Roberto Silvestri
Cannes
Da 5 anni la
Quinzaine des realisateurs ha la sua 'talent school'. E tra i 32
cineasti in erba scoperti finora, molti hanno già realizzato il
primo lungo, come Rungano Nyoni, cineasta dello Zambia, che presenta
proprio alla Quinzaine I am not a Witch dopo
avere concorso agli Oscar con il suo corto Listen.
Waintrop e soci producono e sostengono giovanissimi cineasti di tutti
i paesi del mondo, finanziando quattro cortometraggi all'anno
realizzati beneficiando di identiche condizioni tecniche e di budget
(45 mila euro). Si tratta di film ibridi (di regia doppia e, fatto
davvero controcorrente in questo delirio di sovranismo imperante, di
diversa nazionalità), per lo più “politici, polemici e
umoristici”, di 15 minuti fatti così: una settimana di
preparazione, 5 giorni di riprese, 5 giorni di montaggio e 10 di post
produzione. Il tutto con l'assistenza di un regista esperto
(francese), delle autorità cinematografiche locali (quest'anno la
Fondation Liban Cinema) e con la certezza di avere una vetrina
mondiale d'eccezione, il Theatre Croisette proprio nei giorni del
festival. Dopo Taiwan, la Scandinavia, il Cile e il Sud Africa (che
quest'anno scodella una serie notevole di film nel Mercato), è
infatti la volta del Libano, fiorente industria del cinema negli anni
50 e 60, specialità la commedia e il thriller, poi scomparso dalla
cartina geografica di Cannes perché le guerre incivili (e per lo più
congegnate all'estero) hanno anche questo compito e obiettivo
artistico, spazzare via i piccoli stati per lo più modello di
pluralismo culturale e cosmopolitismo religioso (Palestina, Libano,
Jugoslavia, Yemen, Siria, Iraq, Algeria, Libia, Afghanistan.....).
Oltre che radere al suolo tutto il resto. Quest'anno la Quinzaine è
andata a Beirut a scegliere tra i vari progetti quelli più
accattivanti e abbiamo così visto opere che navigano stranamente tra
due estetiche, almeno, come il buffo apologo neosurrealista White
Noise di Ahmad Ghosswein (Libano) e la cineasta di origini
italiane Lucie La Chimia (Francia), sulla prima notte di lavoro di
una guardia di sicurezza, un po' maldestro e un po' bigotto, che ha
come compito quello di vigilare un viadotto cittadino ma che non si
accorge che un pezzo di ponte glielo portano via sotto il naso perché
distratto da un vecchietto inacidito e sguaiato che cerca
disperatamente e inutilmente di gettarsi dal ponte ma che si rialza
illeso ogni volta. L'apocalittico e semiwestern spaghetti El Gran
Libano di Mounia Aki (Libano, studi a New York) e Ernesto
Villalobos (Costarica) è girato fuori Beirut, ai bordi di un
laghetto inquinato, e racconta lo scontro incontro (dopo 12anni) di
una fratello ubriaco e una sorella esageratamente previdente (che si
porta dietro, come fossimo in un film di Sergio Corbuccia, la cassa
da morto per il fratello sempre ubriaco fradicio); l'incubo kafkiano
dell'emigrazione impossibile Salamat from Germany di Rami
Kodeih (Libano) e Una Guniak (Bosnia Erzegovina) e Hotel El Naim
di Shirin Abu Shaqra (Libano) e Manuel Maria Perrone (Svizzera
italiana), il più misterioso di tutti, protagonista una piovra la
cui intelligenza e sensibilità nulla può contro la fantasia crudele
e subdola dell'uomo, virtù odiosa che ci ha permesso la
sopravvivenza.
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