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giovedì 20 settembre 2018

Mostra di Venezia 75. Cuarón, un Leone all’unanimità


DA ALFABETA2 
9 SETTEMBRE 2018 


Roberto Silvestri

Mai un Leone d'oro è stato meno contestato. Mai è stato anticipato da tanti unanimi apprezzamenti internazionali. Il film messicano Roma di Alfondo Cuarón, autobiografia “da cucciolo”, e non solo, del regista, montatore, sceneggiatore e produttore, ha vinto senza polemiche o fischi o insulti la Mostra di Venezia 2018.
Roma produce uno tsunami di emozioni estetiche immediate, potenti e originali. Come se fosse l'antidoto, spettacolarmente corretto, ai Marvel movie. Qui esci dal cinema (anzi dal tuo megaschermo domestico, perché è un prodotto Netflix) sentendoti un super eroe e non più schiacciato dalla potenza dei superpoteri altrui. Rimetti in sesto il sistema sensorio, ogni facoltà percettive. Come una droga digitale alla carnitina che inietta più sensibilità umana, più acume politico e più capacità di collegare le due cose.
Il fatto che siano stati premiati, a margine, due para-western claudicanti (Audiard e i Coen) e altri tre film storici in costume (il Van Gogh, il diavoletto della Tasmania di Nightingale e La favorita) che deragliano verso emozioni “di genere” troppo messe a fuoco (l'agiografico, lo splatter etnocolpevole, la parodia encomiastica) sembrerebbe invece una indicazione antitetica, a parte le qualità performative sofisticate di Willem Dafoe e di Olivia Colman. Sulla stessa linea di Roma metterei invece i dimenticati dal palmarès: La quietud di Trapero, (neppure messo in concorso), i tre ottimi film italiani, e soprattutto Suspiria, né horror né pamphlet politico, folgorante immersione nel cinema e nella rivoluzione totale; The Mountain, troppo odiato da tutti per non possedere qualità visuali e concettuali premonitrici; l'Arpa birmana di uno Tsukamoto che purifica le sue forme fino all'essenziale; Peterloo, ovvero come tornare alle origini del Capitale di Marx per bastonare Trump, e Vox Lux che di ogni parodia, di ogni agiografia e di ogni attrazione splatter è la critica. 
Film eccitanti, non antidolorifici. Solo così si è competitivi nell'immaginario. Rischiando di perdercisi, come questo Nemes ancora più presuntuoso del precedente.
Torniamo a Cuarón. L'autore (cittadino onorario di Pietrasanta, Toscana, perché la sua ex moglie è italiana) ha raccontato in bianco e nero e tensione espressionista il quartiere Colonia Roma di Mexico City (le gite al mare, il cinema e la passione per la fantascienza, le lunghissime auto americane, la famiglia agiata e poi in crisi economica, le donne di servizio indios, il massacro del Corpus Christi) con la nostalgia un po' lisergica di chi aveva nel 1970 dieci anni, subiva già i traumi, molto ravvicinati, di un regime stragista e corrotto e di un papà irresponsabile e ancora doveva diventare il director di film di successo internazionale come Anche tua madre, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban e Gravity.
Si è detto che Roma (notare il furto di un titolo felliniano) è l'8 e ½ più Amarcord latino americano, e la libertà di fraseggio è identica, ma il concept è opposto. Lo sguardo in soggettiva sugli avvenimenti esistenziali (quasi una morte per annegamento suo e dei suoi fratelli) e sui fatti storicizzati dell'era riformistico-criminale di Echeverria, ormai patrimonio dell'immaginario collettivo, come in un quadro di Bacon si complica, viene contorto e distorto da una sovrimpressione proibita finora, dallo sguardo obliquo e avulso e altrettanto consapevole della sua adorata tata, del sottoproletariato inurbato delle campagne, e, come in Sissignora di Poggioli, o Le noire de di Sembene Ousmane, o Diario di una cameriera di Bunuel, diventa “scandalosamente” il centro di gravità della storia. Soprattutto perché come quella tata centinaia di migliaia di messicani poveri sono rispediti oltre muro e separati dai figli da Trump per salvare qualche briciolo di Pil e le promesse anticostituzionali elargite ai suoi selvaggi elettori.
Un film di 135' che poteva essere molto, molto più lungo. E probabilmente lo è. Come quello di Martone, che ha evidentemente tagliato la sua versione originale per non debordare pericolosamente, come 22 luglio sulla strage di giovani socialdemocratici norvegesi e Opera senza autoredel pittore della Germania Est perseguitato ancora dai nazisti. Come La favorita. Sunset di Nemes.  O Nightingale. Il cinema va disperatamente verso il racconto lunghissimo e dettagliato. Che esce ed entra da costellazioni di genere. Lo aveva ben anticipato il regista filippino Lav Diaz, un insuperato e dimenticato vincitore della Mostra perché il suo film non ha incassato e non è uscito (neppure su Netflix). Anche se oggi tutti lo imitano (e Kluge è andato proprio in Filippine a risciacquare i suoi panni) e incassano. 
Forse un prestigioso festival internazionale deve stare attento a non confondere i suoi film con le serie tv che di troppa (e finta) libertà narrativa moriranno.
Da quando non ci sono più nelle giurie dei mega festival i critici, gli storici del cinema e le personalità planetarie di grande prestigio culturale (e fragile risonanza mediatica), ma solo cineasti per lo più di origine occidentale, colleghi dei premiandi, a copiare il modello Oscar, i premi si stanno talmente svalutando come indicazione potente di “altro mercato”, che a stento si ricorda chi ha vinto Cannes 2015, Berlino 2016 o Venezia nel 2014. 
Così la Mostra d'arte di Barbera ha avuto l'astuzia di far presiedere la giuria 2018 proprio dal vincitore dell'edizione passata, il messicano Guillermo Del Toro, poi Academy Award con il fantastico fantapolitico La forma dell'acqua, a sottolineare la “via della seta” che deve collegare da ora in poi il Lido alla cerimonia del Dolby Theatre di Los Angeles. Anche la scelta di aprire le gare con il nuovo Chazelle, il lungo ricalco di Apollo 13, First Man va nella stessa direzione. Se una sola regista ha vinto l'Oscar, la statistica dice che è meglio non portare in gara troppi film diretti da donne. Soprattutto perché la maggioranza proviene da paesi lontani e statisticamente poco premiabili. E restringere così all'area angloamericana i confini della competizione e i paesi di origine della giuria. Muri che speriamo verranno fatti brillare da Barbera e dai suoi esperti che possono essere soddisfatti a metà del loro lavoro.  In particolare per la scelta del giurato italiano, che non era certo chiamato a favorire il cinema di bandiera, ma il buon cinema.  
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Mostra di Venezia 75. Mike Leigh e il massacro di Peterloo. Sembra oggi....

Alle origini del Manifesto di Marx e Engels, il massacro di Peterloo
Roberto Silvestri
Piacerà molto a Mario Tronti quest'opera su Manchester, le origini della rivoluzione industriale e perché è lì, in quel pezzo d'Inghilterra che si anticipa sempre il futuro del Regno Unito. Piacerebbe molto anche a Foucault. E a tutti quelli che temono il mondo quando è governato da politici e funzionari pubblici clinicamente fuori di testa anche perché il capitalismo che pretende per sovravvivere carestie e disoccupazioni è per definizione “fuori di testa”. Inoltre. È quasi il prequel del Giovane Marx di Raoul Peck, perché fu a Manchester che Engels studiò le fabbriche tessili e la formazione del proletariato antagonista. Infine: è un prodotto British Film Institute. La signora May non controlla dunque in modo ferreo, come Thatcher, il cinema pubblico. Meno male.
Nord-ovest dell'Inghilterra. Poco dopo Waterloo. L'odore della Bastiglia terrorizza il re Giorgio III degli Hannover, all'ultimo stadio della pazzia e attorniato da funzionari funzionali al suo squilibrio mentale. I giudici condannano a morte i piccoli ladruncoli e spediscono in Australia ogni testa calda. L'habeas corpus viene sospeso. I “riot act” contro i facinorosi reprimono ogni minacciata sovversione. Il “Corn act”, trovata protezionistica che sbarra con i dazi il grano di esportazione, fa lievitare il prezzo del pane. Vi ricorda qualcosa? I “media” dell'epoca trasformano una patata gettata contro la carrozza del re in un pericoloso attentato con armi da fuoco... Le truppe di Wellington sono riciclate in un esercito per la repressione e la controrivoluzione interna.
Il film, lungo ma incalzante, è filologicamente impressionante, più che perfetto nella recitazione, nei set e nel ritmo e radiografa spietatamente cos'è e com'è il “comitato d'affari della borghesia” al lavoro. Insomma siamo vicini allo spirito della “Comune di Parigi” di Peter Walkins. Peterloo racconta un momento chiave, ma rimosso, e purtroppo ancora attuale, della storia britannica. Il massacro avvenuto in localita St.Peter's Field – sarcasticamente poi rinominato “Peterloo” in assonanza con Waterloo – del 16 agosto 1819. Un gigantesco corteo pacifico di operai e operaie tessili del Lancashire in sciopero, perché impoveriti dalla crisi, e dalle leggi ad hoc che la fanno pagare ai più deboli, viene infoltito da una moltitudine di famiglie contadine e artigiane infuriate di tutta la zona. In prima fila sindacalisti, stampa e donne organizzate (dalla zona di Manchester usciranno le grandi figure di suffragette e rivoluzionarie, dalla compagna di Engels Mary Burns a Emmeline Pankhurst). La piazza della capitale industriale del mondo (sulla cui classe operaia Engels scriverà le sue prime controanalisi) è piena zeppa. 80 mila cittadini ascoltano il leader riformista Hunt pretendere, con forbita oratoria londinese, pane e suffragio universale, visto che quella popolosissima zona del paese manda solo rappresentanti eletti da notabili. Il solito gioco di squadra tra prefetti, re, polizia, provocazioni spionistiche, intercettazioni illegali, magistrati e padroni, isolata l'ala estremista del movimento, e chiede la reporessione armata che sarà facilitata anche dalle solite “rigidità etiche” dei moderati di sinistra di origine borghese... La moltitudine è dispersa a sciabolate dell'esercito per impedire l'incubo di una insurrezionale “alla francese”. Quindici i morti e oltre 600 i feriti. Questa è la fotografia in 4k della democrazia liberale più invidiata al mondo. I cinesi l'hanno perfettamente incorporata in piazza Tienamen. Il cineasta Mike Leigh, veterano del cinema di combattimento ci mette più cervello e cuore, questa volta. Perché è di Manchester. Racconta un po' delle sue radici. E rivede in quella criminale e odiosa operazione di “pulizia etnica” la stessa anima razzista utilizzata oggi dai Ceo delle multinazionali contro i proletari vaganti del mondo.
Peterloo
Regia: Mike Leigh (concorso)
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Mostra di Venezia 75. La visione triadica di Luca Guadagnino



dal alfabetaq2 1 SETTEMBRE 2018 

Venezia 2018 / “Suspiria”



Roberto Silvestri
Come Joe Dante e Jean-Luc Godard, Luca Guadagnino viene dalla critica e ogni suo lavoro, perfino Chiamami col tuo nome (che si confrontava con il sistema James Ivory) è un crito-film, cioé un esplicito lavoro di tatuaggio che lui e il suo montatore d'affezione, Walter Fasano, compiono su testi prediletti o di ossessiva o demoniaca “forza” per abbellirli, adornarli, chiosarli, cancellarne parti e criticarli, “costruttivamente” o “distruttivamente”. Questa anomala mancanza di spontaneità narrativa, il meditare, anzi concettualizzare sulle immagini-suono, sulle immagini-spazio e sulle immagini-sguardo hanno reso problematico il rapporto con una parte di pubblico, soprattutto italiano, che considera questo procedimento di arrangiamento da “cover” una “frivolezza floreale” (e Io sono l'amore un sotto Visconti, o “Melissa P” un sotto Jarman). Siamo abituati, se pigri, più ancora degli spettatori americani, a non giocare con le immagini potenti, a non contribuire al finish artistico libertario di un film, ad affidarci invece completamente alla potenza delle immagini (come ai politici), che siano forti e autoritarie, che non ammettono ulteriori “decostruzioni”. Invece il lavoro “futile” di Guadagnino sui testi è la novità estetica più interessante degli ultimi anni. Uso il temine futile nell'accezione etimologica latina. La crepa, la rottura del vaso che fa fuoriuscire il liquido. Fertilizzandoci il cervello. Che dal soggetto di Argento e Nicolodi, ispirato a sua volta a Wedekind di Mine-haha, la scuola di danza per adolescenti che nasconde segreti insostenibili, si possa rifondare, tramite incrinatura del vaso, il nostro rapporto con la memoria antica (la shoa) e più recente (la guerra civile e anti imperialista in Germania degli anni ’70) conferma la grandezza culturale di quel movimento artistico degli anni ‘60 e ’70. L'arte concettuale appunto, antisessista, antirazzista e antiautoritaria, alla quale Guadagnino questa volta esplicitamente si rivolge. Stelarc, le “tette a portata di mano” di Valie Export, l'eco-arte di Beuys, i giochi attici di Pascali, le sfere anti-securitarie di Sergio Lombardo, gli akzionisti e le akzioniste austriache (non quelli della finanza), le orge di sangue di Otto Muhl, i corpi martoriati e suicidi di Rudolf Schwarzkogler, le schizo-passeggiate di Brus con l'anima divisa in tre, per dire un grande sì alla vita nonostante possenti e subdole aggressioni arrivassero da ovunque, caccia bombardieri in Vietnam, carri armati in Israele, eroina nelle metropoli, molestie e oltre alle donne... ecco tutto quel che ritroviamo in questo grandioso e inquietante film “triadico”. Nel senso che lavora sul corpo terragno, sul corpo roteante e sul corpo librante. Mano. Piede. Spirito? Lavoro. Fuga. Ascesi. Se si è terrorizzati come si fa a non essere terroristi? Ritrovando, nell'era digitale, il contatto. Il tatto. Il senso “comune”. Non poteva mancare dunque nel film la foto di un cineasta che quei tempi ha scolpito, il militante comunista nonché grande cineasta Holger Meins, che fu l'unico che davvero si suicidò fino alla disincarnazione totale, della Baader-Meinhoff, offrendo il proprio corpo come Pasolini, in pasto al Moloch, per evitare ulteriori catastrofi. Le “tre madri”, appunto, che si contendono non senza spargimento di sangue il controllo del simbolico, strappandolo al fallocentrismo che “ha tante colpe e tante vergogne” da scontare (non dimentichiamo mai che a Guadagnino si deve l'unica riflessione cinematografica del nostro razzismo criminale all'opera in Etiopia, in un paese che lo ha rimosso completamente, perfino dalla parte progressista). L' immersione dentro il testo cult come la cattedrale horror di Dario Argento dunque è riuscita. Grazie a un cast impeccabile e a danze e musiche che più che a Bausch rimandano a gesti, movenze, e rigidità da karate. Più a Chuck Norris che a Bruce Lee. Tranne, nel finale, addolcirsi. Flashdance. Spielberg.
Suspiria
Regia: Luca Guadagnino
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Mostra di Venezia 75. Roma, la Storia si chiama Cleo




DA ALFABETA2 30 AGOSTO 2018 

Venezia 2018 / “Roma” di Alfonso Cuaron

Mariuccia Ciotta
Al Lido il film rifiutato da Cannes, Roma di Alfonso Cuarón targato Netflix e che gli Studios produttori del suo Harry Potter non avrebbero mai finanziato. Bianco e nero in memoria autobiografica degli anni Settanta, quando Alfonso era un bambino. La Croisette sdegnosamente non prevedeva una doppia diffusione, rete e grande schermo. Meglio così per la Mostra che sfoggia in concorso, dopo un inizio barcollante nello spazio, l'opera di uno dei “tre amigos” fondatori della Cha Cha Cha Films, ovvero oltre a Cuarón i connazionali messicani Alejandro G. Iñarritu e Guillermo Del Toro, Leone d'oro e Oscar per La forma dell'acqua, e presidente della giuria che giudicherà Roma. 
Roma è il nome di un quartiere della media borghesia di Città del Messico, dove si svolge l'azione, nella casa del regista, mobili, librerie, soprammobili autentici e anche, meticolosamente viscontiano, il contenuto dei cassetti. Alla ricerca del tempo perduto che torna in un folgorante presente. Il filo narrativo lo tiene in mano Cleo (Yalitza Aparicio), la domestica della “famiglia felice” con quattro ragazzini e un cane. Sguardo sbilenco e anti-celebrativo, prospettive dalla cucina, ai margini della storia, così inanellata emozionalmente da inventare una realtà già passata.
Cleo e la signora Sofia (Marina de Tavira) vedranno i loro uomini dissolversi nella polvere messicana. Uno con la sua macchina oversize, che entra a malapena nel cancello di casa, se ne andrà con l'amante ad Acapulco, la città perversa di La signora di Shangai, l'altro abbandonerà Cleo incinta. Due facce nere del Messico di Echeverria, da un lato il “padrone” e dall'altro la manovalanza fascistoide al servizio della borghesia nera, il “fidanzato” di Cleo, Fermin (Jorge A. Guerrero), cultore delle arti marziali, arruolato nelle fila dei Los Halcones, i Falchi, gruppo paramilitare di estrema destra, sostenuta dalla Cia, che il 10 giugno 1971 replicherà il massacro degli studenti avvenuto nel '68. La polizia non intervenne, più di cento studenti uccisi. 
Il giorno di El Halconaro è ricordato dal bambino Alfonso, dieci anni, in un negozio di arredamento, quando Fermín e i suoi camerati inseguirono uno studente e gli spararono in testa. Cleo lo guarda uccidere, Cleo partorisce una bambina morta, Cleo salva dall'annegamento oceanico i bambini. E tutto passa nei suoi occhi, presenza oscurata dalla vita degli altri e che Cuarón restituisce alla centralità del racconto, unica verità nella penombra. 
Lei, la “sguattera” india, come la ricorda il bambino che sarà il visionario regista di Gravity, ispirato da Abbandonati nello spazio di John Sturges, visto allora in un cinema di Mexico City. Roma ricorda Y Tu Mama Tambien, quel vagabondare tra le cose ai margini, insignificanti dettagli di un'esistenza senza carta di identità. Quando Cleo è ricoverata in ospedale per il parto, nessuno conosce i suoi dati anagrafici, nemmeno il suo vero nome, che la figlia non avrà mai, cadaverino immobile in secondo piano, sullo sfondo della camera operatoria.
Roma
Regia: Alfonso Cuarón




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Mostra di Venezia 75. “Shadow”, le ombre lucenti di Zhang Yimou

DA ALFABETA2
Mariuccia Ciotta
La superficie argentata delle lame in un turbinio rotante di ombrelli taglienti, la discesa voluttuosa lungo una strada bagnata di pioggia, l'eleganza delle vesti volteggianti e leggere... Shadow (Ying, fuori concorso) è ancora nella coreografia sognante della XXIX Olimpiade firmata Zhang Yimou, il regista cinese di Lanterne rosse, La storia di Qiu Ju, Non uno di meno.
Rivisitazione del genere wuxia nella Cina dei Tre Regni in forma stilizzata con abiti e interni che condividono lo stesso cromatismo, stoffe bianche schizzate di inchiostro. Effetto bianco&nero, e almeno 50 sfumature di grigio. Le controfigure dei nobili cinesi si chiamano “Ombre”, sosia dei loro signori che vanno a morire al loro posto, e che la Storia ha dimenticato. Il potere assoluto dei re e dei militari si sgretola nel melodramma “cappa e spada” di Zhang Yimou che sostituisce alla filosofia della forza, dell'intrigo e del tradimento, la tecnica femminile della lotta. Guerrieri muscolosi e lance giganti, corazze e spade, re crudeli e capricciosi saranno battuti da una danza serpentina, dal movimento ondulatorio che costringe i combattenti a un balletto in stile Les Parapluies de Cherbourg.
Solo Zhang Yimou poteva capovolgere l'estetica del supereroe con tanto humour, e mettere in scena l'amore tra la Signora e l'Ombra, colui che non esiste, la “copia” del potente. Un'altra donna, offesa dalla richiesta di far da concubina per una alleanza tra Regni, si vendicherà in omaggio a Duello al sole. Scontri armati, sangue, battaglie epica... eppure Shadow sembra girato tutto in studio, dietro paraventi e pannelli trasparenti, scrigno di luci e oscurità. Vertigine emozionale, rimbombi elettrici provenienti da un'arpa-tastiera che diffonde suoni heavy-metal. Ma soprattutto in scena la trasformazione della guerra in musical.
Shadow (fuori concorso)
Regia: Zhang Yimou
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Mostra di Venezia 75. Una strage neonazi. "22 luglio" di Paul Greengrass

DA ALFABETA2       

Il 22 luglio a Utoya
Mariuccia Ciotta
La parola “shoot” per Paul Greengrass, vuol dire una cosa sola, spara. L'atto di girare, infatti, ha il suono della mitragliatrice per il regista britannico che con 22 July (concorso) aggiunge un altro massacro alla sua filmografia fatta di attentati terroristi, guerre e rapimenti (Bloody Sunday, United 92, Green Zone, Captain Phillips, Jason Bourne).
Era l'estate del 2011 all'isola di Utoya, un campus organizzato dal partito laburista norvegese accolse centinaia di ragazzi dai 10 ai 20 anni, festosi nelle immagini del film prima dell'arrivo alle 15,25 di Anders Behring Breivik, 32 anni, sovranista di estrema destra che sparò e uccise 69 di loro e ne ferì 110.
Netflix presenta l'ennesimo titolo della Mostra, che però, al contrario di Roma di Cuarón sembra confezionato a misura del grande mondo digitale, un film di “genere” diretto da un regista muscolare che ha trovato la sua fortuna nel docu-dramma.
Livido il cielo di Oslo quando il furgone carico di esplosivo devasta il palazzo dove ha sede il governo e l'ufficio del primo ministro laburista Jens Stoltenberg, 8 morti, 209 feriti. Lo vediamo, Breivik (Anders Danielsen Lie), preparare l'esplosivo, caricare le armi, indossare una divisa da poliziotto, sfuggire lo sguardo della madre, partire verso il centro della città e poi dirigersi verso Utoya. Anzi, seguiamo Breivik passo dopo passo con il gusto di essere a fianco dell'assassino, mentre all'opposto in Massacro in Norvegia, io c'ero, documentario a cura del National Geographic Channel, “io” è la vittima.
“La storia è realmente accaduta” ed eccola in “diretta”, una telecamera riprende il killer che si fa traghettare nell'isola e poi spara con freddezza, punta e spara mentre avanza tra gli alberi. I ragazzi fuggono, urlano, piangono e si nascondono. Il punto di vista si capovolge, uno studente gravemente ferito, Viljar (Jonas Strand) diventerà la controparte narrativa del killer. Il buono e il cattivo.
Greengrass assicura di aver chiesto e ottenuto il consenso delle famiglie, e parla di “moderazione” per le scene più cruente di 22 July tratto dal libroUno di noi: La storia di Anders Breivik della giornalista norvegese Asne Seierstad. Ed è proprio la moderazione a disinnescare ogni “scandalo”. L'emozione si fa voyeur e il film si sterilizza nel formato telefilm, non certo perché manca il sangue. Il film oscura i fatti, la carica dei neonazisti che Breivik rappresenta, adepto dei Cavalieri Templari, in missione per ripulire la Norvegia dagli immigrati, responsabili della “distruzione della cultura norvegese”. Ambiguità del killer che prima si proclama pazzo e poi innocente perché ha agito in nome della patria (sarà condannato a 21 anni di carcere, il massimo per la legge norvegese). Isolato, un tipo eccentrico, fiero patriota che ce l'ha con i “marxisti, i liberali e i figli dell'élite”, il Breivik di Greengrass non ha parenti tra i sovranisti di oggi, i neonazisti europei che dilagano, e in Svezia minacciano di vincere le elezioni. Durante la proiezione di 22 luglio, Steve Bannon, l'ideologo della destra trumpista, protagonista di America Dharma di Errol Morris, è stato avvistato in giro per il Lido. Ma a vedere la reazione dei festivalieri, nessuna – a parte qualche protesta durante la conferenza stampa di Morris – forse era solo un fantasma.
22 July (in concorso)
Regia: Paul Greengrass
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Etichette: Anders Behring Breivik, Anders Danielsen Lie, Asne Seierstad, Paul Greengrass

Mostra di Venezia 75. Il montaggio controverso di The Other Side of the Wind

da ALFABETA2 
Orson Welles, il vento dell'Est
Roberto Silvestri
Attorniato da produttori scettici, fan entusiasti e critici velenosi, il settantenne regista di culto J.J. Jack Hannaford (John Huston) torna a Hollywood dall'Europa e gira un film “alla moda”, pieno di sesso, nudi, droga e avventura, che dovrebbe rilanciarne la carriera. All'anteprima “spezzettata” (in saletta privata, in una villa sulle colline e al drive in) giornalisti, biografi, produttori, fotografi, nani e colleghi festeggiano i suoi 70 anni, ma il giovane attore protagonista del film è appena morto in un incidente d'auto e un mistero avvolge i suoi rapporti con il regista... Rivediamo grandi attori come Edmond O'Brian e Mercedes McCambridge, Susan Strasberg e Dennis Hopper...
Il giorno del risarcimento di Welles, però, è stato solo ieri al Lido, 40 anni dopo. Peccato che The Other Side of the Wind, a colori e in bianco e nero, quasi muto o parlatissimo, protetto dentro e fuori dallo schermo dall'amico di Welles Peter Bogdanovich, lunghissima partitura cool jazz di Michel Legrand composta oggi da chi musicò F for Fake, montato sulla base delle oltre 100 ore di girato conservate all'Ucla, e altrove, non sia in concorso, per irrisorie quisquiglie cronologiche di regolamento.
Come e più di Nick Ray, Orson Welles, ovvero Shakespeare nell'epoca della riproducibilità tecnica, dopo gli anni di autoesilio europeo, via dai dannosi veleni del maccartismo che intossicavano irreversibilmente Hollywood, negli ultimi anni di lavoro, dal 1970 al 1985, sceglie senza esitazione la strada del film a banda larga o di “nuova consonanza”, cioé non imprigionato dalla narrativa a standard ritmico precostituito (di cui vediamo esemplari esangui perfino alla Mostra di Venezia 75, come lo spot su Lady Gaga A Star is born, fuori concorso). Invece, più piste emozionali in una stessa opera.
Film auto-apologetico sul cinema, “come 8 e ½”, si dirà. Più satira degli Hollywood Parties. Più elogio del cinema “estremamente strano (di Russ Meyer, di Dennis Hopper, del Corman di Gaaaasssssss!...) che fa impazzire i teenager nei drive in. Più crito-film attraverso il quale Welles e il suo alias John Huston (che lo impersona) non perdono neanche una battuta di dialogo per fare chiarezza su quello che amano e che detestano, su ciò che è cinema e su ciò che è riempire il tempo di carezze visuali devitalizzate, sulla necessità di rovesciare stereotipo dopo stereotipo ogni incrostatura ideologica dallo schermo, a cominciare dal ruolo e dal corpo della donna che la compagna di Welles, Oja Kodar, si preoccupa di risarcire. Film sul tradimento, si dice. Perfino Bogdanovich “tradisce” Hannaford... Già, è il centro di tutta l'opera di Welles, a cominciare da La signora di Shangai e Quarto potere era stato un gesto di alto tradimento rispetto al format dominante degli Studios. I suoi film successivi saranno una forma di alto tradimento rispetto a Quarto potere, a partire dal documentario brasiliano It'all true (“il cinema potrebbe anche smetterla di raccontarci storie”) che lo trasformerà, in un attimo, nell' Eisenstein trumaniano. Negli anni della controcultura e della contestazione generale (l'incubo di Baratta, a giudicare da sue recenti interviste) Welles si attornia di giovani muniti e munite di super 8, 16mm e delle prime videocamere, li e le elettrizza e sceglie di fiancheggiare l'ala dura della New Hollywood, quella che ha più consapevolezza delle rivoluzioni formali, cioè di sostanza, anticipate delle nouvelle vague, da Isou e dai situazionisti, da Antonioni e dalle nuove scienze. Il calcio nel sedere finalmente affibbiato in Usa al codice Hays ha responsabilizzato di più (non di meno) il cineasta che non vuole cadere nella trappola gioconda della libertà di fraseggio infinita. Perché alcune cose da dire e mostrare hanno la priorità assoluta. Fascismo istituzionale all'opera in Vietnam, rimozione del genocidio indiano di cui neppure i Coen sono stati ancora informati; snobismo critico che isola autoritariamente gli artisti più vitali (Warhol e Brakhage ostruirebbero il grande business), religione non più oppio ma tele-ipnosi di massa. Così Welles adocchia una griglia di filmaker di riferimento: Haskell Wexler e il suo modello di documentarismo politico sfrontato; Russ Meyer e Roger Corman, le cui ricerche sul sesso e sulle droghe che dilatano la coscienza, sembrano elettrizzarlo... Certo, The Other side of the wind, girato e non finito dal 1971 al 1976, finalmente montato da Bob Murawski grazie a chi ha saputo risolvere i complicatissimi intrighi produttivi legati ai troppi “aventi diritto” e dopo aver superato problemi tecnici collegati soprattutto alla banda audio, è un free movie di circa due ore così ricco di spunti di riflessione da frastornare chi oggi si distrarre facilmente al cinema. Per fortuna avremo modo di studiarlo attentamente, dal novembre prossimo su Netflix.
The Other Side of the Wind
Regia: Orson Welles
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Mostra di Venezia 75. I fratelli Coen e Assayas

da Alfabeta2    31 AGOSTO 2018

Venezia 2018 / “The Ballad of Buster Scruggs”, “Doubles vies”

La ballata triste dei fratelli Coen
Mariuccia Ciotta
Parodia dei classici, stilizzazione dei generi, gioco d'autore sui luoghi comuni del cinema... I fratelli postmoderni Coen sono superati in corsa da Quentin Tarantino che all'anti-politica preferisce la guerriglia e lo dimostra in The Hateful Eight, variazione etica e sanguinaria di Ombre rosse nel West nevoso, crudele e “imperdonabile” come gli Unforgiven di Clint Eastwood, nobile revisione dell'epopea western. Il senso di The Ballad of Buster Scruggs è questo, applicare il disincanto alla gloriosa stagione dei cowboy di Hollywood in sei episodi destinati alla tv, prima della versione antologica di 133' selezionata in concorso alla Mostra. L'umorismo yiddish dei fratelli Coen ha il sapore del vaudeville e dei carri di Tespi, i carrozzoni ambulanti in giro per i villaggi a far spettacolo con i freak, tipo il ragazzo senza gambe né braccia che Liam Neeson fa esibire in monologhi lirici, e al quale preferisce una gallina dalle doti matematiche. La battuta sarcastica è la gloria dei Coen che però scalfiscono appena la ferocia dell'originale come, per esempio, la tradizione degli indiani scotennatori intorno alla colonna dei carri bianchi in viaggio verso la terra promessa. Il cavaliere intrepido, i coloni pacifici, la fanciulla indifesa e tutta la retorica di genere capovolti da un coup de théâtre... mica scema la ragazza, anzi sì, autolesionista terrorizzata dal selvaggio pellerossa che ne farà un tappeto per la sua tenda. Kelly Reichardt era stata più estrema nel suo onirico Meek's Cutoff e John Landis più esilarante nell'imitazione del tocco Disney con i cowboy in cerchio davanti al falò di Tre amigos!
Un volume consumato dal tempo sfoglia le sue pagine illustrate delle leggende western, a iniziare dal buffo “usignolo” del canyon polveroso, Tim Blake Nelson (Fratello dove sei?) che apre il film, pistolero e stornellatore imbattibile destinato a divertire con il classico duello obbligato a finire tra le nuvole come il caffè Lavazza, per poi arruolare James Franco, rapinatore di banche maldestro, nella storiella dell'impiccato con battuta a sorpresa. I Coen inanellano quadretti dal finale che si vorrebbe sempre più cattivo per smitizzare l'epopea, anche se risparmiano un vecchietto testardo a caccia di pepite in una vallata verde attraversata da un ruscello che fa commuovere i fratelli per la sua bellezza, e per i daini, i gufi, i pesciolini e la voce profonda di Tom Waits, il cercatore d'oro. Si tocca qui l'humour poetico di A proposito di Davis. Ma è solo un attimo di distrazione, il joke ricomincia a colpi di dialoghi ricercati, calligrafismo infiorettato, arguzie e furbizie. Quanta tristezza, però, nella Ballata di Buster Scruggs con i suoi corpi amputati, le fronti e i cuori trafitti, le speranze spezzate e quella diligenza che allude a John Ford e dove si macinano storielle per abbindolare fuorilegge e spettatori... Non c'è niente da ridere se non fosse per quel segno indelebile del cinema classico (o quasi) che i Coen tanto vorrebbero polverizzare, la presenza nella lugubre carrozza, di un'icona eastwoodiana, Tyne Daly, l'agente assegnata a Dirty Harry in Cielo di piombo ispettore Callaghan.
Olivier Assayas, invece, è sulfureo al punto da giusto da imbastire una di quelle commedie “alla francese” dove manca solo Fabrice Luchini, star dell'imbattibile Rien sur Robert. Editoria e politica, tradimenti incrociati, battute di spirito e un vago sapore di Rohmer, con Juliette Binoche nella parte di un'attrice di serie tv poliziottesche alla quale chiedono un contatto con la “vera” Juliette Binoche per registrare un audiolibro, già, perché nell'epoca digitale la carta non va più, ma neanche gli e-book, per non parlare dei romanzi da stampare con un click. Il via vai per i bistrò di Parigi, i letti, le conversazioni da caffè letterario e la performance ammirevole di Vincente Macaigne, attore e regista di teatro, visto in Due amici diretto da Louis Garrel, fanno di Doubles vies (concorso) uno di quei film che come i libri di carta resteranno in classifica.
The Ballad of Buster Scruggs
Regia: Ethan e Joel Coen – concorso
Doubles vies
Regia: Olivier Assyas – concorso
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Mostra di Venezia 75. Mojica e Van Gogh


Da Alfabeta2 4 SETTEMBRE 2018 

Venezia 2018 / El Pepe, At Eternity’s Gate


Le utopie concrete di El Pepe, i colori di Vincent
Mariuccia Ciotta
Un maggiolino tutto matto color azzurro cielo percorre le strade di Montevideo, è una riproduzione in cartone, issata su un camioncino, della Volkswagen di Pepe Mujica, il presidente dell'Uruguay al suo ultimo giorno in carica. Schegge di materiale d'archivio che Emir Kusturica alterna alla sua intervista nella fattoria di Mujica alla periferia della città, davanti a una tazza di mate, che il regista serbo non sa proprio gustarsi, inEl Pepe, una vida suprema (fuori concorso). Mujica è arrivato al Lido, applaudito come un divo, protagonista anche di La noche de 12 anos(Orizzonti) dell'uruguayano Alvaro Brechner che racconta gli anni di prigionia passati quasi tutti in isolamento durissimo. Il regime militare dopo il colpo di stato del '73 arrestò nove tupamaros al comando del Movimiento de Liberación National e li proclamò “ostaggi”, alla prima azione dei guerriglieri sarebbero stati uccisi. Servivano vivi, e l'idea della dittatura era quelli di farli impazzire sotterrati in un buco senza luce. Invece, dall'isolamento è uscito fuori un politico-poeta, un eccentrico filosofo che non ha nulla di folkloristico, al contrario del ritratto che ne fanno i media. Pepe Mujica è un rivoluzionario che coltiva i fiori, è un umorista che sa come “rammendare” le casette diroccate dei poveri, che vorrebbe portare l'acqua dei ghiacci dell'Artico sciolti dal global warmingfino nel Sahara, “si può fare”. E che sa volare con le fantasmagorie di mondi futuri e coltivare la terra – insegna agli studenti come si colloca il seme nei solchi – anche perché è stato ministro dell'agricoltura. Supera la modernità – lui ottantenne – e suggerisce uno smartphone dotato di sala da bagno per persone di una certa età. Scherza Mujica e Kusturica ne libera lo spirito penetrante in cerca di un'utopia concreta. Non vorrebbe, l'ex tupamaro, 80 miliardi per l'Uruguay – il nazionalismo non fa per lui – ma per un investimento globalmente utile, per una “grande opera” da realizzarsi incollando tante piccole opere.
Kusturica, al contrario del cupo film “carcerario” di Brechner, racconta in stile Mujica, saltella con gli attori di strada, i volti dipinti, sale sulle camionette festose, lungo le strade di campagna, sbandiera le complessità del presidente che riconosce “il sano egoismo” dell'individuo ma avverte che l'essere umano è per sua natura “sociale”... Il capitalismo qualcosa che spreca energie, brucia piaceri. Una pecora nera al potere, il libro che Pepe presenta in questi giorni in Europa, storia scritta insieme alla compagna Lucia Topolansky, specialista in documenti falsi al tempo della guerriglia, ora vicepresidente accanto a Tabaré Vazquez, si sventaglia nell'andirivieni del tempo, 2010-2015 la presidenza, e nell'oggi di Mujica che lascia in eredità una specie di Pepeland, la sua start up per giovani coltivatori. Tra le cronache di allora, i frammenti in bianco e nero di L'Amerikano di Costa-Gavras, dove c'è già tutto l'Uruguay dei tupamaros e il sequestro anni '70 di un agente della Cia, addestratore sotto copertura di truppe paramilitari latino-americane, istruite alla tortura e all'omicidio. Cuarón l'ha raccontato in Roma nella versione messicana, strage di studenti nel '71, e prima nel '68.
In concorso, At Eternity's Gate di Julian Schnabel, pittore-regista nell'esercizio di imitare le pennellate di Van Gogh con piccoli colpi della macchina da presa, un su e giù dal maldimare, velature dell'immagine come lenti-multifocali fuori fuoco, e dissolvenze sovrapposte... Il regista diBasquiat ('96) rivendica la comprensione americana per il pittore olandese, respinto in Europa e rinchiuso in manicomio. L'action painting di Pollock ha per maestro Van Gogh sostiene Schnabel nel film che segue l'artista a Arles in Provenza, dove morirà per un colpo accidentale di pistola all'età di 37 anni. At Eternity's Gate insegue Van Gogh per campi assolati e notti blu e tutto finirebbe nel sussulto dell'inquadratura e nelle gigantografie di volti in primo piano se non fosse per Jean-Claude Carrière, lo sceneggiatore surrealista di Bunuel che intesse dialoghi come versi di una cantilena infantile, se non fosse per Willem Dafoe che è Van Gogh resuscitato e per Oscar Isaac nella parte di Gauguin, e a seguire Mads Mikkelsen, Emmanuelle Seigner e Matthieu Amarlic. Pittura di massa per Schnabel che non sa usare il “pennello” ma i colori sì.
El Pepe, una vida suprema (fuori concorso)
Regia: Emir Kusturica
At Eternity's Gate (in concorso)
Regia: Julian Schnabel
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Etichette: Alvaro Brechner, Emir Kusturica, Emmanuelle Seigner, Julian Schnabel, Lucia Topolansky, Mads Mikkelsen, Matheiu Amalric, Pepe Mujica, Willem Dafoe

Mostra di Venezia 75. Frederick Wiseman va a Trumplandia. "Monrovia Indiana". E Vox Lux


da alfabeta2 4 SETTEMBRE 2018 


Monrovia, qui è nato Twin Peaks – La metamorfosi di Natalie
Mariuccia Ciotta
La cartolina di Monrovia, cielo azzurro, campi gialli di mais, casette ridenti, cespugli di fiori, sembra disegnata da Norman Rockwell, ma c'è Frederick Wiseman dietro la macchina da presa, il documentarista americano che vede al di là delle immagini e affonda lo sguardo nella realtà, come in Titicut Follies, Art Berkeley, Ex Libris.
Nell'obiettivo la cittadina dell'Indiana, lo stato della Corn Belt, la fascia agricola dove il granturco scorre a fiumi, Monrovia, poco più di mille abitanti, disposti in fila lungo la strada che attraversa il paese. La chiesa, la bottega di tattoo, il barbiere, il supermercato, la palestra...
La Terra degli indiani è composta dal 90% di bianchi e dello 0,63% di nativi, mentre i neri sono al 9,42% e una di loro è l'unica a farsi notare, la voce da usignolo, bellissima mentre canta a un matrimonio con la sposa che ben rappresenta la corporatura oversize del posto.
Wiseman, il perfido innocente, curiosa nelle stalle pullulanti di maiali rosa e poi ci porta nelle cucine esalanti odore di “pepperoni” e salsicce destinati a imbottire rotoli di pasta fritta, hamburger di carne scura, un impasto di macinato e polvere di aglio. Dal parrucchiere le matrone cercano invano di migliore l'aspetto, gli omoni lo stesso con il ricorso a birra e fucili, venduti per ammazzare i cervi che rosicchiano l'insalata, e fa gola anche un pistolone con la canna lunghissima. I discorsi degli uomini si concentrano sui modelli di auto. E in caso di noia o di infelicità, preti e predicatori informano, durante cerimonie estenuanti di nozze e funerali, che dio ha destinato a Monrovia una dimora speciale nell'alto dei cieli. Non c'è da preoccuparsi.
Wiseman si infila dovunque, come al solito, anche nella seduta del consiglio comune che discute su una panchina – o meglio due? – da collocare davanti alla biblioteca. E poi dentro una cerimonia massonica per il conferimento della medaglia d'oro a un vecchietto incerto sulle gambe, tutto in una stanza spoglia con grandi declamazioni di fedeltà alla Loggia. Ed ecco spuntare Twin Peaks, ecco la donna del ceppo, l'indiano stralunato in cerca delle sue origini, lo sceriffo, Dale Cooper... David Lynch non si è inventato niente, è solo passato da Monrovia.
Ma questo Midwest non è miserabile, non è sprofondato nell'apatia e nella solitudine della campagna, Monrovia è florida e si vede dalle trebbiatrici splendenti, i mega-trattori, le macchine per innaffiare i campi, per imballare il fieno e per ogni cosa... è un' alacre fabbrica che sforna prodotti seriali, dalle polpette ai quintali di chicchi dorati. Eppure la cosa pubblica è a zero, oltre alle panchine, mancano gli idranti e un incendio potrebbe, dice qualcuno, mandare a fuoco l'intero paese, che non gradisce un aumento di popolazione. Non c'è un mall né una piazza né un parco. C'è il supermercato, però, che espone scatole di cibo, buste di nachos e patate fritte, pareti di dolciumi e litri di bevande colorate. Il serbatoio di voti trumpisti è gonfio di calorie e ci ricorda altri territori nostrani. Wiseman con leggerezza in 143' ci mostra qual è il problema di questi obesi, vuoti individualisti. Monrovia è senz'anima.
***
In concorso, Vox Lux di Brady Corbet, nato in Arizona nel 1988, ex attore bambino, regista premiato a Venezia nella sezioni Orizzonti per L'infanzia di un capo, al suo secondo lungometraggio. È quasi un altro È nata una stella, ovvero la storia di una star della musica pop, interpretata da Natalie Portman, calata nelle tute luccicanti di Sia, la vera diva da milioni di dischi venduti, che ha composto le canzoni per il film. Era innocente Celeste prima che un compagno di scuola non facesse una strage di studenti e la ferisse alla spalla e al collo. Prima di fare il patto con il diavolo: la vita e il successo in cambio della sua integrità. Metamorfosi della purissima Portman che si dimena in performance da teatro di periferia, in duetto con un Jude Law, manager in golfino beige e passa tutto il repertorio della strafatta alcolizzata. Sembra la biografia di Lindsay Lohan passata bambina dal disneyano Parent Trap (il remake) all'arresto per guida in stato di ubriachezza e tossica dissoluzione finale.
Monrovia, Indiana (fuori concorso)
Regia: Frederick Wiseman
Vox Lux (in concorso)
Regia: Brady Corbet
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Etichette: Brady Corbet, Frederick Wiseman, Jude Law, Natalie Portman

Mostra di Venezia 75. Saverio Costanzo ed Elena Ferrante. Yervant e Angela

Mariuccia Ciotta


Il cinema festeggia nella sarabanda demonica di Suspiria la sua liberazione, narrazione ed estetica frantumate, mentre avanza il format tv, vero e simulato con film estenuanti dall'impianto seriale. Quindi spazio alla Mostra di Venezia per la “telenovela” più pregiata di tutte, tratta dal fenomeno editoriale firmato Elena Ferrante, L'amica geniale, serie Hbo-Rai, produzione Fandango-Wilside, dal 30 ottobre su Rai1.
Due le puntate presentate con le protagoniste bambine sui banchi di scuola anni '50, primo volume della quadrilogia sulla lunga storia d'amicizia di Elena, detta Lenù, e Lila, compagne delle elementari circondate dalla Napoli misera e rancorosa del dopoguerra. Una è bionda, timida, delicata, Elena (Elisa Del Genio), l'altra bruna, pelle scura, selvatica, Lila (Ludovica Nasti), due mini-attrici formidabili con la macchina da presa incollata addosso per i 50' di ogni episodio, voce-off di Alba Rohrwacher.
Saverio Costanzo, regista dalla sensibilità speciale (La solitudine dei numeri primi, Hungry Hearts) sceglie di sottrarre il più possibile alla prosa incalzante dell'autrice e crea un'atmosfera sospesa, un immobile campo d'azione dove i fatti violenti e concitati restano a margine. Fantasmi fluttuanti, le due bambine giocano in un cortile quadrato che assiste a pestaggi camorristi, risse tra donne gelose, accoltellamenti, ma sempre in sottofondo. Un rione di Napoli devitalizzato, costruito in studio, vuoto, grigio, un po' tela di De Chirico. Forse la regia di Costanzo è condizionata dalle esigenze televisive, dal set di 20mila metri quadrati, 14 edifici, una chiesa e un tunnel compresi, ma l'effetto è sorprendente, lontano dalla liturgia pop-folk del genere. La relazione tra le due amiche, che si dipanerà nelle 32 puntate previste, sembra rivolgersi non tanto alla saga sentimental-famigliare quanto verso il romanzo di formazione in stile De Amicis e del suo Cuore, versione Luigi Comencini, miniserie Rai del 1984. Lo stesso profumo d'inchiostro, i grembiuli e i fiocchi, la lavagna, il “cattivo”, la prima della classe, la maestra dalla penna rossa, la scoperta di sé... Avvincenti le prime due puntate di Lenù e Lila, ribelli a madri e padri snaturati, riflesse in Piccole donne, il romanzo che leggono e rileggono. Dopo, però, temibilmente, Piccole donne crescono... Battuta memorabile, “Voglio scrivere un libro per far soldi”.
***
Di segno opposto alla filosofia della serie, un'opera sul rigenerare le immagini mancanti, quella di Angela Ricci-Lucchi e Yervant Gianikian, che dedica Il diario di Angela – Noi due cineasti (fuori concorso) alla compagna scomparsa nel febbraio scorso, regista e pittrice, co-autrice di film found foutage come Su tutte le vette e pace e Dal Polo all'equatore.Yervant sfoglia il diario di Angela, fitto di parole ordinate, intrecciato a piccoli schizzi di cose viste, paesaggi, facce, insetti, e ricorda i viaggi alla ricerca di rari materiali d'archivio su e giù per il mondo. Dall'accogliente paese d'origine, l'Armenia, a una Russia sull'orlo della caduta (1989-1990), e quindi maldisposta verso i due cineasti, se non fosse per un simpatico gatto che fa saltar fuori preziose bobine. I tour negli Stati Uniti con i “Film profumati” fine ani '70, la Turchia e l'Iran con le sue donne-corvo, insaccate nelle vesti nere, viaggi spericolati e pericolosi a volte ma sempre pieni di scoperte. E anche di compagnie sorprendenti, Walter Chiari, fonte di “miracoli” linguistici. Angela dipinge, inventa, cucina piatti come quadri, raccoglie pomodori e racconta di quando Yervant andò a fuoco e rischiò di morire, salvato da un prato di salvia e da lei, l'amata, che nel suo diario lo disegnò ricoperto di garze, quasi una striscia a fumetti, allegra.
L'amica geniale e seriale
Regia: Saverio Costanzo
Il Diario di Angela
Regia: Yervant Ricci Lucchi
Pubblicato da il ciottasilvestri alle 19:42 Nessun commento:
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Etichette: Alba Rohrwacher, Angela Ricci Lucchi, Elisa Del Genio, Ludovica Nasti, Saverio Costanzo, Walter Chiari, Yervant Gianikian
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