giovedì 29 agosto 2013

Tracks, il National Geographic va in Australia


Mariuccia Ciotta

Venezia

Mia Wasikowska


L'essere umano solo nell'immenso spazio, popolato di stelle come in Gravity, film d'apertura della Mostra di Venezia n.70, magnifico universo in 3D che ingloba lo spettatore in una bolla liquida, o immerso nella sabbia arida dell'Australia, secondo Tracks (concorso) del regista newyorkese trapiantato a Sydney John Curran.

Il viaggio esistenziale è già un leit motiv della rassegna veneziana, e L'arte della felicità, il cartoon di Alessandro Rak si allinea alla tendenza, microcosmo un taxi. Sintomo dei tempi: individuo scollegato dai suoi simili e collegato con l'universo on line. Deserti. Perdersi nelle neverland.

Da Gerry di Gus Van Sant a La prigioniera del deserto di Raymond Depardon, con Sandrine Bonnaire ostaggio di una tribù nomade del Sahara. Robyn Davidson (Mia Wasikowska, Alice in Wonderland di Tim Burton), però, è solo prigioniera della sua mente e dei suoi assolati flask-back di bambina privata della madre suicida e del suo amato cane, la cui soppressione le viene annunciata in simultanea da un padre tenero come i coccodrilli che ama cacciare in Africa.

E' una storia vera, Tracks, bestseller 1980, raccontata in prima persona da Robyn Davidson, venticinquenne da record dei primati che nel 1975 partì da Alice Springs, città al centro dell'Australia, e percorse a piedi 2700 km fino all'oceano indiano. Con lei, il suo cane nero Diggity e tre “camels”, così in originale, cammelli nella traduzione italiana, mentre i giganti lanuginosi sono dromedari di origine afghana introdotti nel continente aussie nel 1800 e poi inselvatichiti quando i camion ne presero il posto sulle strade impervie della regione.

Negli anni settanta le quattro ruote vanno spedite, ma Robyn è alla ricerca di se stessa, odia la metropoli e preferisce domare le bestie selvagge e partire verso l'ignoto. L'esile Mia Wasikowska vanta un caschetto di capelli tagliati ad arte e striati di colpi di sole che preferisce non coprire con il cappello nei sei mesi di marcia sotto l'astro di fuoco. Niente occhiali scuri né crema antisolare, solo i suoi sacchi di provviste e un giaciglio per letto, il tutto montato sugli enormi animali, seguiti da un piccolo dromedario, l'unico a pretendere generi di comfort, quattro stracci avvolti sugli zoccoli, la terra scotta. Scontrosa misantropa, Robyn attraversa il bush con una sola espressione enigmatica, e incontra sul suo tragitto qualche lupo solitario a due gambe ma nessun dingo, che pure infesta la zona del massiccio roccioso Uluru, icona australiana e luogo sacro aborigeno. Ribattezzato Ayers Rock dagli inglesi, il monolito dai magnifici colori cangianti è stato protagonista di Un grido nella notte di Fred Schepisi, storia vera di Lindy Chamberlain (interpretata da Meryl Streep) accusata ingiustamente dell'assassinio della sua bambina di due mesi, strappata alla culla da un cane del deserto. Nessuna emozione, invece, infrange la spedizione estrema di Robyn, seguita controvoglia (di mese in mese) da un molesto fotografo di National Geographic, Rick Smolan (Adam Drive, noto per la serie Hbo, Girls), incaricato di documentare l'impresa in cambio di 4.000 dollari, finanziamento necessario per il viaggio.

I paesaggi maestosi, una luna gigante, tramonti e albe in una rarefazioni di immagini che rischiano l'effetto patinato del reportage detestato dall'intrepida nomade. In più, Tracks tocca punti sensibili della storia australiana con la leggerezza di uno scatto da copertina. A cominciare dagli aborigeni, ai quali Werner Herzog diede la parola in Dove sognano le formiche verdi ('84), scontro tra nativi e proprietari di miniere nel mezzo di un territorio desertico. Qui, al contrario, gli aborigeni fanno da sfondo etnico, arruffati “primitivi” accoccolati intorno al fuoco a mangiar vermi, conigli impellicciati e canguri, che guai se a scuoiarli è una donna, tanto che Robyn, sola nel nulla, rinuncia alla cena, in omaggio alle tradizioni più oscurantiste. Stessa cosa di fronte alla castrazione senza anestesia del dromedario maschio, troppo aggressivo le spiega l'allevatore afgano, che le consiglia di sparare senza indugio a ogni “camel” selvatico, cosa che avviene senza la (nostra) certezza che sia solo fiction.

Insomma, John Curran (esordio multipremiato con Praise, '98, l'ultimo lavoro è Stone, 2010 con Edward Norton e Robert De Niro) mantiene uno spirito newyorkese e non ci dice, al di là della sinfonia per immagini, il senso della vita riscoperto da Robyn Davidson sulle rotte di una via esiziale per il più rude dei Crocodile Dundee. Cosa ha scoperto nei sei mesi di esilio tra terra e, cielo? Forse Robyn ha ridisegnato la mappa, accuratamente segnata tappa dopo tappa, di un paese ancora suddito della regina d'Inghilterra? Un paese abitato da inglesi “bastardi”, senza grandi diritti, come ben sa il primo ministro Bob Hawke, leader del partito laburista, “licenziato” da Elisabetta nel 1991, l'unico che promise agli aborigeni il divieto di scalata turistica del monte sacro Uluru, e fu sbeffeggiato dalle compagnie di viaggi. Un paese che aspira a sognare, e non si accontenta delle formiche verdi.






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