Ricordate
The terminal, il film di Steven
Spielberg del 2004? E Tom Hank, ossessionato da una fotografia? Era un ritratto
collettivo: 57 giganti del jazz dell’epoca d’oro, da Thelonious Monk (occhiali
scuri e giacchetta bianca) a Dizzie Gillespie (che fa la linguaccia), da Count Basie a Coleman
Hawkins, da Charlie Mingus a Sonny Rollins, tutti riuniti insieme ad Harlem,
sulla scalinata di un “brownstone” (il tipico palazzetto di mattoni scuri), in
una indimenticabile fotografia diurna scattata il 12 agosto 1958. Solo 4 dei 57
artisti oggi sono ancora vivi.
foto di Art Kane |
Il
personaggio impersonato in The Terminal da Hanks, Viktor Navroski, che viene da un imprecisato est,
forse dagli odori e sapori yiddish (gli stessi della famiglia Spielberg?), è
sbarcato negli Stati Uniti (non senza difficoltà) in cerca di un tenor-sassofonista
african-american, Benny Golson. Se riuscirà a strappargli l’autografo la
collezione del padre (defunto) sarà finalmente completa. Golson è l’ultimo dei
57 musicisti, il pezzo mancante (ed è uno dei superstiti).
Perfino
la burocrazia più assurda e inventa cavilli gli si mette contro. Lo imprigiona
nell’aeroporto (ormai sono diventati tutti carceri di ‘clandestini’). Eppure
Viktor, lo dice il nome stesso, ce la farà. Senza il jazz, l’utopia del melting
pot, la libertà massima di fraseggio individuale, la felicità collettiva,
l’opposizione anche rabbiosa, è mai possibile l’americanizzazione di chiunque?
E poi non sono forse i jazzisti gli artisti meno presuntuosi che esistano?
Ma
quale era il segreto fascino di quella strana posa? Cosa nascondeva? Quale
pazzo era riuscito a riunire tanti geni musicali ‘round midnight, in uno stesso
luogo, in uno stesso momento, e di giorno? Come riuscì nell’impresa? Chi gli
sfuggi? Insomma cosa c’era dietro all’immagine?
Spielberg
in The Terminal, una fiaba originata
da un documentario, un mockumentary che fantastica su un’icona storica
diventata celebre poster, più o meno palesemente, rende omaggio a una serie di
artisti attratti in maniera quasi maniacale, come lui, dall’ immagine, e non
solo ‘sonora’. E, soprattutto, da quella
immagine. Dal suo valore estetico, emotivo, mitico, di archetipo. Dal suo
mistero.
Parliamo
di Art Kane, prima di tutto, il giovane fanatico di jazz e art director che,
assunto dalla rivista Esquire, scattò
quella fotografia, non certo di routine, e la sua prima professionale, per un
numero speciale dedicato al jazz che uscì nel gennaio del 1959 (con la sua foto in doppia pagina, e ripubblicata dappertutto un milione di volte).
E poi del graphic
director di Esquire che gliela
commissionò, Robert Benton, l’amico di Robert Altman e regista,
successivamente, di Kramer contro Kramer e Places in the Heart. Della moglie di
Altman, Kathryn, che aiutò, più di 30 anni dopo, l’ex produttrice radiofonica Jean Bach, pazza di jazz e amica intima
di tanti musicisti, a realizzare un documentario che raccontasse come era
avvenuto quel magico meeting di talenti newyorkesi “come se tutti i pittori
impressionisti francesi fossero dipinti in uno stesso quadro”.
Ossessionata
a lungo da quella fotografia che aveva visto per la prima volta sul finire
degli anni 60, Jean Bach, che si definiva ‘la prima goupie del jazz’, realizzò però solo nel 1994 A Great Day in Harlem*, un’opera
ricca di preziose interviste, di rari materiali di repertorio e di un testo
fuori campo affidato a Quincy Jones, anche perché si giustificasse della sua imperdonabile
assenza. Kane aveva dato appuntamento a tutti alle 10 di mattino. La maggior parte dei musicisti, si pensava, non
sarebbero mai arrivati dopo aver suonato tutta la notte fino alle ore piccole.
Inoltre l’orario era talmente bizzarro che uno di loro affermò di non aver mai
saputo che esistessero” ben due ‘ten o’ clocks’ “. Però, miracolosamente arrivarono
58 leggende viventi al numero 17 est della 126esima strada, tra Fifth Avenue e
Madison.
C’era, vacillante, occhialoni scuri, l’intero spettro della storia
musicale americana, dall’epoca New Orleans al Cool Jazz. Giovani, neri, vecchi,
bianchi, uomini, donne… Mary Lou Williams, Roy Eldridge (l’unico che non guarda
in camera, distratto da Gillespie), Marian McParland (con un vestito da Marilyn
Monroe), Lester Young, Red Allen, Gene Krupa, Buck Clayton, Art Farmer, Art
Blakey, Horace Silver, Gerry Mulligan, Pee Wee Russel, Jo Jones, Oscar
Pettiford, Rex Stewart, Max Kaminsky….Willie “The Lion” Smith il genio
pianistico stile Harlem, era arrivato, stava lì, a un passo, ma mancò lo
scatto….E dunque ne furono immortalati solo 57.
Il
documentario vinse il festival di Chicago e fu candidato agli Oscar 1995. E
Spielberg dedicò, tra le righe, esplicitamente, The Terminal proprio a Jean Bach, che è morta lunedì scorso a New York
all’età di 95 anni e aveva 76 anni quando il film venne presentato. E rimase
bellissima fino agli anni 90, sempre regale, mai snob, come ha dichiarato la
sua amica e celebre fotografa Carol Friedman. Si racconta che quando Frank Sinatra arrivava a New York la prima cosa che diceva era: "che si fa stasera da Jean?" perché erano imperdibili i suoi party al Greenwich Village con l'amico Bobby Short.
Affiancata
dal produttore Matthew Seig, dalla montatrice Susan Peehl e dal compositore e
arrangiatore Johnny Mandel, Jean Bach quando decise di girare il documentario scoprì che solo 12 dei 57 musicisti del 12 agosto 1958 erano
ancora vivi, 35 anni dopo, e li andò a cercare. “Solo lei conosceva davvero tutti
nell’ambiente – ha dichiarato Mandel, che ha lavorato con Count Basie, Frank
Sinatra e Natalie Cole, al New York Times
– è stata nel centro pulsante del ‘movimento’ dal be-bop ad oggi. Bach era la
migliore amica del jazz”.
Jean Bach con il suo amico pianista Bobby Short |
Jean
Enzinger Bach era nata a Chicago il 27 settembre 1918, figlia di un pubblicitario e di una ricca e decaduta ereditiera canadese(George e Gertrude Enzinger, una coppia da Scott Fitzgerald che divorziò nel '36).
Jean da ragazzina, allo Sherman Hotel si
innamorò (ricambiata) delle musiche di Duke Ellington, Johnny Hodges, Ben Webster e del cornettista
favoloso Cootie Williams. Teenager studiò al Vassar College, a un passo da Harlem, e passava tutto il suo tempo notturno - bionda,
occhi azzurri e bellissima - nei club, all'Apollo, dove ascoltà Billie Holliday . Dal 1941 al 1947 fu moglie del trombettista jazz
bianco Shorty Sherock (conosciuto al Three Deuces di Chicago, che la portò dopo tre settimane a Los Angeles, dove suonava cool con Gene Krupa) e lavorò, trasferitasi a Manhattan, come sceneggiatrice radiofonica e ufficio
stampa. Nel 1948 sposò il produttore della radio Bob Bach e produsse fino al
1984 l’Arlene Francis Show per
l’emittente WOR (originariamente si trasmetteva dal ristorante del distretto teatrale, il Sardi's, e tra gli ospiti Duke Ellington, Carl Sandburg e Leopold Stokowski). Nel 1989 incontrò casualmente il bassista Milt Hinton (uno dei 57) a un
party. Sua moglie Mona aveva ripreso il set fotografico dell’estate ‘58 con una
cinepresa portatile 8mm a colori. Un footage davvero prezioso. E così nacque A Great Day in Harlem. In caso contrario avrebbe donato allo Smithsonian le sue lunghe registrazioni realizzate con i più grandi jazzisti della storia. Nel 1996, quasi come un
sequel, Bach realizzò sempre con Seig e Peehl al fianco, il cortometraggio di 21
minuti, The Spitball Story, che è
interamente dedicato a un episodio della band swing di Cab Calloway 1941 – il licenziamento
di Dizzy Gillespie - raccontato da tre
componenti dell’orchestra, lo stesso Dizzy, il bassista Milt Hinton e il trombettista
Jonah Jones. Ha vinto anche questo cortometraggio il festival di Chicago. Jean Bach stava lavorando a un documentario, non ancora terminato, su Gerry Mulligan.
* si può vedere il film su you tube: http://www.youtube.com/watch?v=SvvjIuAdGqw
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