lunedì 20 gennaio 2014

A proposito di Davis, ballata tenera. Esce nelle sale italiane il 6 febbraio il film americano preferito dai critici



Mariuccia Ciotta

I veri vincitori, anche se ombra, di Cannes 2013 (hanno vinto infatti il 'premio speciale' Spielberg, che ignorò Sorrentino e consacrò Adele, anche per ringraziare la Francia dopo la sconfitta morale di Lincoln agli Oscar)  sono stati i fratelli Ethan e Joel Coen con Inside Llewyn Davis, coproduzione Usa-Francia, ispirato alle memorie del folksinger Dave Van Ronk, scomparso prima di aver terminato il suo “diario”. 

Il film, che finalmente esce in Italia con il titolo di A proposito di Davis, ha avuto una buona accoglienza critica nel mondo, anche anglosassone. Ha vinto il premio come miglior film dell'anno assegnato dall'associazione nazionale dei critici statunitensi. Ma poche candidature di primo o di secondo piano ai Golden Globes (tre: miglior film musicale, migliore attore protagonista, Oscar Isaac, e migliore canzone), due agli Academy Awards (fotografia di Bruno Delbonnel e sound design) e tre ai britannici Bafta (sceneggiatura, fotografia e sound) . Per il momento, però, nessun altro premio.
Carey Mulligan e Justin Timberlake

1961, Greenwich Village, scena musicale del folk revival, prima di Bob Dylan che si lasciò affascinare da Van Ronk, e duettò con lui negli anni successivi. Un club dal pubblico incerto, il Gaslight Café, diretto da un certo Pappi Corsicato (un omaggio?), e un uomo solo alla chitarra, Llewyn Davis (Oscar Isaac, Agora di Amenabar, Che di Soderbergh) che, la voce è sua, intona una canzone triste del repertorio Van Ronk. Il film inizia così con tre minuti di esibizione (l'originale sentito alla fine è ben più vitale) e un seguito che sarà proporzionato agli applausi, pochi.

Scritto e diretto da Joel e Ethan, Inside Llewyn Davis mette in scena il “perdente” della tradizione yiddish, il “fratello fallito del re Mida che trasforma in merda tutto quel che tocca”, secondo la sua ex Jean Berkey, una Carey Mulligan appena uscita da The Great Gatsby, sempre temibile nonostante il cambio di colore, da biondina a furia dai capelli neri.

Tutti o quasi gli daranno addosso, compreso un tipo col cappellaccio che sbuca dal buio di un vicolo e lo massacra di botte, è un cantante della tradizione folk, al quale Davis ha sbeffeggiato la goffa moglie canterina. Inizio e fine, la scena si ripete prima dei titoli di testa, e il cerchio si chiude dopo un girovagare disperato tra canapé di fortuna e un viaggio sotto la neve, in giacchetta striminzita, verso Chicago e la speranza di un incontro con un manager di successo.

Van Ronk non era affatto un “loser”, ma un incorruttibile musicista alle prime armi, personaggio che i Coen trasformano nella metafora dell'artista incompreso, e afflitto da una dose massiccia di sfortuna, maldestro come Jerry Lewis e Woody Allen messi insieme. Llewyn Davis è il corpo stesso del film, una digressione nella carriera dei fratelli acclamati per il loro cinismo acido, e i “clin d'oeil” rivolti al pubblico, un film malinconico, spinto dalla nostalgia per l'epoca new beatnik del decennio 50-60, un film “loser”, probabilmente, al botteghino.


Eppure, il film è così tragicamente commosso per il destino del molesto Llewyn - infiltrato nelle case altrui, sempre a chieder soldi in prestito, padre ignaro di un bimbo di due anni, che credeva “abortito”, figlio della moglie del suo miglior amico - da infrangere il muro del cinema di maniera. Aiuta uno strepitoso John Goodman, enorme, perfido e claudicante, che “everettssloaneggia” attraverso la scena, secondo le indicazioni dei regista tanto per citare l'Everett Sloane della Signora di Shangai. E aiutano le punteggiature dell'umorismo ebraico sotto forma di freddure, a volte deja vu, e di caratteristi allampanati, surreali, malconci, e anche una gatta arancione che sfugge continuamente a Llewis per poi tornare tra le sue braccia e quindi tra quelle del legittimo proprietario, un amico che lo ha ospitato, nelle pelliccia di un gatto maschio.

Non mancano neppure le frecciate al cinema dei “buoni sentimenti”, che per i Coen assomigliano alle magnifiche commedie Disney di quegli anni, e alle quali finiscono per soccombere. Infatti, il tour del triste e testardo folksinger, il cui partner si è suicidato dal ponte George Washington, invece che da quello tradizionale di Brooklyn, tocca un momento di grande intensità quando, sulla strada fredda e buia di Chicago, una volpe, o forse il fantasma del gatto abbandonato, finisce sotto le ruote della macchina guidata da un sonnolento Llewis, che guarda nella notte un se stesso ferito e perduto. I Coen rinunciano anche ai loro ipercromatismi e si siedono al Gaslight Caffé nell'ombra delle ballate di Dave Van Ronk.

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