La bestia cieca (1969) di Yasuzo Masumura, classico film anti-classico sula cecità |
Roberto Silvestri *
Valeria Golino in Il colore nascosto delle cose |
Per vedere più chiaramente, dentro di sé ma
soprattutto fuori di sé, al di là della superficie apparente delle cose,
dei corpi e dei Tg, si ha bisogno di forte disciplina etica. O di un
miracolo, di una apparizione, di voci misteriose, di shock salutari, di
sofferenze, di un grande amore, di occhi che “vedono ciò che gli altri
non vedono”. Che poi è la definizione dei grandi cineasti, di chi
trasforma, come dice Godard, la notte in luce. Un cineasta è infatti una
sorta di “non vedente” apparenze e corteccia, ma vedente sostanze, come
ha dimostrato Yasuzo Masumura in La bestia cieca (1969),
l'horror incentrato sulle capacità sinestetiche di uno scultore cieco
impazzito di desiderio, assassino sì, ma certo non oggetto di pietà né di
compassione paternalistica.
Valeria Golino |
Vera antitesi ai troppi film che abusano dei
personaggi di non vedenti, quando si ha bisogno di esercitare sadismi
voyeuristici di ogni genere (anche Mia Farrow, in Terrore cieco di Richard Fleischer, e Sara Serraiocco di Salvo hanno
costruito personaggi anticonformisti, pieni di energia e
voglia di vivere e di vedere oltre). Fanno sport, o viaggiano, o sono professionisti e
autonomi, oppure di furbizia tale da mettere in scacco perfino il loro
aguzzino mafioso.
Adriano Giannini e Valentina Carnelutti |
Un altro ruolo eccentrico è quello di Emma (Valeria
Golino), osteopata e giocatrice di softball, cosmopolita e di leggiadra
personalità, non vedente dall'età di 17 anni, che sarà capace di
rimodellare non solo il corpo ma anche il cervello di una diciottenne
“no future” furiosa con tutti perché non ci vede ma sente che il mondo
attorno è orribile, e poi – ma solo in seconda battuta perché in questo
film i robottini puliscono casa e le donne non smaniano solo per gli
uomini – di Teo (Adriano Giannini), acrobata del sesso, tre amanti per
volta come programma minimo, che si caracolla con la sua sciarpa
fantasia, un creativo di successo nel campo della pubblicità ma
sbalestrato esistenzialmente da problemi di famiglia mai risolti.
Fuori concorso Il colore nascosto delle cose, undicesimo film di
Silvio Soldini, che, come Jim Carrey dentro Hollywood, sta mettendo in
difficoltà da molti anni, senza però riuscire mai a farla esplodere
completamente, la macchina romana del cinema commerciale, ostinatamente
ossessionata dalla forma commedia inesportabile. E, 24 anni fa, con Un'anima divisa in due Soldini
portò Fabrizio Bentivoglio al massimo premio della Mostra insistendo
sulle tonalità drammatiche, serie, solo striate da umorismo adulto e
sentimenti ben scavati. Soldini, svizzero italiano, è infatti una sorta
di Borromini della cinepresa perché, pur conoscendo tutti i trucchi che
rendono una immagine visiva e sonora seducente, o almeno di effetto
sicuro, la decostruisce, elemento per elemento, non per spiazzare il
consumatore narcotizzato dalla ritmica fiabesca consueta, ma per creare
effetti speciali ancor più spettacolari e barocchi. Non ornamentali,
anche se una serie di grandi attori adornano il film di sberluccicanti
diademi (Cederna, Carnelutti, De Francesco...). Ma strutturali. Se
l'immagine movimento è il fluido narrare hollywoodiano e
l'immagine-affezione quel tocco francese specializzato in gastronomia
sensuale, Soldini è il genio dell'immagine-pulsione.
Quella linea naturalistica sul solco di Bunuel,
Visconti e Losey, che ritocca, con immensa leggerezza (scambiata per
modestia espressiva), la violenza originaria. E la voce di Valeria
Golina è violenza originaria, non “giocattolo acustico sexy”. Quando Teo
lo scoprirà si butterà nel mondo nero colorato di Emma.
* già pubblicato da Alfabeta.2
* già pubblicato da Alfabeta.2
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