venerdì 28 aprile 2017

Demme. La verità su Charlie




Roberto Silvestri 




LA VERITA’ SU CHARLIE
THE TRUTH ABOUT CHARLIE
Jonathan Demme, Usa 2002

Mark Wahlberg e Thandie Newton

«Aridatece Monnezza!». Un pubblico romano confuso e inebriato della propria volgarità, accolse al cinema Savoy, durante in una selva di fischi, urla, frizzi e lazzi, The Truth about Charlie, l'ultimo evidentemente inquietante capolavoro di Jonathan Demme che, dopo un anno di attesa, riceveva il battesimo nero italiano, non in una mostra d'arte, ma, qualche settimana fa, nelle arene gladiatorie del Fantasfestival di Roma. Ora è nelle sale normali, soprattutto in quelle più scomode, introvabili e clandestine... Va scovato e affrontato. Perché 1. Demme è uno yankee in stato d’allarme che si è esposto sempre per la pace. 2. Il film può far male, non per le tonnellate di citazioni che incorpora (Run Lola Run, Go, Suzhou River oltre tutto, se state attenti al montaggio e alla musica), e che non è poco divertente decifrare, ma perché è più che pauroso. Ottima scelta per un festival dell'horror.
Fa vacillare il nostro equilibrio cinefilo.  Forse ha a che fare con l'annichilimento della «legge della viseità» che Guattari e Deleuze avevano scoperto (Mille piani) come centrale e ordinatrice per la figuratività occidentale e cristiana, dal rinascimento prospettico all'astrattismo. Parete bianca e buco nero. Viso e occhi, bocca, orecchie. Perfino nell'adorato Truffaut di La mia droga si chiama Julie Belmondo dice di laghi e colline toccando naso e palpebre di Catherine Deneuve...






Il primissimo piano del divo come organizzazione degli spazi, viseità replicata nelle regole del paesaggio, del sociale. Qui niente divo niente ordine niente paesaggi. Niente visi. Ma insorgenza di corpi. Anti viseità. La cosa turba il pubblico rimbambito dal sempre uguale. Henry Mancini cancellato da una colonna sonora global-ibrida che fa più effetto di un rito new-vudu: Angelique Kidjo, The Soft Boys, i pakindiani Lahsa, Sparklehorse, Gotham Project... Dopo l'estetica cool. 


La commedia-thriller - set magnetico Parigi (Bertolucci, De Palma, Jordan melvillianodi The good thieft...) modello principale Sciarada di Stanley Donen, 1963 (di cui è il remake e il make-up) - racconta il salto nel vuoto di Regina (Thandie Newton), «una donna in pericolo», perseguitata - su un tavolo di montaggio che tortura ogni certezza ritmico-spaziale - da una serie di mostri. Inquietanti figure bugiarde, avide e ambigue: il marito (Charlie), che lei vorrebbe lasciare e che ritrova, dopo una vacanza ai Caraibi, cadavere, e con un passato d'avventuriero dalla quadruplice identità; la poliziotta ruvida (Christine Bisson), i servizi segreti Usa (Tim Robbins), i corpi speciali della «polizia globale» ovvero i criminali della organizzazione segreta «Giustizia duratura». 

Ma tra i loschi e avidi figuri che perseguitano Regina, perché deve nascondere i diamanti per milioni di euro che Charlie agguantò, il più subdolo e pericoloso pare a un certo punto proprio il bel tenebroso Joshua (Mark Wahlberg), nelle cui braccia solide Regina s'è rifugiata d'istinto... Come Cary Grant di Il sospetto... Infatti nel Donen, Grant era Joshua e l'olandesina-irlandese Audrey Hepburn, era Regina. 

Anna Karina
Newton e Wahlberg sono, come bravura, dello stesso livello tecnica, solo che ci sembrano più mostruosi e sopra le righe perché sopportano sulle loro spalle (e criticano) ben 50 anni di performances in più, dallo snodarsi della nouvelle vague (Tirate sul pianista, Anna Karina, Charles Aznavour, Magali Noel, Godard, la tomba di Truffaut su cui Demme scrive «merci», l'hotel Langlois...) a Wong Kar-wai e Twycker...Insomma è giusto che il pubblico in cerca di emozioni «primitive» o primordiali si ecciti in modo particolarmente barbaro e selvaggio prescindendo completamente dall'omaggio che qui Demme fa esplicitamente, platealmente, al cinema francese di rottura degli anni 50. Ciò che non si capisce e non si condivide ha sempre una forza primitiva. 


All' Induno di Roma, nei primi anni 70, fu ferocemente «linciato» dalla sensibile ricezione romana un altro oggetto pericoloso del primo tipo, La mia notte con Maud di Rohmer. Gli spettatori erano inferociti e allibiti, anche lì, perché le loro aspettive, i loro desideri, la loro libidine, erano state completamente beffate. Non sopportavano troppi piaceri dlla carne e dello spirito. Al catechismo gli avevano consigliato moderazione. Esempio di questa libertà totale di fraseggio. Demme incontra furante il casting due attori che adora a prima vista, Simon Abkarian e Magali Noel. Non ci sono parti per loro nella sceneggiatura. Dunque butta nel cesso la sceneggiatura per un po' e li inserisce, un po' alla Tati (di cui vide a 8 anni grazie a genitori cinefili Le vacanze di Monsiuer Hulot). E la misteriosa signora in nero la ricorderemo per un bel po'.
Simon Akarian

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