Roberto Silvestri
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Sam Shepard in The Right Stuff |
Per ricordare Sam Shepard, nei giorni tristi perché ci ha lasciato anche Harry Dean Stanton, forse basta ricordare uno solo dei suoi film. Per esempio Don't come knocking. Non bussare alla mia porta. Regia di Wim Wenders, bella e invisibile.
Film tedesco d'America, fu in gara a Cannes nel 2005.
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Sam e Jessica Lange |
Una buona storia, con il plot costruito dai
personaggi, e non viceversa, sul vuoto di paternità nel mondo d'oggi (che
potrebbe abolirla per legge)... Un uomo ricco e famoso, Howard Spence, attore di western, e
da sempre solitario, a sessant'anni e qualcosa può decidere di diventare
socievole, e per questo si mette in marcia, cambia giacca e stivali, si apre
all'on the road e al caso, torna molto indietro nel passato, per costruire un
altro futuro... Howard si chiama, e fa rima con «coward» (codardo), le
urlerà il suo ex grande amore ritrovato. Era tanto grande, quell'amore che fu
interrotto per paura, per evitare, chissà, il dolore di una fine
insostenibile. Resta però un figlio cantautore con band, da qualche parte. E
se ha il caratterino del cowboy individualista celibe, sarà difficile farli
comunicare. L'elaborazione del dolore sarà affidata a una canzoncina e a un
coro. Tra artisti ci si intende di più che tra civili...
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Sam Shepard in Don't Come Knocking |
Ma non parlerà il
film per caso della difficile eredità per un ragazzo tedesco del secondo
dopoguerra di una seconda patria, gli States, inconoscibile e incomprensibile, non priva di charme
seduttivo? Gli attori sono più che perfetti, Jessica Lange, Tim Roth, Sarah
Polley e Eve Marie Saint, George Kennedy... immersi ognuno in un mondo di segni tutto proprio
(soprattutto un «nativo» armato di pistola, irriducibile nel dissotterrare
l'ascia di guerra) e non sempre decifrabili.
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Sam e Sissy Spacek |
Immagini stupende, poi, di Franz Lustig, pensate già per il televisore al
plasma e il 16:9 e per essere competitive con i campi lunghi di Rio Bravo e Ombre rosse (ha vinto il premio per la migliore fotografia europea dell'anno). Ma Joseph Biroc le avrebbe amate molto, perché
nitide ma inquietanti. Come se Corman avesse avute tre settimane di tempo in
più nelle riprese per ritoccare ombre e focali. Una ventina i riferimenti
colti all'iconografia del passato, classica e del crepuscolo, da Hooper a
John Sturges, dalla main street intatta, inizio secolo (scorso), negli stati
del «middle», che in realtà non esiste più ma grazie ai mall-center post
moderni oggi stanno rifiorendo, alle vecchie automobili verdi pastello e
tutte curve, agli alberghi cadenti e screpolati simili a Million Dollar Hotel, alle
cineroulotte e agli altri non luoghi (nel senso di non ancora usurati dal cinema):
la cittadina di Butte (in Montana), perché Dashiell Hammett la chiamò
Poisonville in Red Harvest; e
l'altro centro abitato di Elko, Nevada, dove si mangia un'ottima cucina basca
e l'eroe ritrova le sue radici dimenicate, una madre che non gli ha insegnato
le buone maniere e le origini dei suoi sensi, «spiritati» e onnivori (e qui Shepard sembra in trio con Warren Oates e Harry Dean Stanton). Ma anche
Moab, segnale fordiano forte del paesaggio primordiale della lotta epica, ma
non «malboro dipendente» (e dunque intossicato) come la Monument Valley.
Quelle piccole, autobiografiche cose che misteriosamente riescono a dare al
tutto un tocco di verità e allo stile un marcato retrogusto europeo, da
premio Phoenix, da Strasburgo Found (ma il film non lo ha vinto). «Mi ha salvato il rock», disse Wim
Wenders, ma, una volta salvo, fu Hawks e Walsh e Tashlin a praticare la
respirazione bocca a bocca per non fargli mai più venire la voglia di farla
finita. Un cineasta della modernità critica, però, ha qualche strumento di
analisi e combattimento in più, studia ossessivamente lo sguardo come
violenza subita quotidianamente nelle nostre città, la paranoia dell'essere
scrutati ovunque da occhi non indifferenti, misteriosi, ostili e
indiscreti...
Tutto questo conduce il film all'elogio finale del toccare virtualmente, del
toccarsi per capirsi, ma attraverso le immagini non la carne, in una sorta di
manifesto per un «cinema osteopatico» più realista ancora perché non statico
ma dinamico.
E la musica di T-Bone Burnett ovvero del country cool rok a tutto spiano (più
Cassandra Wilson)... Insomma: cosa possiamo pretendere di più da un film del
sabato sera? Non è sempre il momento della rottura epocale, di un Nel corso del tempo che dichiarò
finita la contestazione generale e iniziata l'era del narcisismo in
crepuscolare stato d'allarme. Anche il clima da L'ultimo spettacolo, o da Il
temerario o da film serio come ne facevano ancora negli anni 80 Walter
Hill, Don Siegel o Sam Pechinpah, entra in questo parco a tema sull'America
oggi.
In fondo i vent'anni passati da allora, dal primo al secondo Bush è
stato meglio non viverli insieme e si sono cancellati da soli. Forse nessun
film li ha saputi combattere, non come Capra e Ford, che riuscirono a zittire
reazionari e fanatici durante il New Deal. E tra poco Rumsfeld ne chiederà la
rimozione ufficiale dalla storia del cinema.
Don't come knocking, non bussare
alla mia porta, o «Non disturbare» è l'ultimo film di Wim Wenders, un omaggio
ai drammi ambientati nel rude Montana di Sam Shepard, l'unico corpo cowboy
credibile della modernità. Infatti i western non li producono più. Parto
lungo, budget imponente, si iniziò nel 2002, poi stop per il no budget Land of Plenty che non è bastato a
fermare Bush jr. e poi altri soldi, altri partner, altri «colori aggiunti».
Come dice Wenders, però: «come per un buon vino è bene che un buon film
invecchi un po' più a lungo». Shepard, ora che il suo viso da sempre
perfettamente fordiano è segnato dalle rughe come quello di Harry Dean
Stanton, come era quello di Warren Oates, è anche il protagonista e il co-sceneggiatore di questo Paris, Texas del XXI secolo. Dunque
dopo venti anni (lo stesso intervallo che dà Jarmush a Bill Murray perché gli
umani si diano da fare arrivati al crepuscolo), un divo del cinema,
inguaribile dongiovanni, cento yard di coca e rye whiskey a fiumi ("Perché Warren Oates ami così tanto il Messico?". Perché lì la birra non costa niente, per noi") dice basta
a tutto, mentre è su un set nel deserto, diretto da George Kennedy, prende un
cavallo e scappa, prosegue a piedi, poi in autobus, poi trova la mamma che
non sentiva da un secolo e che le dice che da qualche parte c'è un figlio suo
riapparso dal nulla. Via all'inseguimento, trova ex fiamma e figlio, oggi
rocker languido e poetico, ma non è facile ritessere fili così invecchiati,
mentre lui stesso è oggetto di un doppio inseguimento, una giovane bionda con
le ceneri di mamma in braccio (figlia ignota numero due) e un assicuratore
paranoico ma curioso, ingaggiato dai produttori del film per riacciuffare la
star svanita. Manette, via col set. Dietro sulla macchina di papà Gabriel
Mann ora insegue. Forse è un bene che non tutti usino la pillola.
L'integralismo è degli altri. E se lo tengano.
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