venerdì 28 aprile 2017

Demme. Il silenzio degli innocenti










Roberto Silvestri 

Attenti alle immagini. Sono criminali. Pericolose. Vogliono farvi credere con evidenza qualcosa e per provocare un senso più alto di realtà attirano l'anima agli occhi e vi rendono ciechi. Ma sono le immagini, non altro, a creare il desiderio. 



Attenti al montaggi. E' lì che si consuma il trucco delle tre carte: si segue il veloce correre degli eventi, si ritiene di averne capito il senso e si sbaglia tutto, inevitabilmente. 


Attenti alla tecnologia. Ai meravigliosi sistemi di puntamento elettronici con laser incorporato per vedere (magari verde) e colpire nel buio: più si vede meno si vede. Ma è lì il mito del desiderio soddisfatto.  



Attenti al ritmo puro, senza soste, ai tempi asettici, senza frange e senza soste (improduttive). Non sempre vi si scorgerà l'emergere dell'uomo nuovo cibernetico, anzi più spesso riscopriremo i nostri corpi vecchi massacrati da ritmi di lavoro sempre più scassa ossa. Pronti al crimine. 
Attenti a tutto ciò. Ma è questo il nostro immaginario, il mondo, di fuori e di dentro, in cui viviamo e lottiamo, e dunque da osservare bene negli occhi. Da non evitare fuggendo. 

Jonathan Demme e il ... mostro 
Nel Silenzio degli innocenti il più interessante cineasta d'America di oggi, Jonathan Demme, di tutto questo tratta. Del declino non del cinema classico o anticlassico di genere. Ma dei meccanismi fondamentali, tempo e spazio, del credere e sentire americano, e poi globale, codificato tra Griffith e Hitchcock, tra Spielberg a Lynch. 
Attrezzature culturali dominanti e vincenti, ma non per questo omogenee, imbattibili, senza crepe, senza crisi. Un tempo i critici aspiravano a diventare cineasti. Oggi, qualche cineasta è il miglior critico delle immagini, oltre che dello stato di cose esistenti. Non solo Wenders, Demme, Dante, Godard e John Waters, ma anche chi il mestiere di critico cinematografico non lo ha mai esercitato, da Landis a De Palma. 


L'autore del finish produttivo conclusivo di questo film, una delle più profonde meditazioni viventi sullo stato (pessimo) delle cose oggi, è proprio l'ex critico (ma di rock) Jonathan Demme, nato a Rockville Centre, stato di New York, nel 1944, svezzato a Miami e tornato a Manhattan, Soho, che in Il silenzio degli innocenti (saggio sul cinema contemporaneo e spietato editoriale contro la perversione dominante nella politica nordamericana dell'inconscio), ha coordinato la messa in scena del terzo romanzo di successo di Thomas Harris (Mondadori L. 30 mila), la cui visualità suggestiva è già provata dai precedenti best seller trasformati in ottimi film: Black Sunday da John Frankenheimer (1976) e Manhunter da Michael Mann (1986).

Charles Napier fatto fesso da Hannibal the Cannibal 
Come si vede al centro della sua opera è la figura dell'assassino seriale d'epoca televisiva, non più il vittoriano e aristocratico mostro di Dusseldorf, simbolo e sintomo della società dello spettacolo e dei traumatizzanti mutamenti sessuali, posteriori al primo conflitto mondiale. Qui il gioco si fa mediologico, è l'individuo contro tutti, spinto da complesse psicopatologie di origini politiche, esistenziali e sessuali (in Black Sunday erano spietati terroristi statunitensi filopalestinesi: il film fu proibito nel Nicaragua sandinista.. .) come risposta arcaica, rituale, tragica a un potere che si ritiene devastante e arcaico, rituale, tragico e non meno sanguinario. 


Clarice Sterling (Jodie Foster, la migliore donna con la pistola degli ultimi anni, figlia di un poli- ziotto qualunque ucciso nel compimento del proprio dovere, recluta Fbi, colta, laureata, rampante e politicizzata (Demme aggiunge al romanzo una sua indagine privata sulle deviazioni anti black panther e non solo de1l'Fbi durante l'epoca Hoover), viene inviata nel manicomio criminale dove è internato a vita il dottor Hannibal Lecter (Anthony Hopkins), psichiatra illustre ma dalle pericolosissime tendenze cannibalesche. 


Se tra i due scatterà un minimo di comunicazione il capo di Clarice, Jack Crawford (Scott Glenn) spera di ricavarne elementi preziosi per indagare su un mostro, denominato dai massmedia Buffalo Bill che uccide donne solo dai fianchi larghi perché sono più facili da scuoiare. 
I duetti Foster-Hopkins sono da sballo per Clarice che, rispetto al viscido e sadico direttore del manicomio Frederick Chilton fa un figurone e che viene conquistata dalla sensibilità e perspicacia (addirittura olfattiva) del suo sensuale e pericolosissimo antagonista (con tanto di museruola regolamentare). Fino ad aprirsi come non mai. Riuscirà a decifrare quale, tra gli ex pazienti di Lecter, è l'uomo che abbandona un rarissimo insetto, la  farfalla-sfinge a testa di morto, su ogni sua vittima?


Quella farfalla notturna e asiatica (così chiamata perché reca l'immagine di un teschio umano alla base delle ali), simboleggia il disperato e frustrato anelito dell'assassino a diventare donna: e l'efferato killer, con le pelli scuoiate delle vittime, sta cucendosi un meraviglioso vestito da donna che più da donna non si può... Il cerchio si stringe. Ma, per scoprire dove è il covo del mostro, braccato paral- lelamente anche dal suo capo, messo sull'attenti solo perché l'ultima rapita è la figlia di una senatrice, Clarice dovrà fare di testa sua, agendo come Callaghan, senza rete e protezione istituzionale. 
E anche Jonathan Demme, cui non è più sufficiente la lezione di Griffith. Che ha ben assimilato e che ha imparato via via a distorcere con melodia e armonia punk.


Osservate infatti la perizia a orologeria del suo montaggio parallelo incalzante. Ebbene il «finish» è del tutto scombussolato e ferocemente sarcastico rispetto alla mitologia del bel finale che tutti esigono: dal generale Schwarzkopf  (gli occhiali a raggi X che penetrano il buio sono proprietà dei cattivi, ma non sempre funzionano), a Hitchcock (che odierebbe il finale depravato ed eretico di Demme), da Spielberg (l'umorismo di Demme, e la sua ossessione per insetti e pecore, è ben più sferzante e umile) a Lynch che Demme non cita mai perché è del tutto incapace di orpellismi. 
Dunque Demme ha incrociato per la prima volta lo psico-thriller (questo è il genere prediletto da Harris, ai confini dell'horror e spesso, al di là di esso), dopo un apprendistato nella factory di Roger Corman (delizioso qui nel cammeo del direttore delI'Fbi) e una dozzina di film disomogeni per budget, senso e genere: dal movie teenagers d'azione, sesso, umorismo (e «femminismo») della New World, metà e fine anni '70, al saggio su Hitchcock Il segno degli Hannah ('79), dai documentari concettuali o performer-movie Stop Making Sense sui Talking Heads ('84) e Swimming to Cambodia ('87) sul Benigni Usa, Spalding Grey (tra l'altro Demme adora Benigni, si è commosso perfino vedendo il trailer di La vita è bella), alle commedie Orion-fine anni '80, trionfo della contaminazione psicoetnica, dell'irrisione ai ruoli sessuali stabiliti e ai propri set mentali, sempre in stato d'allarme.


Un po' a sé resta nella filmografia il documentario politico in video Haiti Dreams of Democracy, concentrato più sulla ricchezza culturale, musicale e linguistica dell'isola che piagnisteo sulla passione e morte di un popolo super-oppresso, anche perché girato aspettando Aristide (con cui farà i conti più tardi in The Agronomist). Da quel video provengono proprio i musicisti haitiani Les Freres Parents, che con una loro canzone chiudono questo Silence of the Lambs,  e che sono una band indipendente non sponsorizzata né controllata dalle majors discografiche (come Demme non è mai stato controllato da nessuna major).


Visto che il cinema preferito di Demme è quello di Bertolucci (e della nouvelle vague francese, Truffaut soprattutto), e che negli Usa cominciare da Novecento proprio non è concesso, con molta umiltà e passo dopo passo Demme è diventato uno dei 100 cineasti che contano, un regista che incassa molto (anche se poi lavora pressocché gratis e da militante per Channel 4 o la Pbs), che sta oggi rendendo davvero difficile la vita ai colossi hollywoodiani di genere (nessun film da Oscar, neppure Coppola o Balla coi lupi ha la stessa forza devastante l'immaginario di Silenzio degli innocente), e che si accosta alla politica e alle problematiche profonde d'America (e non solo) con gli occhi e il cuore obliqui richiesti dal tempo e dal consumo: niente prediche, niente saccenza, niente vi dico io cosa dire, pensare e in cosa credere. Ma occhi e nervi e cuore molto aperti. Le sue "variazioni Goldberg" (ascoltare il soundtrack) come quello di Glenn Gould respirano di umano. Dieci anni fa gli riuscì il colpo di realizzare una ballata acida sul kennedismo (Melvin & Howard) ma con Reagan il rapporto tra «cinema e politica cadde sempre più nelle mani del diparti- mento di stato. Non a caso dovette abbandonare la regia di Swing Shift, per le insopportabili bizze di Goldie Hawn ma anche perché trattava un argomento scottante (l'insorgenza del proletariato fem- minile alla fine del I1 conflitto mondiale, apice dello scontro di classe negli States): gli riscrissero il copione (colpevole il mai pago arrivista Robert Towne). Ecco perché Demme è anche uno dei cineasti più schierati nel movimento anti apartheid oggi.

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