venerdì 11 settembre 2015

Il cinema a fuoco dall'India alla Cina


Mariuccia Ciotta

Venezia
Micolas Saada e Stacy Martin

 



L'artista abita alla Mostra di Venezia che deve distinguersi sempre più da festival monstre come quelli di Toronto e di Cannes, ma attenzione ai film arty, al cinema gonfio di stereotipi d'autore. Ne abbiamo visto più di uno qui a Venezia, dal sudafricano The Endless River di Oliver Hermanus a L'attesa di Piero Messina. Al centro un sovraccarico di compiacimenti per le immagini belle, la dilatazione dei tempi, i primi piani fissi su sguardi misteriosi e inespressivi, ricette applicate anche a titoli tematicamente intensi, il turco Emin Alper di Abluka e il venezuelano Lorenzo Vigas di Desde Allà. Sono film in carenza di “meraviglia”, quella che abbonda nei cineasti di riferimento come Marco Bellocchio.

A parte, la commedia del francese Christian Vincent che sceglie il minimalismo in L'Hermine con Fabrice Luchini uguale a stesso, misantropo e caustico. Molto apprezzato, forse perché sembra il pilot di una serie tv: “il giudice a due cifre” (non dà mai meno di 10 anni di carcere). La giustizia francese ne esce glorificata. E sempre dalla Francia arriva in Orizzonti uno dei giovani critici più importanti dei Cahiers du cinema, annate buone, Nicolas Saada, affilato analista del cinema americano (memorabili le sue recensioni di Clint Eastwood), sceneggiatore-regista di corti e film tv, già responsabile della fiction di Arte. Negli ultimi anni si è dedicato allo studio della musica da film, in apprezzate trasmissioni radiofoniche. Taj Mahal, è il titolo del film e il nome dell'hotel di Mumbai assaltato nel 2008 da integralisti islamici pakistani. I terroristi talebani fecero irruzione nell'albergo, spararono ai clienti, presero decine di ostaggi, diedero alle fiamme il sontuoso edificio. In un blitz, la polizia li uccise tutti, ma intanto un altro albergo, l'Oberoi, diventava scenario di guerra.

Dopo aver incontrato i parenti di una ragazza sopravvissuta all'apocalisse di Mumbai, Saada ha deciso di raccontare la storia di questa diciottenne rimasta sola nella suite del Taj Mahal mentre i genitori, usciti per una festa, cercavano nel caos generale di tornare indietro. “Siamo fra poco da te, tesoro, non avere paura” ripete il padre alla figlia (Stacy Martin, attrice di Nymphomaniac di Lars von Trier) appesa al cellulare, nascosta nell'armadio, nel bagno, sotto al letto mentre i terroristi prendono a calci la porta e il fumo invade la camera. La promessa sembra piuttosto surreale, ma lei confida nel padre francese (nella madre anglofona meno) consulente industriale arrivato con la famiglia in India per lavoro, due anni in cui la diciottenne si eserciterà nella fotografia.

Il critico-regista cerca la dimensione interiore di un “inferno di cristallo”, sfida il cinema di genere, per esempio non fa interpretare dagli attori i ruoli dei terroristi, usando solo immagini televisive d'epoca, o prediligendo le immagini sonore a quelle visuali, è bellissima la partitura, ma il racconto si smaterializza sempre più nell'espressione assente di Stacy Martin, straniera non solo a Mumbai ma anche al film, in cui vaga incerta, inquadrata senza limiti. Un'apparizione di Alba Rohrwacher, vicina di stanza in pericolo, dà un senso ancor più di straniamento tra fuochi e fiamme, pompieri e genitori intrepidi. Intorno i paesaggi bellissimi della città indiana, i mercati, il fiume, le luci strabiche, la notte... sul computer passa Hiroshima, mon amour ma il dvd si incanta. Succede.

In gara Beixi moshuo di Liang Zhao ci riporta alla performance d'arte, un altro inferno bruciante nelle miniere cinesi. Dove deve aver girato non senza fatica. Fuochi d'artificio e facce disgregate dal lavoro e dal massacro negli altiforni compongono arazzi suggestivi. Il titolo fa riferimento a Beehemoth, il mostro biblico che il devastante sviluppo economico del suo paese pare resuscitare, tra camion caterpillar fabbriche gigantesche e paurose discese nelle viscere della terra. I prati sventrati, le pecore in esilio in mezzo a immense spianate di cemento, la Cina si autodistrugge nella corsa al “progresso”. La denuncia è terribile, ma anche terribilmente esasperante. Si rimpiange il grande “documentarista” Jia Zhangke di 24 City.

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