L'attore francese di origini algerine Salim Kechiouche beato tra le "vergini" Ophelie Bau e Lou Luttiau (a destra) in "Mektoub, my love: Canto uno" |
No Kechiche, sì Kechiche
A proposito del presunto scandalo veneziano: “nessun premio a Kechiche”. Non vogliamo parlare certo della antipatia del cineasta tunisino di Francia. La sua smania di premi e riconoscimenti da primo della classe ne fanno un odioso Lars von Trier del sud. Ma che c'entra col film? Nessuno è perfetto, neanche Fidia, neanche Jerry Lewis, dal punto di vista caratteriale….
Ma antipatia è anche quella del suo ufficio stampa. Un film che per oltre la metà si fissa in maniera imbambolata, tra lussuria e impertinenza, sui sederini danzanti di donne e ragazzine liberate nella discoteca birichina, perché poi censura tutte le sue grazie, iquando si tratta di promuoverle?
E se cercate in rete foto di Mekoub troverete solo romantici sguardi in primo piano o controluci sul mare al tramonto catturati dal direttore della fotografia italiano ed emergente Marco Graziaplena che vorrebbero deviarvi verso piaceri cinematografici da beach movie (quelli si un suadente e scandaloso inno alla vita, sex drugs and rock'n'roll) con Sandra Dee e Troy Donauhe o Frankie Avalon e Annette Funicello.
Ma che c'entra con i vizi e le virtù del nuovo film di Kechiche Mektoub?
Shain Boumedine |
Lou Luttiau |
Il film racconta infatti la storia di un artista beur bellissimo ma inaccessibile, scrittore e fotografo (Shain Boumedine), che attraversa consenziente, con occhio da entomologo, ore e ore di sballo paradisiaco anche se con sottofondo di musica rincoglionente tipo Sorrentino, ma animato da bellissime francesi e antillane mozzafiato in vacanza al mare, prima di comprendere il vero significato della vita, e ritrovare una spiritualità (musulmana?) interrotta, perché il materialismo consumistico occulta e distorce la verità, uscendo così trionfante dalla trance della seduzione erotica (più Tinto Brass che Russ Meyer, più culi che tette) confezionata dall’occidente e dai suoi costumi decadenti. Un parto gemellare di capre sarà l'evento in diretta che cambia la vita. L'orizzonte anticipa il futuro: una regolare coppia sposata, uomo e donna, gerarchicamente tradizionale. La solita solfa.
scena finale, anti western |
massacrava e recideva le proprie radici greche fino a distruggerne ogni aroma o traccia scritta.
gli attori a Venezia |
Lou Luttiau |
Kechiche ha cominciato dando tutta la colpa a Voltaire ma adesso sembra assumere sempre di più il ruolo non proprio di un Leo Strauss o di un Sayyd Qutb ma almeno di un Kathami o di un Paul Morrissey del cinema francese. Fustigatore dei costumi libertini, siano essi esageratamente lesbici o semplicemente di sfrenata sessualità narcisista, ma pop abbastanza da sfruttarne tutte le potenzialità commerciali, anche questa volta sembra voler allestire una macchina antidesiderante, e puntare alla normalina, al voler mettere il velo alle sue (e dei maghrebini di Francia) pulsioni transgender più colpevoli. Inoltre questo roteare incantato sui sederi (che stranamente i colleghi osannanti il film han rimosso dalle critiche) è un po' ipocrita.
Lou Luttiau |
Yoko Ono Film n.4 |
Yoko Ono, di ben altra radicalità, e laicità, spiegava meglio la necessià di separare chiesa da stato, laicità da religione in Film. n.4 (1965) utilizzando uno strano simbolo sessuale incastonato in un alto simbolo religioso. Dove quattro sono anche le assi della croce cristiana. E anche le quattro parti di un "ass".
Yoko Ono Film n.4 1965 |
Yoko Ono, Film n.4 |
Commento ai premi della Mostra n.74
L'attore mostro preferito da Guillermo del Toro, Doug Jones |
Chi è riuscito a vedere a fine festival le sei puntate della magnifica serie Netflix di Errol Morris,Wormwood, sugli esperimenti segreti e falliti condotti dalla Cia sull’LSD con effetti farmacologici disastrosi sugli stessi scienziati e con l’esplosione di contraddizioni mostruose nel seno stesso della democrazia più cristallina, avrà apprezzato ancora di più dove va a scavare davvero la love story tra la donna di servizio muta (una adorabile Sally Hawkins) e il mostro della laguna nera (omaggio alla maschera wrestling del Santo) catturato e torturato a morte dai laboratori segreti dei militari nordamericani perennemente maccartisti e di crudeltà inguaribilmente nazistoide, prima del finale liberatorio e rivoluzionario alla Splash!
E' il caso di sottolineare anche, a smorzare, anzi a zittire il coro di insulti critici che si sono levati inaspettatamente contro il film, certo destabilizzante, la prova attoriale superlativa di Michael Shannon e delle falangi (della sua mano) che confermano, dopo Warren Oates, Harry Dean Stanton, Jennifer Lawrence, Johnny Depp, George e Rosemary Clooney, Patricia Neal, Gus Van Sant, Charles Napier, Irene Dunne, Muhammad Alì, D.W. Griffith e un migliaio di altri artisti connazionali, che il Kentucky è la capitale mondiale del cinema, della musica, dello sport e dello spettacolo tutto. Altro che California.
Solo First Reformed (ovvero nei testi sacri, perfino coranici perfino biblici si possono trovare frasi che interpretate letterariamente come quella dell’Apocalisse di San Giovanni: distruggete i distruttori del mondo conducono direttamente al terrorismo e alla lotta armata, non per questo bisognerebbe mettere in galera i chierici di tutte le religioni, anche se...) e Human Flow (e le moltitudini di profughi politici ed economici che si muovono scompostamente e pericolosamente, terrorizzando l’establishment critico di Venezia perché tutti quei sederi inquadrati sono assai più conturbanti di quelli di Ophelie Bau, Alexia Chardard, Estefania Argelich, Hafsia Herzi) possiedono la stessa leggerezza e lucidità nel combattere i mostri a cui è attualmente demandata l'organizzazione socioeconomica del mondo. Insomma il film di Del Toro è in versione poetica il film-prosa di Errol Morris.
Certo il valore sul mercato della statuetta alata non permetterà a Guillermo Del Toro, 51 anni, di finanziare il suo prossimo film, a differenza della Palma d'oro senza la cui vendita niente Mektoub, ma un cineasta messicano di così originale potenza “psicotronica” sul podio più alto, è già un detour salutare per il nostro perbenismo visuale eurocentrico (speriamo che arrivi presto in Italia anche la mostra recentemente allestita al Lacma di Los Angeles dedicata alle sue opere e al suo inconscio ribollente). A proposito. Di rara potenza comico-geografica poi quella annotazione che abbiamo letto su tutti i giornali: “le giurie avrebbero premiato solo film della nazionalità del presidente della giuria come Avati/Nicchiarelli. E Piccioni/Klimov e soprattutto Bening/Del Toro? La geografia non è un'opinione.
Ben fatto Bening & Co. L'intera lista dei riconoscimenti è sorprendentemente equilibrata, a cominciare dal premio speciale della giuria per il A Ciambra aborigeno (e un po' sottovalutato dalla critica internazionale) Sweet Country, del nativo australiano Warwick Thornton e dall'indicare in Charlie Plummer il più interessante attore emergente (per l'ottimo Lean on Pete di Andrew Haigh). E dal premio per la migliore sceneggiatura, andato a Three billboards Outside Ebbing Missouri di Martin McDonaugh, che divertirà i pubblici di ogni genere e grado offrendo la stessa quantità di emozioni e suggestioni di una intera serie tv, ma senza far perdere troppo tempo.
Le Coppe Volpi (ma perché non le chiamano direttamente Coppe Mussolini? Eppure si stanno rafforzando giustamente le leggi contro ogni schiamazzo fascista…) riconoscono le performance affilatissime, sapienti e “brechtiane” di Charlotte Rampling (produzione Rai, super sponsor della Mostra) e Kamel El Basha (attore palestinese di teatro, esordiente nel cinema, del film libanese The insult, un gioiello per il mercato d'essai).
Frutto dei compromessi inevitabili di giuria invece sia il Leone d'argento per la regia al film francese di regime (w la polizia, abbasso i magistrati garantisti) Jusqu'à la garde dello studioso dei piaceri schermici statisticamente tollerabili per lo spettatore medio Xavier Legrand (una sorta di nuovo Kechiche, diversamente puritano) che il gran premio della giuria a Foxtrot, dell'israeliano Samuel Maoz (degradato rispetto al Leone d'oro per lo sciovinista Lebanon), grottesco semisatirico sull'esercito, infarcito di allegorie banalissime anti arabe (cammello=Hamas). Probabilmente il presidente della giuria ha pensato bene di equilibrare, per non creare polemiche a Hollywood, il riconoscimento a un palestinese. Divertente (sarcastico) la reazione sia di Beirut che di Tel Aviv ai due concittadini premiati che rischiano entrambi la galera o il disprezzo di stato. Prendere in giro il Mossad o l’esercito è però diventato per Israele un fiore all’occhiello. Noi siamo democratici, tutti i paesi arabi non permetterebbero mai una tale libertà di fraseggio. Ma c’è sempre qualche ministro (della cultura in questo caso) che si dimentica il copione.
Comunque. Molti hanno vinto alla Mostra 2017. Ha vinto John Landis che ha dirottato, col suo prestigio, un enorme interesse per gli esperimenti in realtà virtuale (“che non segna la fine del cinema tradizionale” assicura Landis. Sembra piuttosto una intensificazione delle nostre potenzialità ricettive). E il film che ha vinto, d'animazione, Arden's Wake di Eugene Chung ci sprofonda, anche lui, nell'oscurità postapocalittiche dell'Oceano. Ha vinto Frederick Wiseman, radiografo della Public Library di New York, raccontandoci perché “Trump è la dimostrazione del fallimento del nostro sistema educativo. Come diceva l'acuto intellettuale degli anni '20 Henry Louis Mencken “è impossibile sottovalutare la stupidità del pubblico americano”. Ma almeno in Usa il sistema delle biblioteche pubbliche è un valido antidoto al declino esiziale della civiltà occidentale.
Ha vinto la Rai che è riuscita a lanciare nel mondo una sua produzione internazionale, Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli, copiando il metodo Canal Plus (uso e abuso di Cannes).
Ha vinto Barbera, e il suo gruppo di selezionatori (un cartellone apprezzato, dei premi adeguati) e Baratta (per i miglioramenti logistici della Mostra, ma siamo ancora a inizio cantiere: solo tra 5 anni il Des Bains tornerà quello che era...).
Non commentiamo né le Giornate, né la Settimana, né Orizzonti perché non abbiamo potuto vedere quasi nulla in queste sezioni. Il corpo umano non è ancora capace di quadruplicarsi. A Cannes i critici transalpini vedono tutti i film delle sezioni collaterali prima del festival. Ma lì siamo ad aprile. A luglio e ad agosto ci sembra dura. Però una riduzione di film e una organizzazione del palinsesto più efficiente sarebbe auspicabile. A meno che quel che vogliono i produttori è non far vedere i loro film a chi li dovrebbe pubblicizzare. Che i critici siano fatti fuori, sostituiti dagli apologeti corruttibili o meno, è sempre stato un vizio in Laguna. Ricordate il Mose?
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