Roberto Silvestri
Venezia
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L'attesa di Piero Messina |
Michel Foucault ricorda in una delle sue celebri lezioni che André Breton, lo psicanalista travestito da surrealista e da fine letterato, come regola critica per scovare nella letteratura le pratiche più disinteressanti e retrive utilizzava la frase "specchietto per le allodole"
la baronessa uscì alle cinque. Dove e quando troviamo frasi simili, stare sempre alle larga. Anche molto giornalismo di bassa lega, non quello del
Boston Globe, ovviamente, che è d'inchiesta e non ha a che fare con il lavoro dell''informatore (che diffondi veline o documenti di magistrati e servizi segreti) è fatto di "baronesse - o personalità politiche - che dopo essersi ammirate allo specchio e aver pensato oggi è la mia giornata di gloria sono uscite alle cinque". Ma persino i premi letterali sovente hanno un segno e un tono ancora fastidiosamente anti bretoniano ... Per questo motivo mi piacerebbe lasciare la parola a Breton o a Daumal per stroncare il film in gara
Marguerite di Xavier Giannoli, che proprio di una baronessa francese anni venti che esce alle cinque per esibire le sue atroci qualità vocali tratta, coinvolgendo nel divertimento naturalmente inizio XXI secolo i punk, gli anarchici, i dadaisti dell'epoca che vengono sbeffeggiati sorrentinianamente nella storia più ancora della baronessa e ne condividono, per volontà dello stesso autore, la stessa, funerea, sorte.
A proposito, invece, di procedimenti linguistici ad alta denotazione e connotazione, sperimentali e "distorcenti, che dovrebbero ampliare la gamma sonora o visiva o emozionale consentita, quella che fece davvero, per esempio, l'originalità più che melodica e armonica della rivoluzione Sex Pistols, cioé dei più che intonati, rispuntano felicemente nel nuovo film di Renato De Maria e in uno dei quattro film italiani in concorso (che sono tutti di coproduzione francese),
L'attesa, con Juliette Binoche in un ruolo stravagante di francocatanese.
Da sempre interessato agli aspetti criminali di uomini e donne dalla personalità forte e indocile, che non ci stanno mai al destino che è loro imposto, il regista di
Paz,
introduce in
Italian Gangsters (sezione Orizzonti) degli elementi "scandalosi" che mi sembrano invece funzionali a una delle più riuscite immersioni destabilizzanti dentro il patrimonio documentaristico, così inossidabile e inamidato, del Luce.
Certo si utilizzano brani bellissimi da celebri thriller popolari, firmati Bava, Tessari, Lenzi, Bellocchi, Vancini... Ma questo è normale, anche se la riflessione fiction è anacronistica, e per lo più, avviene già a mostro sbattutto in prima pagina dieci anni prima. Fuori sincrono soprattutto i poliziotteschi anni 70 di Ferdinando Di Leo che ci parlano di qualcosa che non è più nello stile Fred Buscaglione, Jannacci o
I soliti ignoti. Al Boom economico, sue origini e conseguenze, sempre disastrose per i lavoratori, si poteva anche rispondere con qualche piccolo e spesso incruento "boom boom" privato. Nei quartieri popolari, parola di testimone diretto, abitando nel quartiere San Paolo di Torino per tutto il decennio 50, posso assicurarvi che i banditi della periferia erano non dico amati ma certo più rispettati dei poliziotti di Scelba. Quella che al Trullo o a San Basilio di Roma non poteva neanche mettere piede.
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Francesco Sferrazza Papa è il bandito Ezio Barbieri in "Italian Gangsters" |
Così assieme ai suoi giovani collaboratori, De Maria, ha scelto di raccontare 25 anni di storia, soprattutto nordica, lì dove c'erano più
danè, del nostro paese, dalla banda del Gobbo a Sante Notarnicola, attraverso i suoi più famosi banditi. Sei personaggi chiave della malavita italiana, dal solista del mitra Luciano Lutring all'anarchico Horst Fantazzini, da Casaroli a Barbieri, da Cavallero a De Maria (notare l'omonimia), prima che, con il 1969, cambi tutto con l'efferato assassinio romano dei due fratelli Menegazzo, gli orefici del Nomentano. Diciamo che svanisce, con quell'esecuzione imprevista da parte dei rapinatori sciagurati un certo concetto di onore, di "morale a parte", che tutti i noir nobili di Melville con Lino Ventura e Serge Reggiani avevano radiografato come calco di un mondo emozionale perduto. Giro della droga, banda della Magliana, della Uno bianca e tutto il resto riportarono tra l'altro i poliziotti ben dentro i quartieri popolari, anzi c'è qualche maligno convinto che qualcuno ne divenne, da allora, il ras...
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Horst Fantazzini nella ricostruzione di Andrea Di Casa |
L'idea forte di De Maria (di Valentina Strada e di Federico Gnesini) è di mettere in scena i sei banditi attraverso sei magnifici attori che li reinterpretano, raccontando finalmente la loro vita e i loro crimini con calma, critici della società ma anche autocritici rispetto alla limitatezza della loro risposta, davanti a una platea di cittadini e non al solito poliziotto manesco o al mostro di magistrato o ai parenti delle vittime (l'organo che ormai ha superato la cassazione, come superiore grado di giudizio). E invece. Qui come davanti a un tribunale del popolo, sembra
M di Fritz Lang. Certo, sono usciti fuori, quei ragazzi istintivi e di cultura scapigliata, come rampolli degeneri, dalla guerra civile tra rossi e neri, democratici e nazifascisti, ai margini della resistenza, forzando i limiti della soggettività desiderante legittima, indicando però un accesso finalmente possibile alla ricchezza e alla felicità da parte di ceti secolarmente indigenti.Basta imbracciare un mitra malmesso. Il cinema delle nouvelle vagues rubò a manbassa e fece andare ai pazzi la sinistra storica. Ricordate
Fino all'ultimo respiro? E i banditi di Oshima? E De Maria cineasta colto restituisce così al De Maria criminale e agli altri compari quella luce e quella dignità, almeno fotografica e scenografica, che l'ideologia visuale razzista del Luce e dei giornali popolari dell'epoca gli avevano tolto. Ricordate quando Toni Negri maledisse di non avere delle sue fotografie normali perché i media avevano inondato i nostri occhi con quelle foto tessere da macchinetta a 1000 lire quattro? Ecco, il film di De maria è come se facesse rifotografare Negri da Luxardo. C'è un più, non un meno di conoscenza critica e di rispetto etico, che salta agli occhi in questo esperimento (a parte la sciagurata caduta di stile nei riguardi di Sante Notarnicola, che da bandito diventò in carcere un serio militante rivoluzionario, e non c'è da farci nessuna ironia sopra, soprattutto quando a farla è il rinato in Cristo Cavallero) . Qualcuno dice: ma così li si romanticizza, quei banditi! Io dico il contrario. Sono stati i mass media a romanticizzare la mala. Non è stato forse anche il
Corriere della Sera che per anni glorificava "Ornella Vanoni, la musa della Mala", e continuarlo a fare adesso che è la musa di Berlusconi? Lo ha fatto forse per coprire, per nascondere i canti operai rivoluzionari della banda dell'ex Pci Cavallero al termine del processo, probabilmente. La prova del nove è che quando finalmente Lutring viene intervistato, a galera passata, come ottimo pittore di successo, ecco che quegli occhi, quello sguardo, quell'atteggiamento non più embedded, torna quello di un essere umano che ha sbagliato, senza tutte quelle connotazioni che i moralisti e gli ipocriti esigono che si aggiungano. E vale, a un tratto, tutti gli occhi, gli sguardi, l'espressione e il linguaggio
impostato, insomma tutta la fiction, perfetta, degli attori.
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Juliette Binoche in L'attesa di Piero Messina |
Una vedova catanese di orgini francesi (Juliette Binoche) perde improvvisamente il giovane figlio. La bionda fidanzata francese del ragazzo (Lou de Laage), ignara, va a trovarlo. La signora, che non la conosceva, non le dice nulla di quella morte. Ma l'accoglie per lunghi giorni. Siamo alla vigilia di Pasqua. "Arriverà tra qualche giorno". Passeggiate al lago. Ricordi, sogni, incursioni nella stanza del ragazzo, messaggi al cellulare, una cena casuale con amici fortuiti...La ragazza non riesce a capire perché il suo ragazzo non c'è e non la raggiunga. Forse è ancora offeso dopo il litigio dell'estate precedente? ...
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Juliette Binoche e Lou de Laage |
Film d'atmosfera. Non naturalista. Duetto d'azione interiore. Doppia elaborazione del lutto. Di intenzionalità e commozioni fuori campo.... Anche
L'attesa, opera prima di piero Messina (alle sue spalle corti da festival e doc), scritta a otto mani, ambientata nella solatia provincia etnea, in una villa (ex baronale certamente) con tenuta gigante, in attesa della festa patronale emozionante come fossimo in
Viaggio in Italia, contiene oltre che due attrici strepitose in cerca di personaggi adeguati, non poche imperfezioni, imprecisioni, deviazioni, sospensioni, stravaganze impreviste che giocano, anche ironicamente, ma programmaticamente, con una forma cinema che si esibisce prepotentemente come padroneggiata alla grande. Francesco Di Giacomo, alle luci, è in stato di grazia e conosce bene arte e fotografia contemporanea.Ma che succede di strano? Carrellate rasomuro che rischiano il deragliamento. Oppure. Avete presente il raccordo sull'asse? E' quando si inquadra una scena in campo lungo e poi ci si avvicina in campo medio con stacco di montaggio mantenendo lo stesso asse di ripresa. Ebbene qui lo si utilizza, ma capovolto. Vicini e poi lontani. Bizzarria? No. Stiamo attenti a quel che vediamo e ascoltiamo. Se la nostra prospettiva si amplia è meglio. In fondo queste due donne hanno molto in comune. Amori sbocciati casualmente, neanche tanto intensi, nel passato. Eppure. Prendiamola alla lontana la storia. E avverrà qualcosa di strano. Una emozione catturata e condivisa, dentro e fuori lo schermo. Come dentro e fuori il simulacro della Madonna, nei riti di Pasqua, avviene sempre qualcosa che travolge le folle dei fedeli. Anche la statua della Madonna, da cui spuntano solo le mani prima dell'apparizione nel rito, con quel suo bambini venuto casualmente....e ucciso altrettanto assurdamente....con certe particolari cromatismi luministici di cui i paesini del sud maneggiano la magia, va al di là dell'automatica riproduzione, diventa robot... E che dire di un primo piano improvviso, d'ambiente, del tutto fuori senso, e apparentemente insignificante, come se entrasse di soppiatto un dettaglio di oggettiva descrizione da nouvea roman? Il fatto è che Piero Messina, anche chitarrista oltre che cineasta, dà il massimo come regista di attori e visualizzatore di atmosfere (l'unica nota realistica è nella battuta di Giorgio Colangeli: "sono stanco", e lo credo bene visto che grazie al reference system si deve fare tutti i film italiani prodotti nell'anno). Peccato che, non solo al suo film, è un difetto nazionale, manchino ancora personaggi alti, forti, tragici.
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