mercoledì 5 aprile 2017

E' morto Samir Farid, il "critico gigante". Mille e una notte con il cinema arabo e egiziano

Samir Farid a Cannes, premiato nel 2000


Roberto Silvestri

A 74 anni anni, il 4 aprile scorso, è morto il giornalista e critico militante egiziano Samir Farid, autore di centinaia di saggi e di 60 libri fondamentali per la conoscenza del cinema arabo. Era membro della Fipresci (il sindacato internazionale dei critici) dal 1971 ma, soprattutto, era un amato maestro, ricco di passione e di senso dell'umorismo. Non ci ha lasciato solo fonamentali ae ccurate storie delle cinematografie arabe. Ma ha scritto di censura, Shakespeare, cinema per bambini, di Naguib Mahfouz, film “sionisti”, storia di Cannes e Venezia intese come festival, di Truffaut… Tra le monografie imperdibili: Yussef Chahine, Faten Hamam, la diva; Zouzou Hamdi El-Hakim, Hassan Imam Omar, una storia del cinema palestinese…

Samir Farid premiato nel 2017 dalla Berlinale 
“Per 50 anni è stato l’infaticabile gigante del cinema arabo”, disse Abdulamhid Juma, direttore del festival di Dubai, nel 2013, conferendogli il premio alla carriera che precedentemente era stato conferito solo a un altro cineasta arabo, Omar Sharif. E poche settimane fa era stato Kosslick a festeggiarlo con l’Orso d’oro della Berlinale alla carriera (mentre Cannes lo aveva premiato per il giubileo del 2000, assieme agli altri “20 critici di fama mondiale”).
“Ma a noi del cinema arabo cosa importa?” direbbe l’ambasciatore di Israele a Roma. E invece.     
L’Egitto, come l’India e il Giappone, il Brasile e la Cina, ha un patrimonio immaginario straordinario ma criminalmente semi-sconosciuto in Italia (troppo pericoloso per Hollywood diffonderne i competitivi gioielli e i paesi schiavi devono eseguire gli ordini).

Una immagine da la mummia, il film di Shadi Abdelsalam che Samir Farid fece conoscere al mondo 
I
l Cairo è stato infatti per decenni l’unico produttore di film commerciali e di genere (soprattutto musical, gialli, commedie, farse e melodrammi) del continente africano (a parte un breve momento di gloria libanese negli anni 60). Molti italiani d’Alessandria hanno contribuito al suo decollo, nei primi anni del XX secolo. Divi e dive, prime tra tutte Om Kalshoum, ne hanno arricchito il fascino. E perfino un italiano, Togo Mizrhai, è tra i suoi grandi maestri, per aver confezionato negli anni 30 e 40 musical raffinati e di pulsioni ludiche inimmaginabili, interpretati dalla cantante e ballerina Leila Mourad.  Peccato che Togo Mizrahi, ebreo in fuga dal nazifascismo, a seconda guerra mondiale finita, sia rientrato nella natia Roma senza che nessuno se lo ricordasse. Nemmeno Veltroni l’africano.
La mummia (1970) di Shadi Abdelsalam

Tutte queste cose ce le raccontava invece, da un festival all’altro, proprio Samir Farid, nato nel 1943 al Cairo, laureato con una tesi su Samuel Beckett e che condivise con noi (allora) del manifesto l’hotel Universe a Cannes per qualche tempo. E non sempre eravamo d’accordo sui film. A lui piacevano più che a noi (poco abituati ai cortocircuiti mentali sunniti, drusi e sciiti) Bilge Ceylan, Farhadi, Audiard, von Trier… .. Nel corso del tempo un critico laico e illuminista come lui rischiava di istituzionizzarsi. Come la diva di Chahine, Yusra, che criticò “scandalosamente” la rivoluzione di primavera. La moderazione finale di Farid aveva a che fare con un identico terrore: il fondamentalismo islamista sarebbe esploso pericolosamente se la “diga Mubarak” non avesse retto. Come successe con Morsi. Eppure la responsabilità di quella esplosione fascistoide era stata proprio di Mubarak e dei suoi maneggi con i Fratelli musulmani.  


Farid è stato per 38 anni il critico cinematografico ufficiale del quotidiano cairota Al-Gomhoreya, ha collaborato e fondato riviste come le egiziane Al-Cinema (nel 1969) e Al-Talliaa, in 1973, l’algerina Al-Shshtan (1979) e la cipriota Al-Ofok (1987). Ha fondato nel 1970 il festival nazionale egiziano del corto e del documentario e nel 1971 una importante rassegna nazionale di cinema indipendente.  
E’ stata alta la qualità del suo contributo teorico. Senza di lui (ma anche di Roberto Rossellini che costrinse Nasser, per la prima volta, a finanziare un film egiziano con soldi pubblici) Shadi Abdelsalam, autore nel 1970 del capolavoro La Mummia, difficilmente avrebbe mai superato i confini di casa.
Farid assieme al direttore della Berlinale 2017 Kossick 
Incredibile era il dinamismo organizzativo, la passione divulgativa (ha partecipato a oltre 200 tra convvegni e tavore rotonde in tutto il mondo) e il coraggio politico e sindacale di Farid (grazie a lui sono nate dal 1972 le associazioni dei critici egiziani). 
Fisicamente “il gigante” era alto e imponente, il contrario dell’anticritico classico, pensiamo a Noel Simpsolo o ad Alberto Farassino.  Mi ricordava più che il collega tunisino Tahar Cheria, il fondatore del festival cinematografico di Cartagine dalla imponente lunga barba bianca, un funzionario elegante del museo egizio del Cairo con gli occhiali scuri in un qualunque film d’avventura esotica angloamericano degli anni 40 e 50.
Bisognava essere forti e astuti, tra Nasser, Sadat e Mubarak, in una democrazia militare muscolosa e più che sfacciata, per resistere ai diktat (che piovono periodicamente dall’alto) e non perdere mai la faccia.
Per fortuna Farid era diventato una celebrità internazionale grazie ai suoi saggi e articoli, diffusi dalle principali riviste di tendenza, ma anche su Variety (di cui fu dall’81 all’85 corrispondente dai paesi arabi). In Italia è stato Lino Micciché a farcelo conoscere e apprezzare, pubblicandone i lavori nei fondamentali libri Marsilio verdi della Mostra del Nuovo Cinema, in occasione delle varie retrospettive arabe.
La tar del cinema egiziano anni 40 Leyla Mourad 
Tutti i grandi festival se lo contendevano per le giurie (è stato a Oberhausen, Torino, Venezia 2001, Salonicco, Lipsia, Annecy, Taormina 2010, Berlino, Dubai, Cannes…) e in anni recenti lo hanno premiato per il suo alto contributo teorico. E lui poi era più internazionalista che nazionalista: “Non accettare mai l’invito del festival del Cairo – mi suggeriva - è senza interesse e gestito burocraticamente dallo stato”. Non c’era libertà critica. Quella che per esempio e miracolosamente ha consentito a Cartagine di diventare un punto di riferimento per i cineasti dei tre mondi perfino durante i regimi autoritari e socialisti arabi di Bourghiba e Ben Alì.  Consiglio che ho seguito sempre. Anche quando il festival del Cairo ufficiale e burocratico è stato affidato proprio a lui (nel 2014, dopo che Morsi era stato rivesciato da un potente movimento di massa insurrezionale, strumentalizzato poi da al Sisi). Ma si è dimesso l’anno dopo.
E mi ricordo che a Cartagine, negli anni 89 e 90, quando non erano mai premiati (per principio) i film egiziani - perfino quelli non festivi, seri e compunti come piacciono ai gusti francesizzanti dei tunisini, senza divi e musiche e danze, come l’esordio strabiliante di Yousry Nasrallah - Samir Ferid se ne crucciava molto (e nel caso di Furti d’estate, giustamente): “Sono premi ideologici, miserabilisti e e caritatevoli. Bisognerebbe saper rispettare sempre standard artistici di qualità. Se no si fa demagogia”.   
Farid ci raccontò con passione per decenni la nascita e apoteosi della triade egiziana poetico-politica Tawfiq Salah, Salah Abou Seif e Youssef Chahine, alle scaturigini delle nouvelle vagues arabe degli anni 60, quel cinema di combattimento (dal basso) e di riflessione (nel profondo) di uomini e donne filmmaker che affondava profonde radici nella centenaria cultura illuminista araba. E che costrinse i cineasti o alla fuga (in Irak e Siria) o a violente dispute tribunalizie (Chahine). Immagini possenti e critiche che  accompagnarono e scavalcarono il sessantotto maghrebino e mashrequino sconfitto. Da La memoire fertile del palestinese Khleifi a quelle dei tunisini Nouri Bouzid, Mahmoud ben Mahmoud e Nacer Khemir, ai siriani Amiralay e Malas, al libanese Borhane Alaouié… ai giovani egiziani della generazione Abdallah e El Batout. Farid ci insegnò a gustare e scovare, nel buon cinema, quel quoziente d’immaginario d’opposizione, indispensabile a spezzare tabù e tradizioni putrescenti, legato in particolare al cinema delle donne arabe, dell’algerina Assia Djebar, delle libanesi Jocelyne Saab e Heiny Srour, della tunisina Nejia Ben Mabrouk, dell’egiziana Attiat el Abnoudi, della marocchina Farida Belyazid… e di  diffidare soprattutto del cinema radiofonico, che è quello che piace molto solo ai regimi autoritari di ogni tipo. Tutti inguaribilmente iconoclasti perché capaci di gestire una sola immagine. Del dio, di dittatore, dell’unico se stessi.  
Togo Mizrahi, regista egiziano di origine italiana 
Cosa vuol dire cinema radiofonico e perché bisogna diffidare di lui? Perché cinema non è solo raccontare una storia. C’è il cinema saggio, c’è il cinema scientifico, c’è il cinema come telescopio dell’inconscio collettivo. Insomma quello che apre una storia al fuori tema, alla ricezione imprevista e boomerang, alla libera interpretazione, perfino blasfema, di ciascuno.  Prendiamo un documentario “radiofonico”. Ecco che una voce fori campo ci spiega quale è la posizione giusta. Noi buoni e loro cattivi. Noi ragione e loro torto. Quello che vediamo ogni giorno anche nei nostri tg occidentali, in fondo. Godard dice: la tv è il visivo autoritario, il cinema è l’immagine libertaria. E oggi c’è troppa tv nei cinema. Liberiamoli. Ecco perché se il cinema serve a inculcare solo parole d’ordine nell’inconscio preconscio e conscio degli spettatori diventa molto pericoloso. Hanno contribuito a questa guerra di liberazione dell’immagine molti critici sessantottini e che oggi non ci sono più: Enzo Ungari, Gianni Menon, Serge Daney, Peter Van Bargh, Hubert Baals, Eric Rohmer, David Ranvaud… e ora anche Samir Farid. Un altro critico di riferimento che apparteneva alla generazione delle “nouvelle vague”. E le seppe fiancheggiare, valorizzare e raccontare in profondità perché quel cinema eccentrico e controcorrente, concepito tra la fine degli anni 50 e la fine degli anni 60, eretico rispetto a tutte le chiese a spiritualità religiosa o laica, era davvero speciale.
Una diva del cinema egizinao classico, Tajeya Carioca 
Cosa voleva quella generazione di critici e teorici che passò quasi tutta, in un modo o nell’altro, dietro la macchina da presa? Imporre il cinema come grande forma d’arte. Indicarla come equivalente della letteratura, musica, pittura, della scultura, dell’architettura, del teatro, della danza. Un autore di cinema, come Lang, von Stroheim, Ford, Murnau, Griffith, Welles  o Eisenstein poteva e doveva essere paragonato senza imbarazzo a Shakespeare, Michelangelo e Beethoven, a Dante e Mozart, a Balzac e a Le Corbousier, a Raffaello e Warhol (già, appunto).  Mai accademici e mistificatori i film che piacevano a Samir Farid e Co. Sempre d’esplorazione scandalosa. Mettere il becco dove non si deve era la parola di disordine segreta che circolava da un loro saggio a un loro libro, da una presentazione di festival a una rassegna tv. Moderni e nello stesso tempo classici. Veritieri e nello stesso tempo più che “realisti”.  
Nella cartina geografica dell’epoca Samr Farid, egiziano, rappresentava questo spirito costruttivista e post moderno nell’area panaraba, proprio come Pauline Vieyra in quella subsahariana, Pauline Kael, Andrew Sarris e Jonathan Rosenbaum in quella nordamericana, Salles Gomes, Bernadet e Amir Labaki in Brasile, Roger Garcia a Hong Kong, Tadao Sato in Giappone, Adriano Aprà e Edoardo Bruno in Italia, Laura Mulvey e Peter Wollen in Gran Bretagna, André Bazin in Francia, Ulrich Gregor in Germania…. 



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