Everest, che
ha inaugurato, fuori concorso, la Mostra di Venezia n.72 ci ha
accompagnato sulle vette se non del cinema di un Nepal ghiacciato idealmente luogo dell'aldilà, meta di scalatori perlopiù dilettanti che affollano le pareti della
montagna più alta della terra, dove l'aria è così rarefatta che il
corpo comincia a morire nell'avvicinarsi al “tetto del mondo”,
8.848 metri.
Un film meno sfolgorante del due ultimi
film di apertura, Gravity (2013) e Birdman (2014).
Eppure.
Everest non è un film
catastrofico stile anni 70 in ascesa di pathos e in attesa di scene
madri. E' un docu-film ibrido (girato un po' in Nepal, un po' a
Cinecittà) ricalcato sulla storia vera di una spedizione del 1996,
bilancio 5 morti. Pochi. Negli anni successivi le vittime si
moltiplicarono. Agenzie di avventure estremamente pericolose, nel
film e nella realtà, si dividono i turisti, e competono, tra sponsor
e foto-reporter, per conquistare le piste e le date migliori.
Sessantacinquemila dollari ha pagato il patologo texano interpretato
da Josh Brolin per farsi portare lassù dalla tenera, protettiva
guida Rob (Jason Clarke) e così gli altri che davvero partirono il
10 maggio del '96 dal campo base himalayano.
La schiera di star in rapida
apparizione (e sparizione) sono l'unico dato in comune con il genere,
e qui le facce note sono (a parte Brolin e Clarke, protagonisti)
quelle di Sam Worthington (Avatar) Keria Knightley, Emily
Watson, Jake Gyllenhaal, Robin Wright.
Devia dal format valanghe, terremoti,
eruzioni, invasioni di api assassine etc il regista islandese
Blatasar Kormàkur, attore e produttore, autore di 101 Reykjavík
(2000) Inhale
(2010), Contraband (2012). Il suo The Deep ha corso per
l'Oscar straniero 2012, anche questa una storia di resistenza e
sopravvivenza (naufragio sulle coste islandesi) in un'isola dove la
natura oltre a essere estrema è anche “commercializzata”.
Everest documenta i passaggi, i
dettagli tecnici, le procedure di una follia collettiva e
internazionale che si riunisce come una congrega religiosa, si
ammucchia sotto le tende piantate nelle neve, e cova i suoi piaceri
nascosti - toccare il cielo - anche se costerà qualche dita della
mano e dei piedi. I corpi trascinati, boccheggianti, senza fiato...
il cervello può schizzare, i polmoni sono a rischio, avverte la
guida, non saranno solo le tempeste a uccidere ma soprattutto la
montagna che non è un paese per uomini, e neppure per donne (nella
vera spedizione morì l'unica scalatrice, giapponese).
La carovana sale con l'aiuto dei
portatori d'alta quota provenienti dalla popolazione sherpa, che non
rischiano più di tanto, sanno che Shangri-La non esiste, che dio non
abita sull'Everest, e che è meglio tornare indietro se la montagna
lo chiede. Ma perché questi ricchi signori in gran parte occidentali
si rivolgono a ”Mountain Madness”? La domanda viene finalmente
posta. E qui Kormàkur mette sotto la luce radiante dell'Everest il
malessere dei suoi dilettanti. Non tanto il trofeo, non tanto
l'adrenalina, ma a spingere in alto è un'esistenza ferita che solo
lassù dimentica se stessa. La sofferenza fisica inflitta dalla
montagna spazza via l'altra, impalpabile come la neve.
Il film (in sala da oggi 24 settembre)
risente di inserti lacrimosi, mogli incinte all'altro filo del
telefono, e concede a produttori e distributori (Universal) quel
tanto in più di azione e emozione, col rischio di apparire un dejà
vu. Ma c'è qualcosa di sconcertante in Everest, una
caparbietà atletico-spirituale da far invidia a Werner Herzog, ma
anche al Clint Eastwood di Assassinio sull'Eiger. E poi si
impara che a una certa altezza gli elicotteri non possono volare
perché l'aria è insufficiente e l'elica gira a vuoto, a meno che
non sei un “texano al 100%”, allora si mobilita l'ambasciata
americana e l'elicottero militare nepalese arriva, precipita per un
po' e poi riprende il volo.
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