Roberto Silvestri
E’ difficile essere un dio, di Aleksej Jurevic German, con Leonid Yarmolnik, Yuri Tsurilo, Alexsandr Ilin; sc: Aleksej German e Svetlana Karmalita; f. Vladimir Ilyn e Yuri Klimenko; montaggio: Irina Gorokhovskaya, Marijia Amosova; scenografia: Sergey Kokovkin, Georgy Kropachev, Elena Zhukova; costumi: Ekaterina Shapkaits; musica: Viktor Lebedev; (Lenfilm, Russia 2013)
E' difficile essere un dio, film postuo di Aleksej German |
Premio alla carriera del Festival
Internazionale del film di Roma a Aleksej German (1938-2013)
Aleksej German |
C’è da divertirsi con questo Helzapoppin ascetico; se si
gioca con questo super splatter alla Vodka clandestina, sprofondando nei suoi
170 minuti in bianco&nero di alta filologia (per costumi, scene, e
recitazione wellesiana/alla Carmelo Bene) back
to the future. Se ci lasciamo sedurre senza resistenza da questo affresco feroce,
alla Hieronumus Bosch, tra arti squartati, pance rigonfie, volti sformati, schiavi
perennemente alla gogna, seni alla Russ Meyer, ani in primissimo piano, terreno
liquefatto e vacillante dove si sprofonda, piscio ovunque, gobbi sfigati, nani
vaganti, occhi divelti, denti spaccati, deretani flaccidi, cinture di castità
sbriciolate dalla scure, lance e spade minacciose, dementi e asini affondati
nel fango, in un paesaggio alla Golem o alla Dybbuck (gli esterni sono
stati girati a Praga) così esiziale, contiguo a quello indio di Eli Roth in Green Inferno, sulla crudeltà che regna
sulla terra, e in polemica con ogni ipocrisia criminale (quella sì buonista), come fossimo nella prima
parte della Divina Commedia.
Leonid Yarmolnik |
C’è da spaventarsi a morte per la violenza insistita dei
piani sequenza ipnotici, per il notevole quoziente gore delle sequenze, per gli orrori inanellati all’arma bianca e
insostenibili, per i sadismi e le torture più efferate, per la capacità
nonostante tutto di dire un profondo sì alla vita, e dunque per la quantità di
amore diffuso, che c’è, è palpabile sotto la superficie terrificante delle
immagini liquamose e maleodoranti, anche se sembra sradicato per sempre da
questo misterioso pianeta, così lontano e così vicino, alla riscoperta dell’ umanità nova…
Che poi verrà solo scavalcando ventralmente la Russia brezneviana, e nella metafora di oggi, quella
putiniana. A cui si contrappone questo “cinema d’attacco contro la menzogna
travestita da verità, contro il cattivo gusto, il conformismo, l’autocompiacimento”
attraverso le avventure di un barone rampante, di un cavaliere inesistente e di
visconte dimezzato, tutti e tre riuniti in un solo personaggio puskiniano, Don
Rumata, l’eroe forse illuminista ante litteram, l’angelo sterminatore in
incognito, il forse dio, per ora flautista e filosofo, astronomo, fisico e gran
fisico, economista pare neoliberista per come sa reprime le rivolte contadine
(anche tra le divinità c’è grande confusione in materia) che, con la sua spada di
Soan, certo di provenienza angelica, sale ovunque, sparisce, è imbattibile, è
invulnerabile come Clint in un western spaghetti, e dimezza qualunque
avversario e il più corazzato nemico. Li taglia in due metaforicamente, come
dimostra nella scena in cui è alle prese con un massiccio, vescovile, pitale
ligneo.
Ma niente paura. Siamo in piena fantascienza. Si parla di cose molto lontane o molto future nel romanzo che ha originato il film. In un pianeta dominato dalla violenza del più forte, che non ha niente di umano, arriva un gruppo di studiosi, storici e antopologi, spediti dalla Terra per studiare una società ferma ai Secoli bui. Uno di loro vorrebbe reagire alle ingiustizie e ai soprusi, ma i superiori lo bloccano.... La storia del massacro di Arkanar, titolo originale del progetto, insomma con la scusa della fantascienza o del lontano passato sepolto parla di un medioevo prossimo futuro segnato dai soprusi permanenti dei più armati, dalla distruzione della cultura, dalla legalizzazione della xenofobia, dalla guerra civile permanente… Ci vorrebbe un superman per fermare tutto questo. O una gang, come quella di Guerre stellari. Ma qui il regista è più impertinente. I numerosi sguardi in macchina dei protagonisti e delle comparse di questa avventura trans-storica, segnalano una preoccupazione di autenticità documentaria che fa rabbrividire e ritornare quella paura rimossa. Non a caso la musica extradiegetica è bandita. Solo chi suona in campo ha diritto di fiato, di battito o di pizzico. Rabbioso, coraggioso come Terry Gilliam, German ha fabbricato immagini di combattimento. Certo però vederlo due volte…no. Consigliarlo con calore a un amico? Sì. Il film è piuttosto complesso. E fa venire in mente cose molto serie.
Mai superata completamente, infatti, nonostante il tentativo
fantapolitico di Lenin, la fase medievale in Russia, la piattezza spaziale dell’icona sacra, dall’era Andrej Rublev
ai ritratti Stalin-Putin, il dio padre che pretende feudalesimo anche se la
borghesia regna. Come leggiamo sui giornali con il ri-presidente Putin sempre
più super-omofobo, affetto platealmente (come un suo caro amico lombardo) da
gravi problemi di virilità e machismo; con la chiesa cristiana ortodossa che
aizza, ringalluzzita come Rasputin, al pogrom anti-femen e con lo stillicidio
di giornalisti, ceceni, artisti come nemmeno negli anni neri del Kgb… Senza che
nessuno si ponga nemmeno per sogno l’obiettivo legittimo di boicottare i XXII giochi
olimpici invernali di Sochi, come fecero invece con Mosca 1980 - anche quelle
erano le XXII - alleggerite di 66 nazioni, Usa compresa. Ridateci (solo questo)
Reagan.
Prendiamo, a proposito di icone, un amico di German, Sokurov. E il suo Faust. Che qualche cosa a
che vedere con Trudno byt’ bogom ce
l’ha, i mille colori e odori del beige e della merda anche lì imperano con
grande fracasso iconoclasta e mistica ansia aniconica. La più riuscita messa in
scena, prima di questo, del flusso narrativo convulso e concitato alla Luis Ferdinand Celine (penso a Grand
Guignol) tradotto in grande schermo. Lo avete riletto prima di
inebriarvi di immagini materiche, verdevomito e terragne, da versione
serializzata di un solo fotogramma di Brakhage?
Ebbene Sokurov ha espulso ogni retrogusto gay dal testo di Goethe, nel finale davvero prepotenti, onde non infastidire il
nuovo zar (entusiasta del film e suo producer) e il suo partito di riferimento,
la chiesa ortodossa che ha annichilito gli eretici principianti dell’altra
chiesa sessuofoba, dal 1931, il Pcus. Difficile essere un dio, in queste
situazioni, ma ci si può provare. Però: ci si deve proprio provare? Anche qui
monaci e monastero hanno ben poco di popesco e eisenstaniano. Non si sa mai. Meglio
alludere all’esotico. Sono le scappatoie che ti permette la fantascienza.
E prendiamo pure Andrej
Arsen’evic Tarkovski. Ritroviamo molti elementi esteriori e interiori dell’
Andrej
Rublev in questo film. Atmosfera simile, gli spazi senza aria
respirabile di un rinascimento che non riesce mai a nascere, le feroci rivolte
contadine represse, le invasioni armate, la carne umana ancora appesa alla
corda a seccare ovunque, la voglia di volare (lì mongolfiere, qui delle ali
improvvisate e improbabili), i buffoni di corte, i monasteri incombenti, i monaci
infidi, i fienili, le carni appestate, i soldati feroci, gli accecamenti, le feste,
i tanti nudi e i tanti coiti, il cibo esagerato dei ricchi e la fame atroce dei
poveri, gli intellettuali distratti, gli scrittori inermi, gli artisti trattati
come ebrei e comunisti, i musici perseguitati come zingari…e che invece dovrebbero
maneggiare, è ora, le leve del potere politico.
Aleksej German |
Aleksej J. German,
nato a Leningrado, figlio dello scrittore Yuri Pavlovich German, è stato autore
di soli cinque film e mezzo, in 46 anni di lavoro: Il settimo compagno di viaggio; Controllo stradale; Venti giorni senza
guerra; il più conosciuto di tutti, anche all’estero, il poliziesco in
bianco e nero, “perché la memoria non ha colore”, Il mio amico Ivan Lapsin, sulle ‘innumerevoli spaventose piccole
verità’ della caccia all’uomo in piena purgomania (1935); Chrustaev, la macchina! sul
complotto anti semita dei camici bianchi,
negli ultimi mesi di vita di Stalin e E’
difficile essere un dio. Tutti film drammatici, realizzati con molte difficoltà e
problemi di censura, gli ultimi due economici, tutti più o meno inaccessibili
al pubblico, tratti da romanzi di guerra del padre o di Konstantin Simonov.
Aleksej German sul set |
German è morto senza aver finito (ma era già in fase di
sincronizzazione) il suo ultimo lavoro, portato a termine dal figlio Aleksej German jr. e da Svetlana Karmalita (la sua compagna di
sempre e collaboratrice anche nell’allevamento di giovani talenti alla Lenfilm
fin dal 1988), e tratto da un romanzo di fantascienza metaforica, pubblicato da
Urania nel 1989, scritto in epoca kruscioviana, nel 1964, dai fratelli Arkadij e Boris Strugackij, il duo cult
della sf sovietica, che ebbero non pochi problemi negli anni immediatamente
successivi all’invasione di Praga. Il primo è morto nel 1991 e il secondo nel
2012. Una precedente trasposizione sullo schermo è del 1989, firmata dal
radicale cineasta tedesco Peter
Fleischmann con il titolo Es ist
nicht leicht ein Gott zu sein.
Ci sono voluti 13 anni per terminare questo progetto,
iniziato nel 2000 e ripreso nel 2006… E anche qui niente eroe tutto d’un pezzo.
Ma uomini pieni di debolezze, ferocia e lati dark, che cercano di sopravvivere
con dignità e integrità ma non sempre ci riescono se non sono spalleggiati da
una sorta di spirito santo. Tempi dilatati, spazi rigonfi e barocchi pronti a
esplodere, forme inusuali fino all’astrazione, slittamenti verso l’onirico e il
grottesco, come in un Alex de la Iglesia
ma senza alcun ammiccamento nichilista e anarchico, né sgangheratezze, realismo
ipnotico e magico seducente, perché non c’è mai stanchezza in sala. Sarà il
contagio dello schermo ma sembrano tutti in grazia di dio.
Negli ultimi anni German è stato oltretutto anche impegnato
nella controversia con Mikhalkhov (che di Russia
Unita, il partito di Putin, è un fan) per la direzione del sindacato
cineasti russi, rappresentando le posizioni più progressiste e aperte ai
talenti più giovani (certo, ha vinto, nel 2009, Mikhalkov). Finalmente in anteprima mondiale (quest’anno
sono poche ma buone al festival, meno di 20 su 65) il film ha consacrato nei
giorni scorsi, con un premio del festival alla carriera, questo filmaker delle
missioni impossibili, come lo ha definito Marco Mueller nel suo bel saggio sul
catalogo. Un artista tanto geniale quanto
ostinato nella sua radicalità. Che
poi vorrebbe essere il motto di questo festival. Che poi forse è il motivo per
il quale un po’ di poteri forti della città, e anche La Repubblica, gli fa guerra. Non si può tollerare la contiguità
German/Eli Roth; peplum/Vitor Goncalves; Demme/Swaroop; Tsui Hark/Hunger Games: the Cathching fire con quel tifo da curva sud commuovente.
Aleksej German |
Ma torniamo indietro. Prendiamo il realismo socialista. Come
si poteva rappresentare l’individuo nuovo e liberato, al centro della storia e
dell’universo, descrivendone la personalità a tutto tondo e la sua tipicità
combattente per la causa del proletariato internazionale, ma non stereotipata e
ridicolizzata, dentro un paesaggio che si pretendeva addomesticato dalla lotta
di classe, e addirittura dalla sua estinzione, se mai si era attraversata, approfondita
e superata – nella pittura, nella scultura, nell’architettura, nella
letteratura, nelle scienze - la fase umanistico-rinascimentale e poi quella
illuminista, mai approdata sul Volga? Siamo
eurocentrici? Non consideriamo l’orientalismo di un paese così altrettanto asiatico, e l’importanza anticristiana
delle sue tradizioni altre,
islamiche, buddiste, maoiste e altrimeni atee? La Cina e il Giappone, si vede
dalla maggiore disinvoltura con la quale stanno maneggiando l’economia di
mercato, anche quella quella capitalista all’europea, fastidiosamente espansionista
e perversa, per riprendere il giudizio critico di Adam Smith, ma fascinosa,
dimostrano una secolare abilità contaminativa, un gioco più dinamico tra
vertice e moltitudini e una più sofisticata leggiadria sessuale. Forse Mosca
potrebbe migliorare guardando a est piuttosto che a ovest, ci dice il film. E
se si andasse verso un Rinascimento per una volta acristiano?
C’è solo da sperare, se no, almeno in un dio minore, quasi
insignificante, crocifiggibile, per far fare alcuni salti epocali alle
popolazioni inermi intrappolate nel bigottismo violento medievale che fa molti
milioni al giorno per fame, mentre l’1% si abbuffa. Uno di questi dei in terra
è proprio il protagonista del film. Uno
scienziato, un musico (flautista), un brillante guerriero (a cui, ovviamente,
non è concesso uccidere, ma, come a Mike Tyson, solamente staccar le orecchie, e
lo ha fatto circa 190 volte). E’ Don Rumata, imbattibile spadaccino come
Scaramouche. Viene spedito, ci dice una scritta all’inizio, assieme ad altri
scienziati sul “pianeta Arkadar” (che poi è il doppio del mondo talebano,
putiniano, wahabita, berlusconiano…rappresentato con i più cupi bianchi e neri,
per come è veramente dentro, non per come si trucca fuori) per salvare dalla gogna,
dall’impiccagione, dalla morte per soffocamente nelle feci, gli artisti, i
poeti, gli studiosi, letteralmente gettati nei cessi. Dei contadini qui non si
tratta. Dei proletari di tutto il mondo
imbarcatevi nei gommoni! neanche.
Svetlana Karmalita e Aleksej German jr. |
Eravamo quasi arrivati al Crepuscolo degli dei e invece, dopo la speranza e poi la sconfitta
(con punteggio tennistico) del 1848, del 1870, del 1917 e del 1949,
ricominciamo da capo. Eccole riemergere le divinità. Passano attraverso la violenza
massima della storia senza essere mai colpiti a morte. Ripiombiamo in piena
alba divina, a seguire, in un mondo-sequenza a più piani mentalmente
sovrimpressi, le peripezie di questo Don Rumata (Leonid Yarmolnik), sempre in
campo, scienziato-musico-falso eroe, capitato a mettere ordine e più giustizia
e più pace (eguaglianza non direi, visto come distrugge Arata, il leader
contadino che gli ha ucciso la donna) nel pianeta Arkanar che poi non è altro
che quello inciso da Duhrer con altrettanto dolore, e più furore
rivoluzionario, mettendo in scena l’osceno della repressione contadina
ferocissima nel XV secolo, e con l’ostinazione di un nuca-movie alla fratelli
Dardenne e di un reportage muckraker in diretta dall’inferno dello sfruttamento,
affinché ci si indigni imbufaliti. Almeno quello.
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