venerdì 17 gennaio 2014

"La grande bellezza" perduta del cinema italiano

"La grande bellezza" di Paolo Sorrentino



di Mariuccia Ciotta

Febbre italiana lungo l'Hollywood boulevard, La grande bellezza è stato nominato nella cinquina dei candidati all'Oscar per il miglior film straniero, e la festa è già cominciata intorno al Dolby Theatre, aggregato monumentale in stile assiro-babilonese incastonato tra caffé, fast-food, catene di t-shirt, negozi di souvenir.
Frenetica e chiassosa, aspettando il 2 marzo, la festa, in realtà, è sempre in corso tra i corpi spintonati di milioni di turisti su e giù per il largo marciapiede losangelino dove si incontrano uomini-ragno, frankeinstein, pin-up in calze a rete, batman, marilynmonroe, maschere iperrealistiche che agganciano il passante e lo schiacciano tra muscoli tatuati, cosce variopinte, balletti selvaggi e risate per una foto ricordo... Oh, non saremo a Roma, davanti al Colosseo con i centurioni dalla corazza d'oro e il pennacchio a scopa? E già dentro il film di Paolo Sorrentino

Il Dolby Theatre a Los Angeles
  Il set è giusto per accogliere La grande bellezza, “metafora del declino italiano”, come ha scritto il New York Times, o al contrario della mancanza d'immagine, di un cinema non più metafora ma scatto fotografico da telefono digitale tra la folla globale del Dolby Theatre. Fotografia dell'assenza di visione.
Dov'è la forma critica dell'obiettivo di Fellini che riprendeva il salotto marcio romano con i suoi intellettuali sgangherati e cinici? La “dolce vita”, al di là del suo glamour internazionale, non indicava il languore festivo dello stile romano, ma l'anima corrotta e criminale della borghesia arricchita nel dopoguerra. La “grande bellezza” invece è solo segno di sé, aderisce in pieno senza uno scarto, senza un sussulto, alla sagoma del disincanto.
Sguardo illustrativo del panorama circostante, nani e ballerine da repertorio, grossi e grassi preti, prostituti e freaks, l'armamentario dejà vu sfila nell'orgia della Grande bellezza, dove non c'è un punto di vista sulla massa di carne in eccesso, e la macchina da presa ciondola inerte nei vortici subumani. 


Dov'è il barocco, che non indica un surplus di materia come scritto da alcuni, ma riconfigura lo spazio, segna vuoti e pieni materici? Niente barocchismi e niente formalismi. Magari. La dismisura spettacolare del film, “sformato” nell'accumulo di presenze, è il contrario dell'invenzione di nuovi percorsi visivi, una baldoria carnevalesca ossessiva, depurata dall'ossessione. Si zoomma sui fotogrammi, a sbeffeggiare l'arte di “Pollock” o di Abramovich, negazione dell'informe folle, evoluzione darwiniana senza lo slancio della vita.
Davanti al Dolby Theatre
Il problema non è che La grande bellezza registri la brutta Italia di oggi, affogata nel cinismo, svenduta e cialtronesca, ma l'essere al di sotto della sua mostruosità, incapace di trasmetterne errori e orrori, e di spiccare il volo immaginifico oltre il compiacimento del proprio degrado. Un film fermo in quel “cinema medio” che è cieco, anti-emozionale, decorativo. 
 

La candidatura all'Oscar, si dice, dovrebbe comunque inorgoglire e rendere più indulgente la stampa italiana che lo ha maltrattato alla prima di Cannes. A preoccupare, però, non è il consenso americano, gli elogi delle istituzioni, l'euforia dell'ambiente produttivo, ma la censura del pensiero critico verso il cinema e verso l'Italia. Nessuno dei due, cinema e vita, assomigliano al film di Sorrentino.
Il non-cinema e la decadenza putrescente del mondo occidentale devono affascinare la Hollywood Foreign Press, che l'ha premiato con il Golden Globe, e anche i colleghi dell'Academy, inebriati dall'istantanea di un paese che non sa più “vedere”.

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