Roberto Silvestri
Sicario (in anteprima a Cannes 2015, in
concorso), con Benicio Del Toro mattatore, diretto da un cineasta nordamericano
che va per la maggiore negli uffici di produzione delle major, il canadese
francofono Denis Villeneuve, è un estetizzante e impolverato
Questo tex-mex movie, zeppo di
difetti perché si aiuta con orpelli luministici e iconografici quando maneggia
i picchi forti di tutti i luoghi comuni del filone (non furono esenti neppure
da solarizzazioni, estetismi gore e cinismi alla moda, Il procuratore di
Ridley Scott, 2013, e prima ancora Steven Soderbergh di Traffic), come la solita ricognizione sulla efferata ferocia
messicana, ereditata dall’epoca di Pancho Villa e di Ferdinando Sanchez, è più
che reticente invece sugli interessi statunitensi nell’area più martoriata del
mondo, lo stato di Tamaulipas, nel nord-est, lo stato di di Ciudad de Juarez. Ma
è la major, bellezza.
E sottotraccia cosa leggiamo? Un
pretenzioso e maschilista tentativo di fare la satira ai thriller di Kathy
Bigelow, affidando all’attrice Emily Blunt che interpreta il
ruolo di una giovane agente dell’Fbi di nome Kate e al suo make up smunto e
pallido il compito di caricaturizzare, fino a renderle inutile, accessorie e
inerti, le donne forti delle istituzioni, dall’agente federale Jodie Foster al
gioiellino ribelle della Cia, Jessica Chastain, che catturò Osama Bin Laden
perché molto più criminale di lui. Insomma il film entra pesantemente nella
prossima campagna presidenziale Usa come un macigno, non subliminale, scagliato
contro Hillary Clinton.
In questo thriller "intimista",
dove le ombre contano almeno quanto le luci, e con un titolo che profuma di
plagio (El
Benicio Del Toro in "Sicario" di Denis Villeneuve |
Sicario di Rosi, così più inquietante e drastico da umiliare
un mockumentary, non è mai uscito in Usa), Kate (l'idealista coriacea e molto
fortunata, costretta a fare i conti con il realismo, cioé ad arrendersi, a
giocare più sporco del nemico o almeno ad ammirare chi ci riesce) non viene
sostituita dopo pochi minuti di gioco da un attore metrosexual, come in realtà
avrebbero preteso la produzione, ma diventa lo zimbello del copione (del texano
Taylor Sheridan), del rude e misterioso signore delle tenebre Alejandro
(il portoricano Benicio Del Toro, ormai messicano honoris
causa), del saggio patriottico e feroce agente speciale Matt Graver (Josh
Brolin) - per il quale il mondo si divide solo tra i buoni, gli
americani del nord, e i cattivi, il resto del mondo non nordamericanizzabile -
e degli altri vecchi marpioni della Cia che chissà per quale motivo, - se non
l’umiliazione, il ritorno a casa delle donne a far la calzetta - vogliono che
prenda parte, giovane, inesperta e fragile, e ligia alle regole, alla più rude e
confusa e ambigua delle missioni di guerra clandestina.
Annientare in terra straniera, e in
missione segreta, un feroce boss della droga, questa è la missione segretissima
Fbi-Cia-Dea. Per farlo si utilizza contro quell'imperatore del male un ancora
più feroce serial killer messicano, un giudice (così come viene descritto
dall’immaginario berluscoide). Un procuratore che vuole distruggere le cosche
non perché è il suo lavoro e il suo dovere, ma solo perché gli hanno sterminato
la famiglia. E la giustizia dei parenti delle vittime sappiamo quanto è
spietata. Grande la lezione etica di Villeneuve! Ridateci Clint.
A Roma si usa un’espressione un po’
forte per dire che non è più tollerabile che non si spieghi in un film d’azione
sul conflitto di coca e eroina che gli Usa distrussero all’inizio del secolo
scorso l’economia allora florida del Messico, inventandosi l’assurdo concetto
(tranne che per Giovanardi e per chi lucra nelle comunità di recupero) della
marijuana e dell’hascisc come droghe pericolosissime da criminalizzare e
proibire di più, anticamera delle droghe pesanti, etc. A proposito i Lautari
chi li paga?
Emily Blunt (Kate) in "Sicario" |
Ha spiegato tutto questo Grass
pietra miliare del documentarismo su drugs & affini, diretto dal cineasta
canadese Ron Mann, idolo della controcultura. C'è una risposta molto semplice a
questo groviglio di questioni geopolitiche. La liberalizzazione. Ma non si fa
cenno alcuno ai politici e ai giornalisti assassinati perché portavano avanti
questa strategia che tocca interessi economici giganteschi.
Questo è il punto che il film, e
molti altri film del genere non spiegano. Con le immagini che pure Villeneuve
utilizza da prestidigitatore provetto - tanto
che gli daranno da fare il remake di Blade Runner perché sa mettere il
bromuro visivo dappertutto - e da
esperto investigatore delle intenzionalità morali degli esseri umani
(specialmente wasp o succedanei). Insomma il film finge di porre tutte le
domande. Ma in realtà sfrutta solo il quoziente spettacolare regalato dal corpo
e dal volto di Benicio del Toro che ormai somatizza in se tutto il fascino
perverso delle sostanze stupefacenti (non solo grazie a Traffic).
E sì che stanno morendo decine di migliaia di persone lì, attorno a Ciudad de
Juarez (anche Giuseppe Gaudino e Isabella Sandri ne hanno parlato in un bel doc
di qualche anno fa, per non ricordare Lourdes Portillo, la prima cineasta a
indagare da quelle parti). Tra droga, sfruttamento schiavistico della
manodopera a basso costo nelle fabbriche Usa della globalizzazione,
immigrazione clandestina, machismo, corruzione, in un intreccio inestricabile
di interessi che coinvolgono corpi separati o riunificati dei servizi segreti
messicani e statunitensi, polizie dei due paesi, politici dei due paesi, uomini
d'affari dei due paesi. Cambiata la struttura monopolistica e piramidale del
traffico (che faceva capo alla gang colombiana di Escobar) e diventata
policentrica la criminalità neoliberista (insomma siamo nel dopo Traffic,
c'è il cartello super militarizzato del Golfo che combatte contro la gang
altrettanto militarizzata dei Zetas, e così via), che ruolo gioca il governo
Usa oggi per influenzare, controllare e sfruttare questo groviglio di mercato?
Con chi si allea? Quale il suo disegno strategico? Non c’è niente di
questo, solo rullio e becheggio da video gioco. Come quella collezione
grottesca a macabra di dozzine di cadaveri appesi nelle intercapedini di una
casa-covo a far da tappezzeria spettacolare alla scena d'apertura. Che muoia
Mexico!
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