giovedì 20 settembre 2018

Mostra di Venezia 75. Il montaggio controverso di The Other Side of the Wind

da ALFABETA2 
Orson Welles, il vento dell'Est
Roberto Silvestri
Attorniato da produttori scettici, fan entusiasti e critici velenosi, il settantenne regista di culto J.J. Jack Hannaford (John Huston) torna a Hollywood dall'Europa e gira un film “alla moda”, pieno di sesso, nudi, droga e avventura, che dovrebbe rilanciarne la carriera. All'anteprima “spezzettata” (in saletta privata, in una villa sulle colline e al drive in) giornalisti, biografi, produttori, fotografi, nani e colleghi festeggiano i suoi 70 anni, ma il giovane attore protagonista del film è appena morto in un incidente d'auto e un mistero avvolge i suoi rapporti con il regista... Rivediamo grandi attori come Edmond O'Brian e Mercedes McCambridge, Susan Strasberg e Dennis Hopper...
Il giorno del risarcimento di Welles, però, è stato solo ieri al Lido, 40 anni dopo. Peccato che The Other Side of the Wind, a colori e in bianco e nero, quasi muto o parlatissimo, protetto dentro e fuori dallo schermo dall'amico di Welles Peter Bogdanovich, lunghissima partitura cool jazz di Michel Legrand composta oggi da chi musicò F for Fake, montato sulla base delle oltre 100 ore di girato conservate all'Ucla, e altrove, non sia in concorso, per irrisorie quisquiglie cronologiche di regolamento.
Come e più di Nick Ray, Orson Welles, ovvero Shakespeare nell'epoca della riproducibilità tecnica, dopo gli anni di autoesilio europeo, via dai dannosi veleni del maccartismo che intossicavano irreversibilmente Hollywood, negli ultimi anni di lavoro, dal 1970 al 1985, sceglie senza esitazione la strada del film a banda larga o di “nuova consonanza”, cioé non imprigionato dalla narrativa a standard ritmico precostituito (di cui vediamo esemplari esangui perfino alla Mostra di Venezia 75, come lo spot su Lady Gaga A Star is born, fuori concorso). Invece, più piste emozionali in una stessa opera.
Film auto-apologetico sul cinema, “come 8 e ½”, si dirà. Più satira degli Hollywood Parties. Più elogio del cinema “estremamente strano (di Russ Meyer, di Dennis Hopper, del Corman di Gaaaasssssss!...) che fa impazzire i teenager nei drive in. Più crito-film attraverso il quale Welles e il suo alias John Huston (che lo impersona) non perdono neanche una battuta di dialogo per fare chiarezza su quello che amano e che detestano, su ciò che è cinema e su ciò che è riempire il tempo di carezze visuali devitalizzate, sulla necessità di rovesciare stereotipo dopo stereotipo ogni incrostatura ideologica dallo schermo, a cominciare dal ruolo e dal corpo della donna che la compagna di Welles, Oja Kodar, si preoccupa di risarcire. Film sul tradimento, si dice. Perfino Bogdanovich “tradisce” Hannaford... Già, è il centro di tutta l'opera di Welles, a cominciare da La signora di Shangai e Quarto potere era stato un gesto di alto tradimento rispetto al format dominante degli Studios. I suoi film successivi saranno una forma di alto tradimento rispetto a Quarto potere, a partire dal documentario brasiliano It'all true (“il cinema potrebbe anche smetterla di raccontarci storie”) che lo trasformerà, in un attimo, nell' Eisenstein trumaniano. Negli anni della controcultura e della contestazione generale (l'incubo di Baratta, a giudicare da sue recenti interviste) Welles si attornia di giovani muniti e munite di super 8, 16mm e delle prime videocamere, li e le elettrizza e sceglie di fiancheggiare l'ala dura della New Hollywood, quella che ha più consapevolezza delle rivoluzioni formali, cioè di sostanza, anticipate delle nouvelle vague, da Isou e dai situazionisti, da Antonioni e dalle nuove scienze. Il calcio nel sedere finalmente affibbiato in Usa al codice Hays ha responsabilizzato di più (non di meno) il cineasta che non vuole cadere nella trappola gioconda della libertà di fraseggio infinita. Perché alcune cose da dire e mostrare hanno la priorità assoluta. Fascismo istituzionale all'opera in Vietnam, rimozione del genocidio indiano di cui neppure i Coen sono stati ancora informati; snobismo critico che isola autoritariamente gli artisti più vitali (Warhol e Brakhage ostruirebbero il grande business), religione non più oppio ma tele-ipnosi di massa. Così Welles adocchia una griglia di filmaker di riferimento: Haskell Wexler e il suo modello di documentarismo politico sfrontato; Russ Meyer e Roger Corman, le cui ricerche sul sesso e sulle droghe che dilatano la coscienza, sembrano elettrizzarlo... Certo, The Other side of the wind, girato e non finito dal 1971 al 1976, finalmente montato da Bob Murawski grazie a chi ha saputo risolvere i complicatissimi intrighi produttivi legati ai troppi “aventi diritto” e dopo aver superato problemi tecnici collegati soprattutto alla banda audio, è un free movie di circa due ore così ricco di spunti di riflessione da frastornare chi oggi si distrarre facilmente al cinema. Per fortuna avremo modo di studiarlo attentamente, dal novembre prossimo su Netflix.
The Other Side of the Wind
Regia: Orson Welles

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