sabato 15 giugno 2013

Libero scambio Usa-Ue. La Francia impone la 'linea rossa' culturale

Roberto Silvestri

Il ministro del commercio francese Nicole Bricq
Certo che lo scippo ai greci della tv pubblica deve avere facilitato le cose. E non sappiamo, adesso, che tipo di ritorsione attuerà Washington (forse sul commercio navale, gli ogm, gli ormoni senza limiti negli alimenti?). Ma l'Europa, tutti i 27 paesi, dopo 13 ore di accese discussione, ha deciso ieri all'unanimità, nel summit di Lussemburgo,  di escludere per il momento il settore audiovisivo dal nuovo trattato di libero scambio con gli Usa - fortemente voluto da Obama e in agenda in Irlanda del nord la settimana prossima per rilanciare lo sviluppo economico bilaterale -  vincendo la resistenza degli stati meno inebriati dalla tutela delle 'differenze culturali', la liberista Gran Bretagna soprattutto. In realtà il compromesso finale parla solo di uno spostamento in avanti delle discussioni sull'audiovisivo, ha spiegato il commissario europeo al commercio Karel De Gucht. Ma anche in quel caso il no drastico della Francia equivarrà a un veto insindacabile.

Ha vinto, dunque, la socialista Parigi, che dietro la parola d'ordine, il principio e la pratica dell'eccezione culturale - che vuol dire prezzi dei libri controllati, investimenti pubblici e comunitari a sostegno dell'europroduzione, quote obbligatorie di musica nei broadcast, di film europei nei cinema e nelle televisioni, tassazione dei film (anche statunitensi) distribuiti in Europa per resistere all'Impero hollywoodiano, aiuto a tutti i cineasti liberi del mondo per non cadere nella tentazione del pensiero cinematografico unico, attento monitoraggio delle nuove strategie Internet - ha tutelato finora la propria industria con intelligenza e pluralismo, creato e affiancato un bel vivaio di talenti, senza troppo spreco del denaro pubblico, ha inventato un marchingegno di filiera efficace e si è comunque ritagliato un posto al sole nel mercato audiovisivo planetario, portandosi a rimorchio tutti i comparti Ue, anche quelli (come l'Italia) meno inventivi e trasparenti e molto meno  'rooseveltiani' (da noi, per esempio, tassare gli incassi dei blockbustar Usa nei cinema, o della pubblicità in tv, sarebbe politicamente impensabile, e non solo per la presenza eterna di Andreotti e dei suoi cloni nei ministeri preposti).

Già. Non dimentichiamo che l'ingresso pesante dello stato nella difesa, tutela e sviluppo della cultura (non nazionale, non di propaganda) è, storicamente, intuizione americana, merito del New Deal. Ecco perché Orson Welles, frutto di quella politica così aperta e sperimentale, a Roosevelt morto, vagava per il mondo, libero ma abbandonato, come fosse Jean Luc Godard o Jean Marie Straub ... E non dimetichiamo che l'Europa rischia sempre, per autoritari vezzi secolari, con la scusa di obbligare alle differenze culturale (ci sono differenze abominevoli), di controllare troppo dal'alto,  'governativamente', 'statalisticamente', ' burocraticamente' cose che non conosce, come l'arte, e censura i contenuti e le forme di ciò che finanzia, impone ciò che è lecito far vedere e di ciò che è proibito.  Appunto The artist sì, Godard, Straub, Kaurismaki no.

Quanto più prestigiosi, autonomi e sganciati dai partiti dal governo e dal parlamento sono gli istituti culturali e artistici pubblici - la Rai, per esempio ha con non poca fatica realizzato e poi nascosto su Genova e il G8 materiali non embedded -  tanto meglio, infatti, funzionerebbe l'affare audiovisivo, che deve rendere conto più alla società civile che ai ministri.  Mentre infatti gli Usa tuttora organizzano un forte sostegno pubblico nella fase di pre o post produzione (scuola, ricerca, laboratori sperimentali, università, musei, gallerie), lasciando poi ai monopoli di mercato il compito di elaborare il prototipo, distribuirlo e massimizzare i profitti, anche con metodi commercialmente non sempre così liberali,  l'Europa ha una pratica più feudalmente collegata al finanziamento diretto dei film (riempire di immagini controllate dei budget, secondo principi di lottizzazione), infischiandosene del mercato, e dunque della ricerca, dello sperimentalismo e di ciò che contribuirà ai prototipi futuri.  In Italia, poi, la degenerazione di questo modello, è grottesca. La sua fotografia è nei David di Donatello. Gli amici di Gian Luigi Rondi assegnano una serie di premi. Tra gli amici generali e magari prelati. E il presidente della repubblica, da sempre, benendice. Cosa?

Ma ieri ha vinto, più di Tornatore,  Nicole Bricq, il ministro del commercio estero del governo Hollande, che ha convinto tutti, dopo un lunghissimo e circonstanziato discorso, a resistere a Hollywood, dichiarandosi poi soddisfatta del compromesso raggiunto. Entusiasta anche  il ministro della cultura francese, Aurélie Filipetti, che non ha mancato di sottolineare su Twitter l'impegno degli artisti e dei lavoratori del cinema (da Wenders a Costa Gavras, da Almodovar a Spielberg, da Loach a Tavernier) in questa battaglia di civiltà cruciale.
Aurélie Filippetti, ministro della cultura

Vincolato dunque il mandato affidato alla commissione Ue per negoziare il più gigantesco accordo commerciale del mondo. Gli Usa vorrebbero rompere legami e lacciuoli. Distruggere la politica delle quote di programmi in tv, e ogni politica di sovvenzione e regolamenti discriminatori secondo la nazionalità delle società o dei capitali.  E adesso poi la Francia vuole aggiungere nuove regole specifiche per contrastare  i nuovi servizi audiovisivi e on line (video a pagamento, Netflix, etc) tassando smartphone e colossi come Google, Amazon e You Tube che potrebbero mandare a carte 48 l'ingegnosa architettura produttiva-distributiva dell'Hexagone. 

La posizione francese sulla carta è sostenuta anche da 13 fedeli ministri della cultura. Ma Madame Bricq è preoccupata per il fatto che alcuni paesi (Polonia, Italia, Belgio, Romania, Austria) non sono pronti a dimostrare la sua stessa determinazione della Germania e della Spagna in sede di World Trade Organisation. Potrebbero cedere e tentare accordi specifici di settore separati. L'irritazione degli Usa sembra palpabile. Ma forseè  pretattica. Escludere una gran parte della torta, dal libero scambio, prima ancora che le discussioni inizino, è sembrato gesto poco amichevole e senza tatto. In fondo sono in ballo, secondo gli economisti, affari per 119 miliardi di euro all'anno per il vecchio continente e 95 miliardi per gli Stati Uniti. Eppure, nonostante l'anno sia stato particolarmente favorevole al prodotto made in Europa, a causa del successo di alcune commedie locali non trascendali né esportabili tra extracomunitari, gli incassi dei film americani in Europa hanno toccato la quota di 62,8 % del totale nei 27 stati membri dell'Unione. Non è male. Se pensiamo a quanti brutti film made in Usa riescono a passare le maglie delle quote, forse se gli Usa stessi decidessero di diminuire la quantità di film esportati i profitti arriverebbero facilmente al 70, 80%. Anche senza fiatare in Ulster. A meno che un'altra talpa alla Edward Snowden, speriamo più sorprendente nelle rivelazioni di questo virgulto della Cia, ci racconterà qualcosa di più scandaloso sull'ingresso (drogato? obbligato? mafioso?) dei prodotti Usa nelle catene televisive e cinematografiche europee.

Intanto la Francia, dopo il recente rapporto Lescure, ha aperto la guerra 'digitale' per tutelare gli autori dei libri e dei film e i compositori musicali. I produttori di ihones e smartphone, si dice, pagheranno una tassa dell'1%, e anche sui tablet venduti. E così i colossi di internet. Dai 200 ai 260 milioni di dollari prelevati dalle tasse che andrebbero a autori, compositori, attori, musicisti e scrittori francesi. Con Google c'è stato un accordo, nel febbraio scorso, di cui dovrebbero già beneficiare i giornali quotidiani e le riviste (60 milioni di dollari di aiuti) mentre è nato con Yahoo un contenzioso a proposito della scalata a Dailymotion, un concorrente francese di You Tube, 'incomprabile'.








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