggio di esibirle, trasfomatevi. Sappiatevi far risuonare". Se l'occhio è per così dire l'evoluzione biologica di una lacrima, da una blue note cosa scaturirà tra qualche migliaia di anni, un secondo cuore? un cervello di riserva? Avete presente "Dog star man", inizi anni 60 di Stan Brakhage? Questa ne è la versione overground, donna, digitale, in prosa. "Heart of a dog". Fosse stato presentato a Rotterdam transennavano le entrate. Il problema allora non è Barbera e la Mostra, ma il paese e la sua desertificazione. Non la classe dominante, è il suo lavoro sterminare, ma soprattutto le classi dominate, è il suo lavoro impedirglielo. E invece.
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