mercoledì 20 settembre 2017

Classici dimenticati. Don't Come Knocking di Wim Wenders. Requiem per Sam Shepard






Roberto Silvestri



Sam Shepard in The Right Stuff 

Per ricordare Sam Shepard, nei giorni tristi perché ci ha lasciato anche Harry Dean Stanton,  forse basta ricordare uno solo dei suoi film. Per esempio Don't come knocking. Non bussare alla mia porta. Regia di Wim Wenders, bella e invisibile. Film tedesco d'America, fu in gara a Cannes nel 2005. 

Sam e Jessica Lange

Una buona storia, con il plot costruito dai personaggi, e non viceversa, sul vuoto di paternità nel mondo d'oggi (che potrebbe abolirla per legge)... Un uomo ricco e famoso, Howard Spence, attore di western, e da sempre solitario, a sessant'anni e qualcosa può decidere di diventare socievole, e per questo si mette in marcia, cambia giacca e stivali, si apre all'on the road e al caso, torna molto indietro nel passato, per costruire un altro futuro... Howard si chiama, e fa rima con «coward» (codardo), le urlerà il suo ex grande amore ritrovato. Era tanto grande, quell'amore che fu interrotto per paura, per evitare, chissà, il dolore di una fine insostenibile. Resta però un figlio cantautore con band, da qualche parte. E se ha il caratterino del cowboy individualista celibe, sarà difficile farli comunicare. L'elaborazione del dolore sarà affidata a una canzoncina e a un coro. Tra artisti ci si intende di più che tra civili...

Sam Shepard in Don't Come Knocking
Ma non parlerà il film per caso della difficile eredità per un ragazzo tedesco del secondo dopoguerra di una seconda patria, gli States,  inconoscibile e incomprensibile, non priva di charme seduttivo? Gli attori sono più che perfetti, Jessica Lange, Tim Roth, Sarah Polley e Eve Marie Saint, George Kennedy... immersi ognuno in un mondo di segni tutto proprio (soprattutto un «nativo» armato di pistola, irriducibile nel dissotterrare l'ascia di guerra) e non sempre decifrabili.

Sam e Sissy Spacek
Immagini stupende, poi, di Franz Lustig, pensate già per il televisore al plasma e il 16:9 e per essere competitive con i campi lunghi di Rio Bravo e Ombre rosse (ha vinto il premio per la migliore fotografia europea dell'anno). Ma Joseph Biroc le avrebbe amate molto, perché nitide ma inquietanti. Come se Corman avesse avute tre settimane di tempo in più nelle riprese per ritoccare ombre e focali. Una ventina i riferimenti colti all'iconografia del passato, classica e del crepuscolo, da Hooper a John Sturges, dalla main street intatta, inizio secolo (scorso), negli stati del «middle», che in realtà non esiste più ma grazie ai mall-center post moderni oggi stanno rifiorendo, alle vecchie automobili verdi pastello e tutte curve, agli alberghi cadenti e screpolati simili a Million Dollar Hotel, alle cineroulotte e agli altri non luoghi (nel senso di non ancora usurati dal cinema): la cittadina di Butte (in Montana), perché Dashiell Hammett la chiamò Poisonville in Red Harvest; e l'altro centro abitato di Elko, Nevada, dove si mangia un'ottima cucina basca e l'eroe ritrova le sue radici dimenicate, una madre che non gli ha insegnato le buone maniere e le origini dei suoi sensi, «spiritati» e onnivori (e qui Shepard sembra in trio con Warren Oates e Harry Dean Stanton). Ma anche Moab, segnale fordiano forte del paesaggio primordiale della lotta epica, ma non «malboro dipendente» (e dunque intossicato) come la Monument Valley.


Quelle piccole, autobiografiche cose che misteriosamente riescono a dare al tutto un tocco di verità e allo stile un marcato retrogusto europeo, da premio Phoenix, da Strasburgo Found (ma il film non lo ha vinto). «Mi ha salvato il rock», disse Wim Wenders, ma, una volta salvo, fu Hawks e Walsh e Tashlin a praticare la respirazione bocca a bocca per non fargli mai più venire la voglia di farla finita. Un cineasta della modernità critica, però, ha qualche strumento di analisi e combattimento in più, studia ossessivamente lo sguardo come violenza subita quotidianamente nelle nostre città, la paranoia dell'essere scrutati ovunque da occhi non indifferenti, misteriosi, ostili e indiscreti...


Tutto questo conduce il film all'elogio finale del toccare virtualmente, del toccarsi per capirsi, ma attraverso le immagini non la carne, in una sorta di manifesto per un «cinema osteopatico» più realista ancora perché non statico ma dinamico.

E la musica di T-Bone Burnett ovvero del country cool rok a tutto spiano (più Cassandra Wilson)... Insomma: cosa possiamo pretendere di più da un film del sabato sera? Non è sempre il momento della rottura epocale, di un Nel corso del tempo che dichiarò finita la contestazione generale e iniziata l'era del narcisismo in crepuscolare stato d'allarme. Anche il clima da L'ultimo spettacolo, o da Il temerario o da film serio come ne facevano ancora negli anni 80 Walter Hill, Don Siegel o Sam Pechinpah, entra in questo parco a tema sull'America oggi.

In fondo i vent'anni passati da allora, dal primo al secondo Bush è stato meglio non viverli insieme e si sono cancellati da soli. Forse nessun film li ha saputi combattere, non come Capra e Ford, che riuscirono a zittire reazionari e fanatici durante il New Deal. E tra poco Rumsfeld ne chiederà la rimozione ufficiale dalla storia del cinema.

Don't come knocking, non bussare alla mia porta, o «Non disturbare» è l'ultimo film di Wim Wenders, un omaggio ai drammi ambientati nel rude Montana di Sam Shepard, l'unico corpo cowboy credibile della modernità. Infatti i western non li producono più. Parto lungo, budget imponente, si iniziò nel 2002, poi stop per il no budget Land of Plenty che non è bastato a fermare Bush jr. e poi altri soldi, altri partner, altri «colori aggiunti». Come dice Wenders, però: «come per un buon vino è bene che un buon film invecchi un po' più a lungo». Shepard, ora che il suo viso da sempre perfettamente fordiano è segnato dalle rughe come quello di Harry Dean Stanton, come era quello di Warren Oates, è anche il protagonista e il co-sceneggiatore di questo Paris, Texas del XXI secolo. Dunque dopo venti anni (lo stesso intervallo che dà Jarmush a Bill Murray perché gli umani si diano da fare arrivati al crepuscolo), un divo del cinema, inguaribile dongiovanni, cento yard di coca e rye whiskey a fiumi ("Perché Warren Oates ami così tanto il Messico?". Perché lì la birra non costa niente, per noi") dice basta a tutto, mentre è su un set nel deserto, diretto da George Kennedy, prende un cavallo e scappa, prosegue a piedi, poi in autobus, poi trova la mamma che non sentiva da un secolo e che le dice che da qualche parte c'è un figlio suo riapparso dal nulla. Via all'inseguimento, trova ex fiamma e figlio, oggi rocker languido e poetico, ma non è facile ritessere fili così invecchiati, mentre lui stesso è oggetto di un doppio inseguimento, una giovane bionda con le ceneri di mamma in braccio (figlia ignota numero due) e un assicuratore paranoico ma curioso, ingaggiato dai produttori del film per riacciuffare la star svanita. Manette, via col set. Dietro sulla macchina di papà Gabriel Mann ora insegue. Forse è un bene che non tutti usino la pillola. L'integralismo è degli altri. E se lo tengano.









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