Vincerà Luca Guadagnino? |
Roberto Silvestri
Venezia
Adesso che il
concorso è finito bisogna recuperare qualche film di cui non abbiamo
scritto in questi giorni concitati. Mentre la giuria che, Cuaron, Hou
Hsiao Hsien e Munzi a parte, non ci sembra troppo affidabile, sta
redigendo l'attesa (?) pagella dei buoni e dei cattivi, dei
vittoriosi e degli sconfitti. La Mostra di Venezia non sarà il
Wal-Mart dei cinefestival come Toronto, si fa bella anzi scodellando
come a Cannes quasi solo quello che piace ai francesi, e molti
artisti profughi delle arti visive, come Laurie Anderson o Zhoa
Liang, ma alla fine il suo palmares dovrebbe concentrarsi su Sokurov,
Trapero, Vigas, Alper, bocciando la troppo libertaria linea Anderson,
Guadagnino, Doremus, , Egoyan, con Skolimowski talmente ago della
bilancia tra i due gruppi che alla fine potrebbe spuntarla. Il nostro
premio e Amos Gitai.
Non abbiamo parlato
di un film australiano, Looking for Grace di Sue Brooks, che
si ispira indirettamente e involontariamente al noto F for Fake
di Orson Welles, estremizzandone il bersaglio. Non è solo l'arte che
ha a che fare con l'illusionismo e la “magia” perché la falsità
è la sua unica verità. Ma è la vita stessa, così confusa così
imprevedibile e così disordinata, che è bella se si riesce a
godersela nell'istante, la morte è sempre in agguato, e ad
aggiungere un po' di caos nell'ordine, a condire di bugie le verità,
a moltiplicare segreti su segreti, aprendo false piste... forse solo
così si catturerà il segreto di un film sull'amore, sull'incontro
ipotetico, e sempre pronto a sciogliersi, di due solitudini. Quel
sentimento che ti rassicura, anche se non tutto torna mai. Perché
nessun essere umano riesce a sfiorare l'amore assoluto. Che sia una
specialità divina doc?
Siamo dalle parti di
Perth, nell'estremo occidentali del continente oceanico attraversato
da treni e giganteschi pullman. Un misterioso autista ha come
passeggero un bimbo. Che stranezza. Non sarà mica Damien? Una
sedicenne, la biondina Grace, scappa di casa per partecipare a un
concerto hard rock con una amica coetanea. Non ne sentiremo una nota.
Sulla strada Grace passa la notte con un ragazzo cool, ma forse
malefico, che la deruba in hotel con affetto. I genitori, Dan e
Denise, inseguono Grace nella piatta e desertica pianura senza fine.
Anche perché la piccola ha poco prima svaligiato casa. Non si sa
mai, le servissero soldi nel viaggio. 16 mila dollari. Un buffo,
troppo anziano, investigatore privato, viene incaricato di
affiancarli. Con umorismo e freddezza, bandita ogni profondità
psicologica, si inquadra il tutto con stile nouveau roman, per
esempio il passato della coppia. Il lavoro, il negozio, l'erotismo,
qualche timida ipotesi di tradimento di lui con la segretaria, mentre
il tono è indefinibile. Sarcastico? Umorismo nero? Giansenistica
resa ai disegni indecifrabili dell'assoluto? Il minimalismo aussie
aspira alla grazia. La grazia gliela può concedere solo il pubblico.
Vedremo se la giuria farà questa grazia. I disegni del divino sono
imperscrutabili.
Il premio per la
sceneggiatura a Benjamin August è già moralmente assegnato,
qualunque sia il verdetto della giuria. Bellissimo Remember di
Atom Egoyan , ne scrive Mariuccia Ciotta a parte, ma per chi
considera grande cinema tutto Russ Meyer, The Great
Rock'n roll Swindle di Julian Temple, Lo sbirro e la madama
di Burt Reynold, John Landis soprattutto del primo episodio di Ai
Confini della realtà e di The Blues Brothers che di
quello spirito antinazi è impregnato, è un capolavoro assoluto. Non
ammette se e ma. Christopher Plummer qualunque giuria composta da
esseri umani dovrebbe essere portato in trionfo per la sua
performances double body. L'SS e l'ebreo in un corpo solamente. Chi
mai li aveva interpretati? Fantastico.
Ci sono film che
fanno fare un giro imprevisto in più, e gratis, alle nostre teste.
E le smuovono e le sconvolgono un po' (Guadagnino, Gitai, Kaufman,
Skolimowski...). E altri che, come fa Salvini con il suo popolo,
stanno molto attenti a non spostarle, quelle teste. Che restino dove
sono (Sokurov quando fa, poco saggiamente, “cinema saggio”).
Un esempio del primo
tipo è anche Per amore vostro di Giuseppe M.
Gaudino, set Napoli oggi, quella più povera ma che si affaccia
spudoratamente, però, sul lungo mare più bello del mondo, come
fossimo in una favela di Rio. E' un film sperimentale ad alta
sensibilità umana, grondante fino alla nausea purificatrice di pezzi
di popolo gettavo via come roba vecchia sulla strada, di religiosità
pagana misteriosa ma consolatrice, di mostruosità e felicità
domestiche, di Gomorra quotidiana qualunque, il tutto scodellato, tra
Hitch e Carmelo Bene, attraverso effetti speciali affettuosi, loop
horrro, distorsioni, cromatismi lisergici improvvisi e soprattutto
svisate scratching sonore (di Mac Guff più Epsilon Indi alle
musiche). Non ci fossero i sottotitoli inglesi non capirebbe un'acca,
come ai tempi di Troisi il non partenopeo. La lingua non è quel
napoletano tv che va molto al cinema. Masaniello parlava così,
suppongo. Il film, poetico politico, è scritto, o meglio imbastito
di luci e parole e sangue assieme a Isabella Sandri, come sempre, ma
anche a Lina Sarti. Ed è un'altra performance di attrice solista. Se
Valeria Golino non funzionasse, buffa, tragica, sentimentale,
ringhiosa, paurosa, rapace, unghiuta, tremante, materna... il film
non ci sarebbe, né nel suo avanzare “realistico” in bianco e
nero né nel suo retrocedere temporale o onirico, a colori. Il film
invece c'è. Lei è la “Mortiz Moszkowski” del nostro star
system. Nel senso che riesce a rappresentare l'intero gamut della
tecnica recitativa (e qui mi riferisco a quando Igncy Paderewski
affermava che “dopo Chopin era stato Moszkowski a scrivere per il
piano abbracciando l'intero gamut della tecnica”. Egoyan non a caso
lo rievoca). Perché, come diceva Chalers Laughton non si recita mai
al cinema con gli occhi, l'orecchio e la bocca, ma con le mani. Sono
roche le dita. Rock, non le tonalità. Attenti al primo giudizio
sommario. L'armonia è dissonante, l'orchestrazione visiva è post
wagneriana, ma la strumentista solista riesce a riportare tutti al di
là, a una nuova consonanza, alla melodia semplice, al demenziale,
dionisiaco ritornello offenbachiano o se preferite neomelodico.
Suggeritrice di un set tv, madre ipersfruttata di tre figli di cui
uno sordo muto, in rotta con il marito usuraio che per troppo tempo
ha tollerato (opportunista, per superiori interessi familiari), Anna
decide di confessarsi a se stessa, di farla finita con il bruto
usuraio assassino che sta nel suo letto e di scollarsi da lui anche
sentimentalmente non sapendo in che avventura si sta, ancora più
pericolosamente, gettando. Tra le braccia infide di un nuovo amante,
la bomba sexy di una sorta di “Un posto al sole”. Il suo salto
nel vuoto ricompone il film miracolosamente, altro che San Gennaro,
facendolo diventare la sinfonia lugubre una melodia flautata anti
cammorrista. Che molto deve a Andres Serrano (per il coté necrofilo)
e al Quartetto Cetra (per l'umore dissacrante), a Rossellini di
Stromboli e a Peter Weir
per i toni apocalittici, e
soprattutto a Suspicion
e a Ingrid Bergman per
il clima generale. La donna che regge il gobbo, la stunt woman
finale. In un rovesciamento delle gerarchie di un set dove gli ultimi
saranno i primi. Non solo. Gaudino affida a Valeria Golino quel
testimone femminista lasciato da Stefania Sandrelli suicida in Io
la conoscevo bene, affidando a
lei il controllo simbolico dell'intero film, cosa che alle donne del
cinema italiano è ancora precluso, come fossimo in una moschea
dell'Islam reazionario. Ma come Lucia Mannucci qui Valeria Golino è
leader. Fa parlare perfino i sordo muti. A costo di qualunque
travestimento e sbaglio.
Abluka
(Frenzy) cioé Follia di Emin Alper (Turchia)
nonostante il titolo hitchcockiano
non è un thriller politico
sulla Istanbul di Ergdogan, novello Demirel che sa giocare con le
bombe, i terroristi, i servizi deviati, gli islamisti, i curdi ,
l'esercito e lo sbattere i mostri in prima pagina. Non cinema
d'azione ma un composto alchemico metaforico, di densa materia scura,
marrone, nera,
maleodorante (di immondizia
si occupa il protagonista), che trova il suo baricentro nella doppia
schizofrenia di due fratelli accomunati
da un tragico destino e
dunque in un traballante procedere per incanti, ellissi, ripetizioni,
sogni, ritorni all'indietro,
incubi di cani feroci, fughe in avanti che rendono il tessuto
narrativo incerto misterioso e pauroso. Il Potere e la sua capacità
di distruggere gli uomini semplici, di manipolarli e utilizzarli per
schiacciare qualunque nemico sia esso un cane randaglio sia un
sovversivo. Ci si compiace molto, troppo,
certo involontariamente, di
come un potere autoritario possa mandare in paranoia i suoi sudditi
meno attrezzati. Però è un film che resta nel ricordo. Non a caso
ne ho già scritto e me ne ero dimenticato.
Desde
alla, Da lontano del venezuelano Lorenzo Vigas, film
per soli uomini,
monoerotico,
soprattutto
autoerotico, ha
fatto una certa impressione sul
tessuto medio festivaliero.
Perché il narratore è un po', per esprimerci grossolanamente, alla
Pablo Larrain. Il più secco e gelido radiografo del Cile di
Pinochet. Anche se il direttore della fotografia di questo film,
Sergio Armstrong, ha certamente ristudiato se stesso in Tony
Manero, per dare quanta più
disumanità possibile, ombre inquiete e decolorazione ghiaccia, alla
metropoli tentacolare
e sotto incubo. La Caracas
oggi. Che ne esce a pezzi.
File dal panettiere. Crisi
economica. Il petrolio sta ai minimi, Maduro sembra che regga ma il
popolo no, soffre, si arrangia, ruba quel che può. Perfino
specchietti retrovisori. Intanto
i ricchi ridono. Ovvio
che il film osserva altro. Dentro la storia. Dentro la società.
Dentro i corpi. Nella psiche. Nella psicopatologia di massa del
fascismo. Che, come si sa dall'epoca di Wilhelm Reich, compie
disastri anche quando la tensione è più socialisteggiante che
nazionalista, vedi nella Urss di Stalin, dal 1930 in poi....Armando,
odontotecnico benestante, molestato dal padre da piccolo, immaginiamo
traumaticamente e ripetutamente,
“lo odio lo vorrei morto”,
vive solo e non si è mai
sposato. Adesca giovinetti
per denudarli e mastrurbarsi, ma
senza mai avere contatti sessuali. Una
sorta di critica pacifista del padre? Finché
non trova un ragazzo violento, un macho affascinante che più lo
deruba e lo ferisce, più lo tenta. Elder, capo teppa, inizia a
frequentarlo sempre più spesso, dapprima per interesse. Lascia la
sua ragazza mulatta,
si fa pessima fama nel suo ambiente maschilista, che
lo scarica, viene perfino
cacciato di casa dalla madre che ha saputo da un pettegolezzo che
quell'opportunistica
relazione (a Elder servono i
soldi per trasformare un ferrovecchio in automobile) si è
trasformato in amicizia a
tutto tondo, poi in amore,
vero e folle, addirittura
carnale, era ora. Ma fino a
conseguenze devastanti. Armando
scoprirà che quel che insegue in Elder, nelle sue zone dark e
inconfessabili, è proprio la crudeltà criminale del padre. A questo
punto rifiuta la sua soggettività desiderante. Torna nell'incubo. Un
happy end che non è happy per nulla. Atroce.
C'è
qualcosa di Wakamatsu e delle
nouvelle vague anni sessanta, in
un bellissimo film maghrebino che descrive come ormai il lavaggio di
cervello effettuato dai predicatori letteralisti che deformano
l'Islam dal tubo catodico e lo fanno diventare una sorta di
catechismo nazista, stia
trasformando in peggio anche gli algerini meno riconciliati. Come il
duro,
criminale, ladro, violento, borseggiatore, irrequieto, solitario,
adolescente di nome
Omar il protagonista biondastro
di Madame
Courage di Merzak Allouache (Algeria), un
regista che
sta raccontando l'evoluzione interiore del suo paese, vista dagli
adolescenti, da oltre trent'anni.
Qui
siamo fuori
concorso. Il quartiere in cui vive Omar,
alla periferia del centro turistico balneare di Mostaganem, è solare
e ha un bel lungomare, ma lui sta in una baracca puzzolente
senza acqua con
la madre che è meglio perderla che trovarla. E' un continuo
maltrattarlo
e
minacciare “ti caccio di casa perché
non mi porti mai un soldo”,
anche
perché sta sempre davanti alla tv religiosa a farsi lessare il
cervello con le più ridicole sciocchezze sessuofobiche e omofobiche
ripetute come mantra. Omar perde la pazienza. “Un giorno prendo la
tv e te la spacco in testa”. La madre Coraggio del titolo non si
riferisce affatto a Brecht, ma è il nome di una pasticca, di una
sostanza psicotropa che va molto tra i giovani algerini perché è a
basso costo e ad alta resa. E comunque basta rubare il portafoglio a
una vecchietta o la collanina con la mano di fatma a una ragazzina e
il viaggio verso la felicità è assicurato. D'altra parte, come
sopravvivere ad Algeri oggi nei quartieri cui tutto è stato tolto,
non c'è lavoro, e anche la speranza è fuggita via? Un giorno però
Omar strappa la collanina e si innamora perdutamente del collo e del
volto della giovanissima proprietaria. La segue, restituisce il
maltolto, la molesta per giorni finché il fratello di lei poliziotto
non lo caccia, poi lo minaccia , poi lo arresta, poi lo fa
picchiare. A questo punto Omar, cha ha introiettato “naturalmente”
la logica del taglione tanto di moda tra i coetanei dell'isis
acquista una scimitarra al mercato nero, castra con un solo colpo ben
assestato il pappa della sorella, ovviamente costretta a
prostituirsi, ma oltretutto pestata
come un colabrodo,
e si avvia verso la casa della “sua ragazza” per far fuori il
piedipiatti, unico ostacolo a un
amore
ancora
non corrisposto.
Di Wakamatsu c'è questo finale cruento
e poetico con Omar che organizza per lei un incredibile spettacolo di
fuochi d'artificio. Il suo ultimo colpo gli ha fruttato una
fortuna......
Una
ragazza che vorrebbero far diventare medico ma che invece vuole
cantare musica rock con il suo gruppo, ispirato dal folk maghrebino,
è la protagonista di un film ambientato a Tunisi prima della
rivoluzione “per la libertà e per la democrazia”. Uno scossone
salutare che, nonostante i profeti del malaugurio, sta andando avanti
per la sua strada irreversibilmente. Appena
apro gli occhi
di Leyla Bouzid,
figlia d'arte (Giornate degli Autori), è la versione femminile del
film di Allouache. Lo scatenamento della soggettività desiderante
crea resistenza in famiglia e fuori, anche se chi agisce non è
costretto, come nel caso di Omar, alla criminalità individuale o
organizzata. Lei canta. Bellissime canzoni d'amore e micidiali song
di lotta. Ma la questura non vuole. Chiudono i locali dove si
dovrebbero esibire, costringono chi gli affitta le cantine a
cacciarli. I genitori non vogliono. E perfino un membro della band,
che è in realtà un poliziotto travestito, perché di informatori
della polizia era infarcita tutta la società incivile di Ben Alì.
Fino a che perfino la nostra eroina rischia per gelosia di mandare
tutto a monte perché litiga con l'altro leader della banda. A quel
punto la polizia segreta rapisce la ragazza e le dà una di quelle
lezioni che avranno gli effetti boomerang che conosciamo.
Rivoluzione. Questo film “apre gli occhi” dello spettatore
occidentale infatti sulla difficile lotta di quella generazione che
si è trovata di fronte una dittatura dall'aspetto vellutato e dalla
realtà micidialmente attenta a reprimere ogni anelito di libertà.
In fabbrica nei campi, nel commercio, nelle scuole, nelle strade.
C'erano le elezioni? Bastava non mandare le schede elettorali alle
persone tra i 18 e i 30 anni e il gioco era fatto per il partito al
potere, membro dell'iInternazionale socialista. Oppure. Vogliamo
parlare del sesso? Oppure, più semplicemente. Vogliamo andare al bar
a berci una coca? Non era così semplice, almeno per una ragazza, con
il velo o con i jeans strappati. Lo vedremo nel film questo penetrare
nella notte negli spazi occupati dai soli uomini. E vedremo come si
riesce a liberarli. Grazie alla musica. Il “musical” tocca punte
hard insospettabili. E fa capire che sono stati questi ragazzi i veri
eroi che hanno capovolto il mondo. E che facevano bene a reprimerli,
i metallari, i rockettari e i folk singer del maghreb e del mashreq,
perché stavano, stanno sconvolgendo il mondo islamico e sono i veri
nemici dell'Isis.
Si
mette a fuoco molto
meglio dall'ottica maghrebina l'importanza del film di Claudio
Caligari, di
una sceneggiatura
scritta nel 1995 e diventata film solo adesso. Anche
se il montaggio non è stato realizzato dall'autore ma si sono
accuratamente eseguiti i suoi voleri, come se si trattasse della
seconda parte di un dittico, dopo Amore
tossico,
set lo stesso, Ostia. Gli spettri aleggianti di Pasolini. O meglio di
Derek Jarman, che al delitto più orrendo del secolo scorso, si
trattava di un poeta, dedicò un magnifico poema visivo. Non
essere cattivo, il film
postumo di Caligari,
uno dei pochi
registi scampati allo sterminio per "droga prigione e esilio"
di una generazione (è
stata la tecnica
utilizzata in Italia, paese dove non
era il caso di stipare
sovversivi in aereo e buttarli vivi giù di sotto, Ustica
ingombrava). Caligari era
capace di catturare la sostanza profonda dei tempi e i suoi conflitti
interiori (vedi La parte bassa o
Amore tossico),
proprio come pochi altri sopravvissuti
al decennio incandescente,
come Tonino
De Bernardo o Alberto Grifi. E per questo è stato messo in grado per
anni di non nuocere.
Emarginato. Niente finanziamenti. Tra L'odore della notte,
penultimo film, e questo, passano non a caso 17 anni e senza
l'intervento prepotente e autorevole
di Valerio Mastrandrea neanche questo progetto anni 90 del cineasta
di Arona avrebbe mai visto la luce. Due
amici della piccola malavita locale. Spaccio, furti, traffici vari,
molta 'madre coraggio', i rapporti con il boss della zona, le
ragazze, poi si cresce, che ne dite di tornar normali? Il lavoro, i
cantieri edili (Mastrandrea ne sa qualcosa), e le due vie che si
aprono: facciamo ancora i cattivi fino all'ultimo respiro o
diventiamo buoni e tranquilli? Casa moglie figli? Uno resiste.
L'altro no. Uno crolla. L'altro vacilla. L'ultimo colpo.... La
tragedia di due emarginati ridicoli. Però che strano.
Questo film compatto e
corposo, un po' alla Romanzo criminale televisivo è piaicuto
moltisssimo. Celestini invece è stato più criticato. Eppure
quest'ultimo non divide comea a scuola buoni da cattivi. Li mescola.
Trovà bontà nella cattiveria dell'illegalità. Qui è come se i due
mondi non fossero mescolabili. Celestini inquieta di più. Caligari
postumo di meno. Strana la vita.
Anche
Franco Maresco mi ha stupito. E' magnifico ricordare la vita e il
teatro di Franco Scaldati nel documentario “Gli uomini di questa
città non li conosco” (Fuori Concorso), con
rari filmati delle sue messe in scena, delle sue apparizioni
cinematografiche e delle interviste di Raitre.
Visto che, dall'inchiesta
firmata dallo stesso Maresco al teatro Biondo, che vediamo alla fine
del film, oggi in città nessuno lo ricorda e lo conosce. Ma
non riesco a trovare
lo spirito anarchico di
Maresco, nel film.
Scaldati, attore, regista, autore
di capolavori scenici insostenibili come Il pozzo dei pazzi, filologo
di parte popolare, colui che
ha restituito profondità poetica a una lingua
siciliana biodegradata
dalla media e piccola borghesia, non riconciliato mai
con i poteri forti e oscuri
della sua città, punto di riferimento centrale del lavoro
beckettiano di
Cinico Tv, viene analizzato
attraverso gli interventi dei suoi amici, collaboratori, uomini di
cultura siciliano o meno (Letizia Battaglia, Roberta Torre, Goffredo
Fofi, Emiliano Monreale... perché non c'è Gianfranco Capitta?),
nella sua nichilistica opera di smantellamento dei valori estetici e
etici dominanti. Eppure sotto traccia c'è uno strano risentimento,
più di Franco Maresco che di Franco Scaldati. Non lo hanno
celebrato. Non lo hanno amato. Non lo hanno dotato mai di uno spazio
degno del suo valore. E meno male, no? Franco poi non può raccontare
la storia del rapporto di Scaldati con le lotte degli anni sessanta e
settanta come fosse un inserto di Repubblica. “finite le forzature
ideologiche del sessantotto”. Ma cosa dici?
Ben
altro clima si respira in Danimarca. Dove Jacopo Quadri e Davide
Barletti sono andati a trovare Eugenio Barba in occasione del
cinquantenario di vita dell'Odin Teatret, festeggiato da circa 500
artisti venuti da ogni parte del mondo (a loro spese) per realizzare
uno di quegli scambi artistici (se io balinese canto e danzo tu
keniano canti e danzi e tu danese pure, e tu brasiliano anche) che
hanno reso celebre la “teoria del baratto” messa a punto dal
gruppo del drammaturgo e antropologo salentino
(e scopriamo anche tagliatore di alberi con tanto di sega elettrica
da film horror) teorizzatore
ante litteram della contaminazione culturale (i pulcinella che fanno
mangiare gli spaghetti alle danzatrici indonesiane snodabili è uno
spettacolo nello spettacolo).
Il paese dove gli alberi
volano – Eugenio Barba e i giorni dell'odin
racconta proprio la fase organizzativa della grande festa all'aperto
dell'estate
2014,
con acrobati, pupazzi, danzatori classici, bande musicali, lottatori
di capoeira, ragazzi venuti da Nairobi, artisti di ogni tipo, piccoli
e grandi, diretti come fosse Butch Morris da un super regista dai
tentacoli giganteschi, di comunicativa immediata, grande charme,
precisione di fraseggio e dal corpo miracolosamente giovanile.
Holstebro, la piccola cittadina danese dove l'Odin risiede da 48
anni, dopo i due iniziali a Oslo, reagisce con pudore e presenza
calorosa alla grande festa. Ma. “Dove sono le persone? Qui sembra
che non ci sia nessuno. Anche se è tutto magicamente pulitissimo”
affermano gli ospiti keniani, i ragazzini delle periferie povere di
Nairobi che sono dei ballerini pazzeschi e mai sono stati in
Occidente.
Due
film che speriamo siano recuperati a Venezia a Milano e Venezia a
Roma sono il brasiliano Boi Neon di Gabriel Mascaro (orizzonti) e
Montanha del portoghese Joao Salaviza (Settimana della critica).
Speriamo che li premino. Ne riparleremo.
Venezia
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