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Anne Hathaway (Kym) |
Roberto Silvestri
Facevano come «i morti», e si seppellivano sotto manti di foglie. Poche ore
prima del suo ultimo giorno di vita, «la tomba nel bosco» è stato l'ultimo
gioco profetico del piccolo Herbie. La sorella più grande, Kym (Anne
Hathaway), drogata persa, impasticcata di tutto, solo con Herbie ritrovava un
po' di se stessa, ma quel giorno... Quel maledetto ritorno a casa in auto non
ci sarebbe più stato. Il piccolo muore affogato, dopo un salto nel vuoto
della macchina. Anche Kym resterà metaforicamente sepolta sotto quel manto di
foglie, dove giace anche il milite ignoto di Corea, Vietnam, Iraq,
Afghanistan, Palestina, New Orleans...
I sensi di colpa possono essere tombe
da cui non si torna mai più indietro. Ma questo è il passato indicibile, è il
segreto che non dovevamo neanche rivelare, e che scopriremo molto più avanti
nell'arabesque comico horror jazz Rachel Getting Married (Rachele sta per sposarsi) di Jonathan Demme,
in gara a Venezia 2008, opera indipendente come li facevano negli anni sessanta e settanta
Rafelson e Cassavetes, distribuita Sony, alla cinepresa
l'impressionista/espressionista Declan Quinn.
Un puro distillato di emozioni
biodinamiche, un set di amici-compagni-familiari di Demme: poeti (il
sino-americano Beau Sia), attori (Anna Deavere Smith), cineasti (Roger Corman
e Anisa George), musicisti world (soprattutto iracheni, greci e palestinesi),
solisti alla chitarra (suo figlio Brooklyn), sacerdoti rivoluzionari amici
delle Pantere nere (come Il cugino Bobby) e coreografie sincretiche (c'è
anche una scuola di samba) che danno alle immagini quel senso in più
provocato da una calda, infinita jam-session per oltre cento invitati.
Il
film è, in buona sostanza, una parata transculturale spedita al mondo come
cartolina di auguri a Obama per vincere le presidenziali che (speriamo) sconvolgeranno
il mondo, perché, tra l'altro, danno moto perpetuo alle immagini le armonie e
i ritmi di Zafer Tawil e del suo oud, del jazzista Donald Harrison jr., del
percussionista arabo d'America Johnny Farraj e del suo «ria», del
trombettista iracheno e suonatore di santoor Amir Elsaffar, della vocalist
siriana Gaida Hinnawi, decostruttrice del tradizionale «maqam» arabo proprio
come Demme decostruisce, per inventare poliritmie più incalzanti, il cinema
d'azione psicologico alla hollywoodiana, e del gigante palestinese del buzq,
Tareq Abboushi, del pianista greco Dimitrios Mikelis.
Ma ci saranno anche
Neil Young (nello spirito) e Robin Hitchcock, a cui Demme già dedicò un
toccante ritratto, e che ricambia. La giamaicana Sister Carol East (suo il Wild Thing versione reggae sui titoli di coda di Qualcosa di travolgente) che esegue
Dread Natty Congo, la dj Anita Sarko....e poi si tifa bianco-nero: il cuore
della storia è un matrimonio felice tra un uomo d'affari black e una rampolla
bianca della media borghesia agiata e liberal dell'east coast. Felice coppia,
ma i fantasmi del passato rimangono, e anche tutti i problemi del presente,
snocciolati via via attraverso sanguinose allusioni di dialogo o presenze di
cast (guerra, torture nelle basi Usa stile Guantanamo, schiavitù del lavoro, la
violenza della polizia, Katrina, Haiti...).
Anche se la coppia si trasferirà
per vivere (e non è un caso) proprio nelle ridenti Hawaii, care a Barack. E
Kym? Ricoverata in riabilitazione da tossicodipendenza, l'«addicted» che fece
Il diavolo veste Prada - durezza negli occhi da Winona Ryder, dolcezza di
gesti da Liv Tyler, oscenità linguistiche alla Bukowski - viene dimessa per
partecipare al matrimonio della sorella, psicologa laureata, Rachel (Rosemarie
DeWitt), con l'obbligo di proseguire una terapia di gruppo. Presenza pesante.
Come alimentatore di nevrosi e psicosi la famiglia non ha rivali (Family life, di Ken Loach), anche senza
quella doppia tragedia alle spalle. Qui comincia davvero il più strano e
originale degli home-movie party, quando un suo compagno di sventura e di
clausura riabilitativa, un drogato «piromane perso», saluta sferzante Kym (e
una sua probabile amante nera): meglio bruciare tutto che trasformarsi in una
«automobile-pallottola» killer.
Da allora, camera a mano, e spesso telecamera
digitale, entreremo in un interno (e negli esterni) di famiglia, con
giardino, piscina e stanze di sopra dei ricordi e dei segreti, in una villa
grondante agiatezza, libri, dolore, humor, sesso rapido, cattiveria,
allusioni politiche radical, riti di matrimonio del tutto liberi e inventati,
e perfino gioia (alla Frank Capra) di vivere e grinta (alla F.D.Roosevelt) di
andare avanti senza paura, rimboccandosi tutti le maniche, nonostante un
passato così dark.
Il matrimonio, ma questo è il futuro del film, sarà il più
bello mai visto, e non parliamo ancora della colonna sonora «live», da
immortalare nell'iPod (neanche Robert Altman ne coreografò uno simile,
neanche Arthur Penn trovò in Il ristorante di Alice un set così libero, rock,
hippy e deliziosamente promiscuo). Però, come fossimo in un faticoso concorso
di oratoria, o nelle ultime primarie democratiche, nella famiglia di Kym se
ne diranno tutti di tutti i colori.
Certo, una volta a pancia piena, e grazie
alle premure gastronomiche eccessive di papà Paul (il grande Bill Iwin),
antinazista al punto di non nominare mai la parola «hamburger» e da usare
«nachtmare» invece di «nightmare» per dire incubo, perché, in tedesco, è
molto più atroce. Il tutto secondo le istruzioni dettagliate, ma svincolate
da ogni «regola classica narrativa» della sceneggiatrice, di alessandrina
ricercatezza.
Che è addirittura la giovane, fantasiosa e perspicace figlia di
Sidney Lumet, Jenny. Non mancherà perfino una gara tra padre e genero (Tunde
Adebimpe, il cantante dei Tv on the Radio) «a chi riempie meglio e con più
stoviglie la lavastoviglie», che vide in lizza, nei ricordi infantili di
Jenny, il regista-coreografo Bob Fosse e suo papà. Voleranno gli schiaffi,
reali e verbali, perfino tra una rigida madre New England (la divorziata e
«irresponsabile» Debra Winger) e sua figlia «l'assassina involontaria», cui
sarà bene non prestare mai più un'automobile, come fossimo in una
spregiudicata «corale» di Andrè Desplechin.
Ci saranno concorsi di perfidia
anche durante il rituale brindisi agli sposi, carognate psicologiche per
strapparsi i posti «migliori» nel tavolo della sposa e per conquistarsi, con
il ruolo di damigella d'onore, che potrebbe sfuggire alla fragile Kym, anche
il diritto a scegliere il colore del «sari indiano» obbligatorio, affinché
non provochi sfacciatamente il destino. Grigio, mai viola.
Nel Connecticut,
lo stato dal sistema fiscale più complicato del mondo, la cui rigidezza
puritana fu santificata nel fuoco che bruciò «le vergini di Salem», siamo
abituati alla crudeltà incestuosa massima e ai viaggi nel tempo e nello
spazio più azzardati: Mark Twain trascinò proprio un giovane del Connecticut
alla tavola rotonda di re Artù, affinché imparasse e maneggiasse, contro la
vecchia Europa, i fondamenti della politica forgiati nel medioevo. Qui Demme
ci consiglia di fare l'operazione opposta. Di portare nel Connecticut, e alla
tavola rotonda di un pranzo di nozze, India, Cina, Brasile, Medio Oriente e
Europa perché, senza l'aiuto delle più antiche civiltà, gli Stati uniti
d'America cadranno nel baratro.
Demme, che in questi mesi sta lavorando a un
documentario su Katrina e su alcune famiglie di New Orleans che tutto hanno
perso per colpa del «sistema America», ma che vogliono lottare perché
l'America è anche, contraddittoriamente il peggio e il meglio del mondo,
nella più tragica delle sue commedie, in questo «bellissimo film casalingo»
che già luccica di Leoni d'oro, non rende piacevoli i suoi personaggi, ma
vivi, problematici. Siamo talmente immersi nelle vicissitudini di questa
famiglia che sembrerà la nostra, che, se ci sarà un attimo di sbandamento
onirico, sarà solo nel momento in cui, a festa finita, tutti vanno a dormire.
E, un attimo dopo, ci risveglieremo con Kym in lotta con i suoi fantasmi.
e il titolo del manifesto fu:
Il matrimonio? Piace solo col cortocircuito
Un set (molto) altmaniano ricreato dal regista per una storia scritta da
Jenny Lumet, che ruota intorno a Kym (Anne Hathaway), uscita da un centro di
disintossicazione per recarsi al matrimonio della sorella Rachel (Rosemarie
DeWitt). Una splendida tragicommedia, dai toni acidi e surreali, uno spaccato
di America pro-Obama nel cuore del Connecticut
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