Mariuccia Ciotta
Venezia
Micolas Saada e Stacy Martin |
L'artista abita alla Mostra di Venezia
che deve distinguersi sempre più da festival monstre come
quelli di Toronto e di Cannes, ma attenzione ai film arty, al cinema
gonfio di stereotipi d'autore. Ne abbiamo visto più di uno qui
a Venezia, dal sudafricano The Endless River di Oliver
Hermanus a L'attesa di Piero Messina. Al centro un
sovraccarico di compiacimenti per le immagini belle, la dilatazione
dei tempi, i primi piani fissi su sguardi misteriosi e inespressivi, ricette
applicate anche a titoli tematicamente intensi, il turco Emin Alper
di Abluka e il venezuelano Lorenzo Vigas di Desde Allà.
Sono film in carenza di “meraviglia”, quella che abbonda nei
cineasti di riferimento come Marco Bellocchio.
A parte, la commedia del francese
Christian Vincent che sceglie il minimalismo in L'Hermine con
Fabrice Luchini uguale a stesso, misantropo e caustico. Molto
apprezzato, forse perché sembra il pilot di una serie tv: “il
giudice a due cifre” (non dà mai meno di 10 anni di
carcere). La giustizia francese ne esce glorificata. E sempre dalla
Francia arriva in Orizzonti uno dei giovani critici più
importanti dei Cahiers du cinema, annate buone, Nicolas Saada, affilato
analista del cinema americano (memorabili le sue recensioni di Clint
Eastwood), sceneggiatore-regista
di corti e film tv, già responsabile della fiction di Arte.
Negli ultimi anni si è dedicato allo studio della musica da film, in apprezzate trasmissioni radiofoniche. Taj Mahal, è il
titolo del film e il nome dell'hotel di Mumbai assaltato nel
2008 da integralisti islamici pakistani. I terroristi talebani
fecero irruzione nell'albergo, spararono ai clienti, presero decine
di ostaggi, diedero alle fiamme il sontuoso edificio. In un blitz, la
polizia li uccise tutti, ma intanto un altro albergo, l'Oberoi,
diventava scenario di guerra.
Dopo aver incontrato i parenti di una
ragazza sopravvissuta all'apocalisse di Mumbai, Saada ha deciso di
raccontare la storia di questa diciottenne rimasta sola nella suite
del Taj Mahal mentre i genitori, usciti per una festa, cercavano nel
caos generale di tornare indietro. “Siamo fra poco da te, tesoro,
non avere paura” ripete il padre alla figlia (Stacy Martin, attrice
di Nymphomaniac di Lars von Trier) appesa al cellulare,
nascosta nell'armadio, nel bagno, sotto al letto mentre i terroristi
prendono a calci la porta e il fumo invade la camera. La promessa
sembra piuttosto surreale, ma lei confida nel padre francese (nella madre anglofona
meno) consulente industriale arrivato con la famiglia in India per
lavoro, due anni in cui la diciottenne si eserciterà nella
fotografia.
Il critico-regista cerca la dimensione
interiore di un “inferno di cristallo”, sfida il cinema di
genere, per esempio non fa interpretare dagli attori i ruoli dei terroristi, usando solo immagini televisive d'epoca, o prediligendo le immagini sonore a quelle visuali, è bellissima la partitura, ma il racconto si smaterializza sempre più
nell'espressione assente di Stacy Martin, straniera non solo a Mumbai
ma anche al film, in cui vaga incerta, inquadrata senza limiti.
Un'apparizione di Alba Rohrwacher, vicina di stanza in pericolo, dà
un senso ancor più di straniamento tra fuochi e fiamme,
pompieri e genitori intrepidi. Intorno i paesaggi bellissimi della
città indiana, i mercati, il fiume, le luci strabiche, la
notte... sul computer passa Hiroshima, mon amour ma
il dvd si incanta. Succede.
In
gara Beixi moshuo di
Liang Zhao ci riporta alla performance d'arte, un altro inferno
bruciante nelle miniere cinesi. Dove deve aver girato non senza fatica. Fuochi d'artificio e facce
disgregate dal lavoro e dal massacro negli altiforni compongono
arazzi suggestivi. Il titolo fa riferimento a Beehemoth, il mostro biblico che il devastante sviluppo economico del suo paese pare resuscitare, tra camion caterpillar fabbriche gigantesche e paurose discese nelle viscere della terra. I prati sventrati, le pecore in esilio in mezzo a
immense spianate di cemento, la Cina si autodistrugge nella corsa al
“progresso”. La denuncia è terribile, ma anche terribilmente esasperante. Si
rimpiange il grande “documentarista” Jia Zhangke di 24
City.
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