Samir Farid a Cannes, premiato nel 2000 |
Roberto Silvestri
A 74 anni anni, il 4 aprile
scorso, è morto il giornalista e critico militante egiziano Samir Farid, autore
di centinaia di saggi e di 60 libri fondamentali per la conoscenza del cinema
arabo. Era membro della Fipresci (il sindacato internazionale dei critici) dal
1971 ma, soprattutto, era un amato maestro, ricco di passione e di senso dell'umorismo. Non ci ha lasciato solo fonamentali ae ccurate storie
delle cinematografie arabe. Ma ha scritto di censura,
Shakespeare, cinema per bambini, di Naguib Mahfouz, film “sionisti”, storia di
Cannes e Venezia intese come festival, di Truffaut… Tra le monografie
imperdibili: Yussef Chahine, Faten Hamam, la diva; Zouzou Hamdi El-Hakim, Hassan
Imam Omar, una storia del cinema palestinese…
Samir Farid premiato nel 2017 dalla Berlinale |
“Per 50 anni è stato
l’infaticabile gigante del cinema
arabo”, disse Abdulamhid Juma, direttore del festival di Dubai, nel 2013,
conferendogli il premio alla carriera che precedentemente era stato conferito
solo a un altro cineasta arabo, Omar Sharif. E poche settimane fa era stato
Kosslick a festeggiarlo con l’Orso d’oro della Berlinale alla carriera (mentre
Cannes lo aveva premiato per il giubileo del 2000, assieme agli altri “20
critici di fama mondiale”).
“Ma a noi del cinema arabo
cosa importa?” direbbe l’ambasciatore di Israele a Roma. E invece.
L’Egitto, come l’India e il
Giappone, il Brasile e la Cina, ha un patrimonio immaginario straordinario ma criminalmente
semi-sconosciuto in Italia (troppo pericoloso per Hollywood diffonderne i competitivi
gioielli e i paesi schiavi devono eseguire gli ordini).
Una immagine da la mummia, il film di Shadi Abdelsalam che Samir Farid fece conoscere al mondo |
I
l Cairo è stato infatti per
decenni l’unico produttore di film commerciali e di genere (soprattutto
musical, gialli, commedie, farse e melodrammi) del continente africano (a parte
un breve momento di gloria libanese negli anni 60). Molti italiani
d’Alessandria hanno contribuito al suo decollo, nei primi anni del XX secolo.
Divi e dive, prime tra tutte Om Kalshoum, ne hanno arricchito il fascino. E
perfino un italiano, Togo Mizrhai, è tra i suoi grandi maestri, per aver
confezionato negli anni 30 e 40 musical raffinati e di pulsioni ludiche
inimmaginabili, interpretati dalla cantante e ballerina Leila Mourad. Peccato che Togo Mizrahi, ebreo in fuga dal
nazifascismo, a seconda guerra mondiale finita, sia rientrato nella natia Roma
senza che nessuno se lo ricordasse. Nemmeno Veltroni l’africano.
La mummia (1970) di Shadi Abdelsalam |
Tutte queste cose ce le
raccontava invece, da un festival all’altro, proprio Samir Farid, nato nel 1943
al Cairo, laureato con una tesi su Samuel Beckett e che condivise con noi
(allora) del manifesto l’hotel
Universe a Cannes per qualche tempo. E non sempre eravamo d’accordo sui film. A
lui piacevano più che a noi (poco abituati ai cortocircuiti mentali sunniti,
drusi e sciiti) Bilge Ceylan, Farhadi, Audiard, von Trier… .. Nel corso del
tempo un critico laico e illuminista come lui rischiava di istituzionizzarsi.
Come la diva di Chahine, Yusra, che criticò “scandalosamente” la rivoluzione di
primavera. La moderazione finale di Farid aveva a che fare con un identico
terrore: il fondamentalismo islamista sarebbe esploso pericolosamente se la
“diga Mubarak” non avesse retto. Come successe con Morsi. Eppure la
responsabilità di quella esplosione fascistoide era stata proprio di Mubarak e
dei suoi maneggi con i Fratelli musulmani.
Farid è stato per 38 anni il
critico cinematografico ufficiale del quotidiano cairota Al-Gomhoreya, ha collaborato e fondato riviste come le egiziane Al-Cinema (nel 1969) e Al-Talliaa, in 1973, l’algerina Al-Shshtan (1979) e la cipriota Al-Ofok (1987). Ha fondato nel 1970 il
festival nazionale egiziano del corto e del documentario e nel 1971 una importante
rassegna nazionale di cinema indipendente.
E’ stata alta la qualità del
suo contributo teorico. Senza di lui (ma anche di Roberto Rossellini che
costrinse Nasser, per la prima volta, a finanziare un film egiziano con soldi
pubblici) Shadi Abdelsalam, autore nel 1970 del capolavoro La Mummia, difficilmente avrebbe mai superato i confini di casa.
Farid assieme al direttore della Berlinale 2017 Kossick |
Incredibile era il dinamismo
organizzativo, la passione divulgativa (ha partecipato a oltre 200 tra
convvegni e tavore rotonde in tutto il mondo) e il coraggio politico e
sindacale di Farid (grazie a lui sono nate dal 1972 le associazioni dei critici
egiziani).
Fisicamente “il gigante” era
alto e imponente, il contrario dell’anticritico
classico, pensiamo a Noel Simpsolo o ad Alberto Farassino. Mi ricordava più che il collega tunisino Tahar
Cheria, il fondatore del festival cinematografico di Cartagine dalla imponente lunga
barba bianca, un funzionario elegante del museo egizio del Cairo con gli
occhiali scuri in un qualunque film d’avventura esotica angloamericano degli
anni 40 e 50.
Bisognava essere forti e
astuti, tra Nasser, Sadat e Mubarak, in una democrazia militare muscolosa e più
che sfacciata, per resistere ai diktat (che piovono periodicamente dall’alto) e
non perdere mai la faccia.
Per fortuna Farid era
diventato una celebrità internazionale grazie ai suoi saggi e articoli, diffusi
dalle principali riviste di tendenza, ma anche su Variety (di cui fu dall’81 all’85 corrispondente dai paesi arabi).
In Italia è stato Lino Micciché a farcelo conoscere e apprezzare, pubblicandone
i lavori nei fondamentali libri Marsilio verdi della Mostra del Nuovo Cinema,
in occasione delle varie retrospettive arabe.
La tar del cinema egiziano anni 40 Leyla Mourad |
Tutti i grandi festival se lo
contendevano per le giurie (è stato a Oberhausen, Torino, Venezia 2001,
Salonicco, Lipsia, Annecy, Taormina 2010, Berlino, Dubai, Cannes…) e in anni
recenti lo hanno premiato per il suo alto contributo teorico. E lui poi era più
internazionalista che nazionalista: “Non accettare mai l’invito del festival
del Cairo – mi suggeriva - è senza interesse e gestito burocraticamente dallo
stato”. Non c’era libertà critica. Quella che per esempio e miracolosamente ha
consentito a Cartagine di diventare un punto di riferimento per i cineasti dei
tre mondi perfino durante i regimi autoritari e socialisti arabi di Bourghiba e
Ben Alì. Consiglio che ho seguito sempre.
Anche quando il festival del Cairo ufficiale e burocratico è stato affidato proprio
a lui (nel 2014, dopo che Morsi era stato rivesciato da un potente movimento di
massa insurrezionale, strumentalizzato poi da al Sisi). Ma si è dimesso l’anno
dopo.
E mi ricordo che a Cartagine,
negli anni 89 e 90, quando non erano mai premiati (per principio) i film
egiziani - perfino quelli non festivi,
seri e compunti come piacciono ai gusti francesizzanti dei tunisini, senza divi
e musiche e danze, come l’esordio strabiliante di Yousry Nasrallah - Samir
Ferid se ne crucciava molto (e nel caso di Furti
d’estate, giustamente): “Sono premi ideologici, miserabilisti e e
caritatevoli. Bisognerebbe saper rispettare sempre standard artistici di
qualità. Se no si fa demagogia”.
Farid ci raccontò con
passione per decenni la nascita e apoteosi della triade egiziana
poetico-politica Tawfiq Salah, Salah Abou Seif e Youssef Chahine, alle
scaturigini delle nouvelle vagues arabe degli anni 60, quel cinema di
combattimento (dal basso) e di riflessione (nel profondo) di uomini e donne
filmmaker che affondava profonde radici nella centenaria cultura illuminista
araba. E che costrinse i cineasti o alla fuga (in Irak e Siria) o a violente
dispute tribunalizie (Chahine). Immagini possenti e critiche che accompagnarono e scavalcarono il sessantotto
maghrebino e mashrequino sconfitto. Da La
memoire fertile del palestinese Khleifi a quelle dei tunisini Nouri Bouzid,
Mahmoud ben Mahmoud e Nacer Khemir, ai siriani Amiralay e Malas, al libanese Borhane
Alaouié… ai giovani egiziani della generazione Abdallah e El Batout. Farid ci
insegnò a gustare e scovare, nel buon cinema, quel quoziente d’immaginario
d’opposizione, indispensabile a spezzare tabù e tradizioni putrescenti, legato in
particolare al cinema delle donne arabe, dell’algerina Assia Djebar, delle
libanesi Jocelyne Saab e Heiny Srour, della tunisina Nejia Ben Mabrouk, dell’egiziana
Attiat el Abnoudi, della marocchina Farida Belyazid… e di diffidare soprattutto del cinema radiofonico, che è quello che piace molto solo ai regimi
autoritari di ogni tipo. Tutti inguaribilmente iconoclasti perché capaci di
gestire una sola immagine. Del dio, di dittatore, dell’unico se stessi.
Togo Mizrahi, regista egiziano di origine italiana |
Cosa vuol dire cinema radiofonico e perché bisogna
diffidare di lui? Perché cinema non è solo raccontare una storia. C’è il cinema
saggio, c’è il cinema scientifico, c’è il cinema come telescopio dell’inconscio
collettivo. Insomma quello che apre una storia al fuori tema, alla ricezione
imprevista e boomerang, alla libera interpretazione, perfino blasfema, di
ciascuno. Prendiamo un documentario
“radiofonico”. Ecco che una voce fori campo ci spiega quale è la posizione
giusta. Noi buoni e loro cattivi. Noi ragione e loro torto. Quello che vediamo
ogni giorno anche nei nostri tg occidentali, in fondo. Godard dice: la tv è il
visivo autoritario, il cinema è l’immagine libertaria. E oggi c’è troppa tv nei
cinema. Liberiamoli. Ecco perché se il cinema serve a inculcare solo parole
d’ordine nell’inconscio preconscio e conscio degli spettatori diventa molto pericoloso.
Hanno contribuito a questa guerra di liberazione dell’immagine molti critici sessantottini e che oggi non ci sono
più: Enzo Ungari, Gianni Menon, Serge Daney, Peter Van Bargh, Hubert Baals,
Eric Rohmer, David Ranvaud… e ora anche Samir Farid. Un altro critico di
riferimento che apparteneva alla generazione delle “nouvelle vague”. E le seppe
fiancheggiare, valorizzare e raccontare in profondità perché quel cinema
eccentrico e controcorrente, concepito tra la fine degli anni 50 e la fine
degli anni 60, eretico rispetto a tutte le chiese a spiritualità religiosa o
laica, era davvero speciale.
Una diva del cinema egizinao classico, Tajeya Carioca |
Cosa voleva quella
generazione di critici e teorici che passò quasi tutta, in un modo o
nell’altro, dietro la macchina da presa? Imporre il cinema come grande forma
d’arte. Indicarla come equivalente della letteratura, musica, pittura, della
scultura, dell’architettura, del teatro, della danza. Un autore di cinema, come
Lang, von Stroheim, Ford, Murnau, Griffith, Welles o Eisenstein poteva e doveva essere paragonato
senza imbarazzo a Shakespeare, Michelangelo e Beethoven, a Dante e Mozart, a Balzac
e a Le Corbousier, a Raffaello e Warhol (già, appunto). Mai accademici e mistificatori i film che
piacevano a Samir Farid e Co. Sempre d’esplorazione scandalosa. Mettere il
becco dove non si deve era la parola di
disordine segreta che circolava da un loro saggio a un loro libro, da una
presentazione di festival a una rassegna tv. Moderni e nello stesso tempo
classici. Veritieri e nello stesso tempo più che “realisti”.
Nella cartina geografica
dell’epoca Samr Farid, egiziano, rappresentava questo spirito costruttivista e
post moderno nell’area panaraba, proprio come Pauline Vieyra in quella
subsahariana, Pauline Kael, Andrew Sarris e Jonathan Rosenbaum in quella
nordamericana, Salles Gomes, Bernadet e Amir Labaki in Brasile, Roger Garcia a
Hong Kong, Tadao Sato in Giappone, Adriano Aprà e Edoardo Bruno in Italia, Laura
Mulvey e Peter Wollen in Gran Bretagna, André Bazin in Francia, Ulrich Gregor
in Germania….
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