Jonas Carpignano sul set di A Ciambra |
Roberto Silvestri (*)
A Ciambra,
il romanzo di formazione (e di deformazione) di Pio Amato, rom di 14
anni di Gioia Tauro, è piaciuto molto alla Quinzaine e adesso fa il giro del mondo dei migliori festival ed è uscito nelle sale italiane (al Nuovo Sacher di Roma in questi giorni si può vedere anche il precedente lavoro di Jonas Carpignano, Mediterranea, sulla rivolta di Rosarno e interpretato da molti degli stessi attori di questa sorta di sequel). Molti minuti di
applausi, a Cannes, per l'odissea tragica di questo ragazzo perdente, ma non
malvagio, debole ma non insensibile, traditore ma non per servilismo di
comunità, in occasione della anteprima stampa del secondo lungometraggio di
Jonas Carpignano, italiano che ha studiato cinema a New York e ha
risolcato i sentieri interrotti di Zavattini e Rossellini. Immagini di
Tim Curtin (Re della terra selvaggia), montaggio di Affonso Goncalves (Carol, Paterson). Opera pluralista e cosmopolita quant'altri mai. Infine prima scelta dalla commissione Anica per l'avventura degli Oscar. Mentre il cineasta che va avanti e indietro dalla Calabria a Manhattan, è adesso sul set di un nuovo film firato in zona, A Chiara.
Jonas Carpignano a Giopia Taura, quartiere A Ciambra |
Ma chi è Pio? È stato già il protagonista ombra di un
corto premiato a Cannes ed era poi il peperino coinvolto dalla parte
giusta nei moti di Rosarno, soggetto dell'opera
prima di Carpignano che vinse la Semaine nel 2015 (e ha lanciato un
attore magnifico, Koudous Sehion, qui redivivo e di intensità Denzel Washington).
Un gioiello di film distribuito ovunque, tranne in Italia.
Pio Amato (a sinistra) e l'attore burkinabé Koudous Sehion, a sinistra |
Pio è una forza della natura. Analfabeta, ma
all'università della strada, basta osservarne gli occhi, e ammirarne il
tempismo, è nell'eccellenza. Questa sì che è meritocrazia (anche se piace a Renzi). Non abita le baracche di A Ciamba,
che prendono fuoco ogni qual volta i carabinieri slegano, a singhiozzo,
la canea razzista. Ma, con la numerosa famiglia a sovranità
matrilineare, Pio vive nel cemento grigio-soviet della periferia più
estrema, quella più adornata di rifuti. E sempre Ciambra è. Uno dei
posti più infernali della terra. Eppure Carpignano riesce a dare vita,
aria, sostanza, aura e carne anche agli spettri maleodoranti di A Ciambra. E, almeno, nel cinema italiano, è più difficile una apparizione di zingari danzanti che la visione (per cretini o meno) della Madonna.
Pio Amato, il protagonista di A Ciambra |
Ed ecco le prime avventure nel mondo di Pio, raccontateci come fossimo in uno slum-movie di Fernando Meirelles (ricordate La città di dio?
E infatti i brasiliani coproducono): gli amori agognati, i giochi
infantili, la sopravvivenza dura, lo slang che più hard non si può, le
sigarette (“che non fanno male”), le amicizie avulse con chi gli dà una
mano (siano pure marocchini), la famiglia, il primo motorino,
le birre, gli errori, il rapporto con i gadjo (gli italiani), quelli
della 'ndrangheta, le prime promesse e le prime performances con
destrezza alla Robin Hood, l'amicizia con i burkinabé, i ghanesi e le
nigeriane, a cui porta un tvcolor per la coppa d'Africa, nell'enclave
della vicina Rosarno.
Il fratello Cosimo e il papà sono finiti in
galera, e i debiti assommano a 18 mila euro. Equitalia ne pretende metà,
per furto di elettricità. L'altra metà spetta al mafioso della zona,
che elargisce le briciole del feudo con la tranquillità di chi ha bei
protettori in alto. Ed ecco che tocca a Pio prendere il controllo della
situazione. Ma la cifra è alta. Non basta saperci fare nel garage e
guidare l'auto a tal punto da beffare i caruba, in una magnifica scena
da The Blue Brothers. Si capisce che Carpignano è pesce
nell'acqua nella zona proprio come Landis lo è della Chicago drop-out. Ci vive metà dell'anno in questi posti (l'altra metà a New York). Ed ecco che infatti entriamo in pieno clima Main Street (Martin
Scorsese è il produttore esecutivo del film), anche senza metropoli a
chiarire un po' meglio come il giro della droga, della prostituzione e
del furto organizzato siano una perfetta macchina addomesticata e
fluidifcante nel grande giro mondiale delle merci. Il pensiero sarà
anche unico, ma è mafioso. Se una merce è ferma, è un oggetto senza
vita. Se una merce gira di qua e di là, grazie alla destrezza di chi sa
delocalizzare meglio ancora di Marchionne, l'intero sistema ne trarrà
giovamento, no?
Una drammaturgia fluida, mai ingolfata dall'ansia
documentaria, quella di Carpignano, aiutato da interpreti molto ben
allenati. Una tranche de vie che non ha difficoltà a immergersi nella
ritmica, a forma di rap, di un racconto-fiaba. Dove non mancano i
cavalli senza briglia delle saghe irlandesi. Andare sulla strada senza
padroni, essere solo padroni di se stessi. Diventare nemici del mondo
così come è, ma amici del cosmo. Sarà questo l'obiettivo di Pio. Un
sequel sembra a questo punto inevitabile. Carpignano ha fatto della
serialità un metodo per sconvolgere la fiction dall'interno. E' per questo che il cinema italiano mainstream fatica a celebrarlo. E poi,
l'argomento!
I gitani. Sono anarchici, on the road, contro il
mondo, losers. Preferiscono l'oro ai soldi.... Rubano. O meglio, come si
dice in epoca neoliberista, fanno circolare le merci un po' più a lungo
del solito.
I razzisti, i nazifascisti, i socialdemocratici, i
liberali, i comunisti duri e puri di tutta Europa sono tutti,
esplicitamente o implicitamente, infastiditi a pelle da gitani, sinti,
rom o zingari (e magari anche i rumeni tutti, per colpa di Veltroni che in geografia doveva essere una pippa). Non li sanno o non li vogliono comprendere.
Non ci fosse stato il Vaticano, almeno da Giovanni
Paolo II a Francesco, a proteggerli, dopo l'orrendo olocausto che tentò
di cancellarli dalla terra occidentale, avrebbero avuto solo il sostegno
dei fan del circo, di Emir Kusturica e di Guy Debord, il cui regista
preferito fu sempre Tony Gatlif (che presenta il suo nuovo rom-movie
proprio qui a Cannes). Se ci pensate non esistono molti film sui gitani. In
Italia poi se ne sono occupati, senza paternalismi di sorta, solo Carolos
Zonars (greco, ex esule a Roma) e Alberto Grifi, negli ultimi mesi
della sua vita, visto che nelle periferie si preparavano piccoli grandi
pogrom, come leggiamo sui quotidiani. Ma a Hollywood i gitani, da Douglas
Fairbanks a Marlene Dietrich, sono sempre simpatici, e non solo per
istinti antinazi. Non si può dire che abbiano mire rifeudalizzanti.
Dunque si ammirano per il loro astio nei confronti dei padroni e delle
rendite. Ed è di particolare interesse un film che l'attore Robert
Duvall girò come regista dentro una comunità gipsy, Angelo my love,
anno 1983. Quel loro modo di vivere, in quegli anni di ipermodernità,
diventava più consono alla cultura dominante fatta non di fatti ma di
ipotesi, di previsioni, di potenzialità. Di lettura, nella mano, dei
giochi futuri.
(*)Pubblicato il su Alfabeta2
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