David Hemmings e le "modelle impietrite" |
Roberto
Silvestri
All’inizio
si intitolava Storia di un uomo e di una
donna in una bella mattina di autunno. Inizialmente il protagonista era un
pittore. Poi è diventato un classico del cinema moderno. Blow up. 1966. Londra. La storia di un fotografo di moda che scopre,
nascosto ai bordi di una sua istantanea, il cadavere di un uomo nel parco. Lo
inseguono per togliergli il rullino. Quel corpo poi scompare nel nulla….Terence
Stamp e Jane Birkin lasciano i ruoli di protagonisti allo squattrinato
teatrante off off David Hemmings e alla
aristocratica della scena e shakespeariana Vanessa Redgrave… Il pittore è
diventato fotografo.
David Hemmings in Blow Up |
E
il film? Più si percepisce, meno si
capisce. L’immagine non ci nasconde mai nulla, ma più svela e più distrugge
conformazioni, figure, forme, cartografie… E non stiamo parlando dell’immagine
tv. Quella che Godard chiama il visuale. L’immagine imprigionata e assassinata.
Banale e volgare. Menzognera e autoritaria. Ma di qualcosa che apre l’intero
sistema dei segni e dei sensi. E delle facoltà umane. E ti permette di
resistere alle “parole d’ordine” subliminali del visuale.
Buon
allievo di Spinosa, Michelangelo Antonioni si è sempre scontrato a pugni con il
reale: vedeva, identificava, guardava, scrutava e osservava. E si guardava guardare. Perché,
ricordava un immenso critico del secolo scorso, Enzo Ungari, “era
disinteressato alla realtà nel cinema
ma molto interessato alla realtà del cinema”.
Con
la realtà (del cinema, e delle sue
scaturigini, la fotografia) aveva un rapporto di scontro incontro penetrazione
attraversamento. Due accadimenti si ripetono di solito nei suoi film. L’avvenimento uno (un omicidio, un
suicidio, una sparizione) e l’avvenimento
due (che è omologo al primo, lo contraddice, lo conferma o lo ribalta).
Come risultato scientifico di questa ripetizione si scopre la natura e le
proprietà di una realtà sempre più opaca.
Il contrario del metodo Hitchcock. Lì,
dall’opaco alla messa a fuoco del senso. Siamo qui, invece, alla
disintegrazione dello spettacolo.
Un quadro di Ian Stephenson |
Credo
che Antonioni abbia preferito il cinema alla pittura perché gli permetteva di
guardare, vedere e osservare di più, attraverso il general intellect dei mille
occhi di una troupe e di un cast accuratamente scelti, e soprattutto grazie ai mezzi
ottici scientificamente sempre più perfetti (a imitazione delle sostanze
psicotrope) che toccano la superficie delle cose e passano oltre il verosimile,
l’informe, il deformato e l’astratto. Nel 1964 Antonioni scriveva:
“Sottoponendo la pellicola impressionata a un determinato processo di latensificazione
, si riescono a mettere in evidenza elementi dell’immagine che il normale
processo di sviluppo non basta a rivelare. Per esempio un angolo di strada
illuminato dalla luce debole di un faro risulta perfettamente visibile anche
nei particolari se la pellicola viene latensificata,
altrimenti no. La cosa mi ha sempre stupito. Significa – pensavo – che sulla
pellicola l’impressione delle cose debolmente illuminate dalla luce del fanale
c’è. C’è concretamente. La pellicola dunque è più sensibile della cellula
fotoelettrica. Forse la pellicola
registra tutto, con qualsiasi luce, anche nel buio, come l’occhio dei gatti,
come un apparecchio militare americano di recente invenzione, e soltanto la
nostra arretratezza tecnica non ci consente di rivelare tutto quello che c’è
sul fotogramma. Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più
fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra
sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta,
misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi
immagine, di qualsiasi realtà”…..
La modella tedesca Veruskha |
Il
reale cominciava insomma là dove il senso si ferma. Altro che alienazione,
incomunicabilità, esistenze inconsistenti e solitarie, o cercare di catturare il
volto e l’anima di una metropoli…. Tutti questi contenuti esteriori (“Zabrinsky Point non è una satira
dell’America feroce nixoniana, come Il
ristorante di Alice, Easy Rider, Medium cool e More, semmai è la luna vista
dall’America”, sempre Ungari) erano la cornice di una superfice riflettente
e specchiante il cosmo (che disperde i contenuti, per chi abbia voglia di
rincorrerli: da qui l’umorismo slapstick del procedimento di un autore più
comico di quanto si pensi). Antonioni voleva dipingere senza essere un
pittore. Come un poeta “è un uomo che
scrive senza essere uno scrittore” (Cocteau).
Una foto sociale di McCullin |
Tre millimetri al giorno è il film di Jack Arnold che più mi fa pensare al film
teoricamente più cristallino di Antonioni, appunto a Blow up, che superò d’un colpo realismo (anche non socialista) e
neorealismo perché come scrisse Robbe Grillet contrapponeva alle ideologie che
fissano la realtà e la imprigionano in schemi alla realtà “aperta”, vitale, in
mutazione, cangiante, astratta, rock, rivoluzionaria, impossibile da ridurre al
senso unico.
Il
senso è impossibile da fissare anche se abbiamo visto tutto. E più abbiamo
percepito più siamo aperti a ogni genere di significato possibile, più siamo
lavoratori dell’Immaginario (e più si capisce più l’immaginario diminuisce). Insomma
sarebbe proprio causata da un suo
colpevole incipit la nascita del cosiddetto cinema del reale…. quel documentarismo d’azione e d’anatomia sociale
che esplora le incertezze di chi si guarda guardare, più che incantarsi nel
catturare il visuale. Tema. La mucca. Allievo Jean-Luc Godard. Testo. “La mucca
è composta da un esterno e da un interno. Se togli l’esterno resta l’interno.
Se togli l’interno resta l’anima” (Vivre
sa vie). Il cinema moderno è animista. Blow up, un primissimo piano
sull’anima. E oltre. Si occupa dell’anima delle cose. E non c’è esplorazione
più materialista di catturare il respiro e l’energia della swinging London di
Jeff Beck, di Mary Quant, della boutique di moda “Granny takes a trip”, della
galleria d’arte di Barry Miles, delle foto fashion di David Montgomery…
Il fotografo David Montgomery |
Ho
fatto tutto questo pippone perché in un bellissimo doc su Blow up (Palma d’oro 1967, e lo rivedremo restaurato tra qualche giorno
a Cannes 70), che sembra tradizionale, format Bbc, si costruisce invece senza
menarsela troppo proprio quello bel buco nero, questo vuoto di senso. E non si
riempie affatto, anzi.
Attraverso
splendide interviste (tra gli altri, ai cineasti Clare Peploe, Piers Haggard e
Andrew Sinclair; al manager degli Yardbirds e indirettamente dei Led Zeppelin
Simon Napier-Bell; allo storico della fotografia Philippe Garner; alla modella
Jill Kennington; alla vedova di Stephenson, Kate), tutte con perfetti raccordi
sull’asse, un po’ di girato ex novo significativo, a darci la cartografia
dell’evento, foto mozzafiato, una bella partitura musicale “a tema” e qualche
indimenticabile sequenza del film, ecco che si cattura, tra Kings Road e Prince
Place, Edith Grove Road e il Marion Park, il set, anche mentale, di Antonioni (e oggi completamente
gentrificato). La meticolosa “radiografia sociopsicologica” dei fotografi di
moda più alla moda; la difficoltà di comunicazione per il suo inglese non
perfetto; la geometrica sicurezza, però,
nel trovare e usare gli spazi giusti e nel rapporto, anche inquietante, con gli
attori; l’attrazione fatale per il lato oscuro e menzognero del mercato
discografico e del divismo. Quel differente, inedito “sentimento del reale”,
come Moravia spiegò quel differente “touch”
nel fare cinema saggistico/narrativo, di storie che raccontano il loro
prodursi, come nella scrittura dei nouveau
roman. Ma ecco che, sul più bello di
una di queste interviste, si scopre che Antonioni ha tolto qualcosa dal suo
film più alla moda della sua carriera, per i vestiti, la musica, le foto,
l’arredamento, l’erotismo. Via la scena della chiacchierata tra Hemmings e uno
scrittore. Avrebbe spiegato il senso del film, facendo decifrare un testo così
complesso e misterioso, pieno di simboli, anche se concreti perché nascono
dall’oggettività dei personaggi. E resterà più ostico ancora de L’Avventura, Professione Reporter e Deserto
rosso.
Un quadro di Richard Hamilton, artista della pop art britannica |
Blow up su Blow up è il titolo di questo bellissimo documentario prodotto
quest’anno da Minimum Fax e da Sky Arte che la giornalista e studiosa friulana
Valentina Agostinis (già autrice di un fondamentale libro su Tina Modotti) ha
sviluppato, dopo un lungo soggiorno nella capitale britannica, da un suo acuto
e accurato saggio del 2012 sulla lavorazione del classico di Michelangelo Antonioni
girato a Londra (in Italia con la Santa Sede imperante la censura non avrebbe
mai tolleraro certe scene). Attraverso Clare e Mark Peploe Antonioni viene
introdotto nei locali, nelle gallerie, nei club e negli atelier a ridosso col
british rock e gli “assoluti principianti” (di cui Blow up sarà senza troppo volerlo specchio lisergico), della
rivoluzione nella moda (ha colorato la grigia e plumbea atmosfera ereditata da
ben quattro tremendi governi conservatori, fa capire Clare Peploe), nella vita
(la minigonna, la libertà sessuale, le droghe, le comuni…), nello stile (attraverso
lo ska era entrata nel modo di vivere britannico la gioia di vivere danzando
delle culture West Indies) e nell’arte (“la musica che rompeva le orecchia”,
scriveva Tonino Guerra, ma anche la pop art di Richard Hamilton, i corpi che
più anoressici non si può delle top model Jean Shrimpton, Peggy Maffit e
Melanie Hampshire; i Rolling Stones che adoravano oltre a Dylan anche Dylan Thomas;
i fotografi e i grafici che reinventavano il look e la pubblicità, Paul
McCartney che seguiva le eccitanti mostre d’arte della libreria Indica e girava
home movies underground; le istantanee glam&social di Michael Rainey, David
Montgomery e Don McCullin…). E non a caso lo aveva intitolato Swinging City - Londra centro del mondo perché
in quel momento perfino Jimi Hendrix non poteva fare a meno di raggiungere la
scena musicale londinese, rabbiosa e deliziosa, capace di proseguire sulla
traccia di Presley e dei bluesmen statunitensi adorati, per non essere tagliato
fuori dalle scoperte più avanzate del momento. Valentina Agostinis ha vissuto a
Londra gli anni settanta che ancora scodellavano le energie antagoniste di quel
decennio, fino all’esplosione “barocca” del punk. E il suo montaggio
disincarnato, dove niente è orpello e tutto materia incandescente, dimostra che
la lezione di Sid Vicious non è passata invano. Anche standard come My Way o Blow up possono rivivere se se ne deformano la melodia e l’armonia
per evidenziarne con amore i buchi e i vuoti fertili.
ps. Per chi non è abbonato a Sky per ora l'unico modo per vedere il documentario Blow up su Blow up di Valentina Agostinis è acquistare, via Amazon, il dvd edito da Criterion. Certo è un dvd da area americana, ma su qualunque pc si può vedere se non è anocra fissato sull'area europea. In ogni caso teniamo aggiornati in caso di proiezioni.
ps. Per chi non è abbonato a Sky per ora l'unico modo per vedere il documentario Blow up su Blow up di Valentina Agostinis è acquistare, via Amazon, il dvd edito da Criterion. Certo è un dvd da area americana, ma su qualunque pc si può vedere se non è anocra fissato sull'area europea. In ogni caso teniamo aggiornati in caso di proiezioni.
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