Morando, Lino, Tullio, Lietta, Oscar... I nostri cari maestri della critica cinematografica di sinistra (per quanto moderata o liberal-socialista fossero) erano amici, ma nello stesso tempo erano i nostri "nemici di penna" prediletti (quando Giovanni Grazzini attaccava Godard, premiato a Venezia, o Gian Luigi Rondi distruggeva Lynch, era ovvio, erano il tetro Tempo o il confindustriale Corriere a fare il loro lavoro di pompieri) ma ci furono grandi clash su Matarazzo, Straub, Antonio Pietrangeli, Alberto Grifi, l'ultimo Rocha, Guerre Stellari e la new Hollywood, il femminismo, il noir americano degli anni 40 e il ruolo delle dark ladies, gli africani e gli arabi del nuovo cinema, l'effetto Nicolini...
Tutti loro scrivevano comunque con profondità e umorismo, ma nonostante un'onesta intellettuale e un rigore professionale inarrivabili, scrivevano con esemplare chiarezza. Erano scienziati del senso comune (come ogni critico deve essere, soprattutto se appartiene a una generazione che ha subito la guerra). Ma non nell'Italia degli anni 70 che noi ventenni e trentenni, muniti di strutturalismo e semiologia, volevamo capovolgere, anche nel linguaggio, pur utilizzando gergo e prosodia piuttosto oltranzista, illegibile, sgolata, sarcastica e atonale.
Come si faceva a scrivere nello stesso modo, mantenendo l'aplomb, e sopportando istituzioni non cristalline e un linciaggio mediatico ripetuto e continuato da parte dei mass-media (di cui le giovani generazioni di oggi proprio non si rendono conto) dopo il Maggio 68, il massacro di Kent, l'assassinio di Malcolm X e Fred Hampton, Avola, Pinelli che vola dalla questura, la strage della banca dell'Agricoltura, la stazione sbriciolata di Bologna, la macchina del fango stile Inquisizione riesumata contro i mostri Braibanti, Valpreda, Pasolini? Per non parlare della censura e del massacro dei film, italiani e stranieri, che continua tuttora in tv grazie alla legge Mammì. Mentre vedevamo il Sncci sprofondare per sempre in un cono d'ombra, incapace di diventare soggetto culturale pienamente autonomo, il nostro contributo culturale fu quello di impedire che troppe anime belle, matematicamente corrette, corressero come dietro il pifferaio di Hamlim verso il suicidio della lotta armata. E Morando avrebbe capito di cosa sto parlando, visto che il figlio, coinvolto nell'assassinio di Tobagi, vive da allora esule a Cuba.
La colonna sonora virtuale di quegli anni era curata da Stockhausen e Nono, Alvin Curran e Antonello Neri. La messa in scena da Carmelo Bene, la sceneggiatura era scritta da Nanni Balestrini e il training atletico era gestito dal Living Theatre. Tutto questo vuol dire che eravamo per un cinema impegnato e dai contenuti progressisti esibiti come Stallone fa coi suoi muscoli? Niente affatto. Eravamo per un cinema capace di fare politica con le sue sole forze e forme. Avremmo risposto come Alain Robbe Grillet ai burocrati sovietici: "A Mosca mi dicevano se i vostri libri non servono alla rivoluzione non servono a niente e io rispondevo se la vostra rivoluzione non permette all'artista di servire a qualcosa, non serve a niente". Questa citazione è oltretutto rubata proprio a un famoso libretto di Morandini, Il nuovo cinema francese (1964). E Morandini, che firmò la famosa lettera contro il commissario Calabresi rimproverandolo per la sua celebre disattenzione, conosceva tutto questo tanto che sulla sua autobiografia scrive: "oggi il potere ha bisogno di una critica debole, non decisiva, secondaria e subordinata alle altre tecniche di persuasione, manipolazione e conquista del pubblico: pubblicità, interviste, anticipazioni, sondaggi, classifica, chiacchiera televisiva" e anche : "i giornalisti, o almeno il 50% e più di loro, passano la prima metà della loro vita a scrivere di quel che non sanno e la seconda a tacere di quel che sanno".
Come si faceva a scrivere nello stesso modo, mantenendo l'aplomb, e sopportando istituzioni non cristalline e un linciaggio mediatico ripetuto e continuato da parte dei mass-media (di cui le giovani generazioni di oggi proprio non si rendono conto) dopo il Maggio 68, il massacro di Kent, l'assassinio di Malcolm X e Fred Hampton, Avola, Pinelli che vola dalla questura, la strage della banca dell'Agricoltura, la stazione sbriciolata di Bologna, la macchina del fango stile Inquisizione riesumata contro i mostri Braibanti, Valpreda, Pasolini? Per non parlare della censura e del massacro dei film, italiani e stranieri, che continua tuttora in tv grazie alla legge Mammì. Mentre vedevamo il Sncci sprofondare per sempre in un cono d'ombra, incapace di diventare soggetto culturale pienamente autonomo, il nostro contributo culturale fu quello di impedire che troppe anime belle, matematicamente corrette, corressero come dietro il pifferaio di Hamlim verso il suicidio della lotta armata. E Morando avrebbe capito di cosa sto parlando, visto che il figlio, coinvolto nell'assassinio di Tobagi, vive da allora esule a Cuba.
La colonna sonora virtuale di quegli anni era curata da Stockhausen e Nono, Alvin Curran e Antonello Neri. La messa in scena da Carmelo Bene, la sceneggiatura era scritta da Nanni Balestrini e il training atletico era gestito dal Living Theatre. Tutto questo vuol dire che eravamo per un cinema impegnato e dai contenuti progressisti esibiti come Stallone fa coi suoi muscoli? Niente affatto. Eravamo per un cinema capace di fare politica con le sue sole forze e forme. Avremmo risposto come Alain Robbe Grillet ai burocrati sovietici: "A Mosca mi dicevano se i vostri libri non servono alla rivoluzione non servono a niente e io rispondevo se la vostra rivoluzione non permette all'artista di servire a qualcosa, non serve a niente". Questa citazione è oltretutto rubata proprio a un famoso libretto di Morandini, Il nuovo cinema francese (1964). E Morandini, che firmò la famosa lettera contro il commissario Calabresi rimproverandolo per la sua celebre disattenzione, conosceva tutto questo tanto che sulla sua autobiografia scrive: "oggi il potere ha bisogno di una critica debole, non decisiva, secondaria e subordinata alle altre tecniche di persuasione, manipolazione e conquista del pubblico: pubblicità, interviste, anticipazioni, sondaggi, classifica, chiacchiera televisiva" e anche : "i giornalisti, o almeno il 50% e più di loro, passano la prima metà della loro vita a scrivere di quel che non sanno e la seconda a tacere di quel che sanno".
Però. I critici della sinistra moderata non appoggiavano, tranne Cosulich (e Moravia), lo sperimentalismo più radicale, l'horror camp e le nuove tendenze con la passione richiesta. Non capivano la produttività dell'effimero e neppure Joe Dante e il trash. Le nostre forme di ermetismo combattente. Possedevano un Panteon di Autori Sacri molto discutibile perché si trattava di schierarsi sempre con i soli cineasti indiscutibili... Su Repubblica neonata, con la stessa foga con la quale oggi Monda fa campagna contro i noiosi e illegibili film saggio di Godard, si fece propaganda a puntate contro il cinema "estremamente strano" di John Waters, Frank Henenlotter e Paul Bartel (emarginando e isolando da sempre una loro illustre firma, Alberto Farassino che del cinema estremo era radiografo e speleologo). Mentre difendevano perfino Prove d'orchestra e, per ricordare una deliziosa gaffe di Morandini sulla voce Treccani, tutti i film di Paolo ed Emilio Taviani. Ci rivolgevamo, allora, molto di più ai fratelli maggiori, come Enzo Ungari, Adriano Aprà, Serge Daney, Alberto Abruzzese, o ai nonni (Cesare Brandi) o alle riviste di tendenza (Cahiers, Sight & Sound, Filmcritica, Cinema & Film) o ai teorici che maneggiavano bene Hjemslev, Derrida, Kristeva e Foucault (Emilio Garroni).
Morando, Lino, Tullio, Lietta, Oscar.... certo, che nomi strani avevano i critici di papà.
Il più inusuale di tutti era proprio Morando, che scampò per miracolo - e per intervento degli zii - a un nome ancora più insostenibile, all'italianizzazione del biblico Mordechai.
Lo racconta in Je m'appelle Morando - Alfabeto Morandini l'omaggio-confessione che Daniele Segre gli ha girato attorno con amore nel 2010, ed è stato proiettato dalla Festa di Roma per ricordare l'amico scomparso a 91 anni il 17 ottobre scorso.
Nel film, girato in bianco e nero e a colori, tra Levanto e Milano, nella sua casa rigonfia di libri e di schedari d'archivio "Nonino", racconta la sua vita prendendo spunto dall'alfabeto... J come Juventus (purtroppo)... R come Nicholas Ray e come Satyajit Ray....S come sinistra politica che non sa fare il suo lavoro... e cadenzando il flusso biografico con l'hit parade dei suoi nove film preferiti, decennio dopo decennio. Vediamolo:
Anni 20: Il cameraman di Buster Keaton
Anni 30: L'uomo di Aran di Robert Flaherty
Anni 40: Amanti perduti di Marcel Carné (dalla celebre battuta "Je m'appelle Garance" prende il titolo il film di Segre)
Anni 50: Hiroshima mon amour di Alain Resnais
Anni 60: 8½ di Federico Fellini
Anni 70: Nashville di Robert Altman
Anni 80: Fanny e Alexander di Ingmar Bergman
Anni 90: Madre e figlio di Aleksandr Sokurov
Anni 2000: Vincere di Marco Bellocchio
"Come critico ho sempre pensato di essere politeista"....
Nel frattempo, trattando di amore ("come ho conosciuto, colpo di fulmine, la mia futura moglie Laura a Levanto"), di amicizia ("le mie amiche di adolescente sono rimaste le mie amiche tutt'oggi"), di morte ("non la temo, temo la decrepitezza"), di processi subiti e vinti (perfino per aver sconsigliato seccamente sul settimanale Tempo il film di un regista mai amato, forse per la sua romanità, Luigi Magni, Scipione detto anche l'Africano e contro la McDonald, probabilmente denigrata in una recensione), di piaceri (le sigarette e il vino, come per noi il rock e le canne), continua febbrile a battere i tasti di una Olivetti Lettera 44.
La prova schiacciante di un gap generazionale. Come Luigi Pintor fino alla fine, anche Morandini non ha mai tradito la macchina da scrivere. Noi, i giovani degli anni 80, sì, col computer, subito. "Scrivo lentamente, nonostante sia giornalista professionista dal 1947. Per esempio per completare una scheda-film del Morandini impiego non meno di un'ora e mezzo". Ma il suo libro di memorie, Non sono che un critico, edito dal Castoro, è pieno di aforismi pungenti e di deliziosa autoironia platonica: "ho il sospetto - come dice una mia zia milanese a 18 carati, di aver passato tutta la vita guardando un muro e un lenzuolo bianco sopra quel muro, voltando le spalle alla realtà". Frutto di questa strana postura zen a parte le 60 mila schede del Morandini, una Storia del cinema che Garzanti ha editato nel 1998 (scritta con Goffredo Fofi e Gianni Volpi), una serie di monografie illuminanti (John Huston e Ermanno Olmi), il libro di poesie Dall'una all'altra, che contiene le fotografie della nipotina Francesca Fago, le recensioni televisive, un intervento sugli spot (al fianco di Abruzzese) e un libro dedicato a 60 anni di cinema delle donne italiane, dalla notari a Alice Rorhwacher.
Nel film, girato in bianco e nero e a colori, tra Levanto e Milano, nella sua casa rigonfia di libri e di schedari d'archivio "Nonino", racconta la sua vita prendendo spunto dall'alfabeto... J come Juventus (purtroppo)... R come Nicholas Ray e come Satyajit Ray....S come sinistra politica che non sa fare il suo lavoro... e cadenzando il flusso biografico con l'hit parade dei suoi nove film preferiti, decennio dopo decennio. Vediamolo:
Anni 20: Il cameraman di Buster Keaton
Anni 30: L'uomo di Aran di Robert Flaherty
Anni 40: Amanti perduti di Marcel Carné (dalla celebre battuta "Je m'appelle Garance" prende il titolo il film di Segre)
Anni 50: Hiroshima mon amour di Alain Resnais
Anni 60: 8½ di Federico Fellini
Anni 70: Nashville di Robert Altman
Anni 80: Fanny e Alexander di Ingmar Bergman
Anni 90: Madre e figlio di Aleksandr Sokurov
Anni 2000: Vincere di Marco Bellocchio
"Come critico ho sempre pensato di essere politeista"....
Nel frattempo, trattando di amore ("come ho conosciuto, colpo di fulmine, la mia futura moglie Laura a Levanto"), di amicizia ("le mie amiche di adolescente sono rimaste le mie amiche tutt'oggi"), di morte ("non la temo, temo la decrepitezza"), di processi subiti e vinti (perfino per aver sconsigliato seccamente sul settimanale Tempo il film di un regista mai amato, forse per la sua romanità, Luigi Magni, Scipione detto anche l'Africano e contro la McDonald, probabilmente denigrata in una recensione), di piaceri (le sigarette e il vino, come per noi il rock e le canne), continua febbrile a battere i tasti di una Olivetti Lettera 44.
La prova schiacciante di un gap generazionale. Come Luigi Pintor fino alla fine, anche Morandini non ha mai tradito la macchina da scrivere. Noi, i giovani degli anni 80, sì, col computer, subito. "Scrivo lentamente, nonostante sia giornalista professionista dal 1947. Per esempio per completare una scheda-film del Morandini impiego non meno di un'ora e mezzo". Ma il suo libro di memorie, Non sono che un critico, edito dal Castoro, è pieno di aforismi pungenti e di deliziosa autoironia platonica: "ho il sospetto - come dice una mia zia milanese a 18 carati, di aver passato tutta la vita guardando un muro e un lenzuolo bianco sopra quel muro, voltando le spalle alla realtà". Frutto di questa strana postura zen a parte le 60 mila schede del Morandini, una Storia del cinema che Garzanti ha editato nel 1998 (scritta con Goffredo Fofi e Gianni Volpi), una serie di monografie illuminanti (John Huston e Ermanno Olmi), il libro di poesie Dall'una all'altra, che contiene le fotografie della nipotina Francesca Fago, le recensioni televisive, un intervento sugli spot (al fianco di Abruzzese) e un libro dedicato a 60 anni di cinema delle donne italiane, dalla notari a Alice Rorhwacher.
Ma, nome proprio a parte, le qualità e eccentricità del critico cinematografico milanese del Giorno (in questa veste l'ho conosciuto) e prima ancora di La Notte, Stasera, Le Ore e L'Osservatore politico e letterario, erano tante. Sceneggiatore come Enzo Ungari (Non lo so ancora, scritto con la regista Fabiana Sargentini, 2013), attore come Tatti Sanguineti, e protagonista di numerosi altri documentari a lui dedicati: A Laura di Amedeo Fago (2004), Morando Morandini non sono che un critico di Tonino Curagi e Anna Gorio (2009), Morando's Music di Luigi Faccini (2012), Rubando bellezza di Laura Bagnoli, Danny Bianciardi e Fulvio Wetzl. Un genere, quello del ritratto del critico, che sta attraversano il suo momento di gloria. Pensiamo all'omaggio a Roger Ebert Life itself di Steve James (2014) e a Gian Luigi Rondi - Vita, cinema passione di Giorgio Treves (2015) presentato sempre alla festa di Roma, entrambi, come Morantini, anche sceneggiatori, attori, dialoghisti....
E ancora. La famiglia. Di cinefili raffinati. La moglie Laura che, con Luisa, una figlia, attrice e critica, formerà la triade del Morandini. Inoltre l'altra figlia, la maggiore, Lia, ormai del ramo romano, moglie del regista e scenografo Amedeo Fago, la nipote Francesca, fotografa e critica fotografica....
Poi la balbuzie, come Marco Giusti, che controlla anche lui perfettamente quando parla in pubblico e di cui forse ha scoperto l'origine solo in tarda età. Un trauma infantile: "Un giorno mio padre stava picchiando mia madre che, a un certo punto, si rivolse a me a mi disse: e tu?! non fai niente??? Avevo 4 anni).
E poi la bella e folle impresa familiare di il Morandini che esordisce nel 1998, qualche anno dopo il Mereghetti, nato nel 1993. I milanesi, i nordici in generale (Farinotti è di Piacenza ed è il primo che mette la guida on line senza pudori autoriali) dimostrano di essere più veloci nell'occupare ogni posto di mercato lasciato vuoto: realizzare un volume che cataloghi e valuti con acume e competenza tutti i film disponibili sul mercato cinematografico e dell'home-video nazionale diventò indispensabile, vista l'offerta gigantesca di film in tv e sul web. L'idea era quella di Leonard Maltin, che la realizzò per il mercato Usa a... 19 anni, già nel 1969.
Mi ricordo che Riccardo Redi, autorevole antichista del cinema, mi guardò come fossi un marziano sciocco quando negli anni 80 gli dissi: "perché non esiste in Italia uno strumento simile al Maltin?" In fondo perfino i francesi, che sono così poco filologhi e compilatori, e in particolare Jean Tulard, hanno la loro cinefila Guide de Films, dal 1990. La vediamo, nel film di Segre, in bella mostra proprio sul tavolo di Morandini, perché l' ispirazione è identica. Un omaggio ai registi (i cento che hanno le 5 stelle del Morandini) che hanno conquistato la piena responsabilità estetica delle loro opere.
Spiega Morandini. "La mia generazione ha vinto una battaglia, quella di restituire ai registi ciò che i produttori volevano strappargli, il controllo creativo dell'opera. Ma ne ho perduta un'altra, che ho combattutto piuttosto in solitudine, quella contro la politica degli autori intesa, in Italia, come proliferazione di opere prime realizzate da circa 200 esordienti, finanziati dallo stato, che mai avrebbero dovuto esordire". Al cinema ombelicare, alle pseudopoetica della "piena espressione di se stessi", alla politica di finanziamento a pioggia per registi lottizzati, Morandini ha opposto un entusiasmante lavoro di ricerca, di generoso aiuto e adorabile fiancheggiamento dei nuovi talenti, colpevoli di non avere santi in paradiso per farsi finanziare dalle commissioni ministeriali pilotate. Il suo occhio e il suo orecchio erano particolarmente sensibili a scovare e incoraggiare narratori e poeti con la cinepresa o la videocamera giovani, originali, innovatori. Ho visto Morando l'ultima volta al festival del cinema muto di Pordenone. L'orecchio non gli funzionava più molto bene, e dunque erano diventati i silent movies i protagonisti delle sue ultime avventure immaginarie nella caverna di Platone. Le mani però continuavano a funzionare benissimo e fino all'ultimo ha collaborato al settimanale Film Tv adoratissimo anche dal nuovo staff, giovanissimo, di redattori.
E poi ci sono i piccoli festival. E il suo lavoro di esperto e giurato per i grandi festival (quando i critici erano ammessi in giuria).
Nel 1984, periodo plumbeo per il nostro cinema, Morandini crea e inizia a dirigere il festival Anteprima, a Bellaria (lo farà ininterrottamente fino al 1997 e poi di nuovo nel 2002) che divenne la nostra capitale del cinema a venire. Ripartendo dai corti di finzione e doc, e addirittura dai cortissimi. Dagli sperimentatori, dai cartoonist, da chi già è scappato all'estero perché in Italia non c'è più speranza. Per aiutare chi non era aiutato da nessuno.
Morandini ascoltava molto. Soprattutto i giovani. Ne scutava e captava la bellezza 'aliena', proprio come Antonioni riusciva con i suoi occhi prensili a osservare l'infinitesimale cambiamento che sconvolgeva i nostri panorami metropolitani senza che gli altri si accorgessero di alcunché. Così.
Tutto il firmamento dei giovani cineasti che oggi non abbiamo più vergogna di presentare nei consessi internazionali, viene consacrato sulla riviera romagnola, da Ciprì e Maresco a Rezza, da Soldini a Rosaleva, da Laurenti a Gianikian-Ricci-Lucchi, da Calogero a Studio Azzurro, da Davide Ferrario a Tavarelli, da Chiara Brambilla a Sandro Baldoni, da Macelloni/Garzella a Michelangelo Frammartino, da Fabiana Sargentini a Pietro Marcello, da Gianfranco Rosi ad Andrea Segre e Stefano Moni....
Gianni Volpi, Antonio Costa, Enrico Ghezzi, Daniele Segre lo affiancano nel corso degli anni. Anche io per qualche anno ho avuto l'onore di lavorare con Morandini & C.. E ricordo l'entusiasmo e l'energia incredibile, più di quella dei "giovani", che metteva nello scegliere le opere da presentare al festival e nel curare le retrospettive parallele, nell'animare i dibattiti con gli autori che diventavano eccitanti e infinite lezioni di cinema.
Lo invidiavamo tutti perché non era solo un critico, ma era stato anche il direttore di una rivista militante come Schermi, che si era battuta, senza le rigidezze settarie di Cinema nuovo, al fianco dei Cahiers du cinema per imporre lo sguardo libero delle nuove onde planetarie, e perché con il Morandini si era preso la responsabilità di una selezione di oltre 20 mila titoli e dei suoi giudizi di merito, visto che era stato lui a introdurre le palline e le stellette come segnaletica del desiderio schermico (non ci piacciono, però, ci ricordano troppo i voti a scuola, e abbiamo cercato su Alias di mischiare un po' le carte, rendendo scizofrenico il piacere schermico, sia luminoso che dark, e trovare repellenti i film medi e ottimi sia i bellissimi che i bruttissimi, sia quelli vettisti che quelli sepolcrali, sia i sovrumani che i subumani).
Lo invidiavamo, inoltre perchè aveva fondato all'inizio del XXI secolo un piccolo appuntamento, il Laura Film Festival di Levanto, dedicato al cinema indipendente e autonomo, di quelli che bisognerebbe incoraggiare in tutta Italia per rendere praticabile una alternativa di mercato alle pellicole più interessanti ma meno sponsorizzate. Insomma aveva risposto alla strategia suicida, da re Erode, di Walter Veltroni ministro della cultura (assassinare tutti i piccoli festival di tendenza o meglio raggrupparli e trasformarli in festival a budget più alto, star tv e tappeti rossi) dando l'indicazione opposta di moltiplicarli e diffonderli ovunque dal basso. In fondo era stato vittima di Veltroni che aveva annichilito in un sol colpo Bellaria Rimini e Cattolica trasformando solo la prima, oggi, in una manifestazione Cl.
E poi invidiavamo Morandini perché era stato attore, e non di film qualunque: Prima della rivoluzione, di Bernardo Bertolucci (1964) e Remake di Ansano Giannarelli nei quali interpretava il ruolo di un intellettuale di sinistra e di un critico cinematografico, cioé di se stesso. "Sono di sinistra - confessa a Segre - anche se la nostra sinistra non riesce a contenere, non ne è capace, una destra particolarmente abile e illiberale. Sono un seguace di Bobbio e di Brera, il mio vero padre spirituale e professionale, che adoravo per la sua generosità e perché mi ha insegnato a riconoscere i vini"
Nato a Milano nel 1924 e comasco per cultura cinefila (vi aveva fondato un cineblub) il più "simpatico degli egoisti" veniva da un giornale di destra, e poi perfino reazionario, La Notte, fino al 1962. Ma il direttore Nutrizio lo aveva trattato come Sam Fuller. Chi scrive di cinema deve conoscere la vita. Dunque fa il critico d'arte, il reporter di cronaca nera e rosa. Ottima università. Anche perché di redattori ce ne sono solo 4 e bisogna fare tutti un po' di tutto. Basterà studiare con attenzione l'opera omnia di un amico di famiglia, Filippo Sacchi, il cinerecensore del Corriere della Sera. E il gioco è fatto.
La Milano di Grassi e Camilla Cederna, della Scala e Dario Fo, Primo Moroni e Enzo Jannacci, di Franco Quadri-Ubu libri- Patalogo e Oreste Del Buono Linus, della Feltrinelli prima di Inge e della pubblicità, della moda e della grafica, dei design e degli architetti, della cultura vivente e operante, farà da sfondo a una una magnifica generazione di cineasti e di critici cinematografici "razionali emotivi", come Ermanno Olmi e Gianni Canova (che fonda Duel e poi I Duellanti, ancora una rivista militante con la quale Morandini collaborerà, prima di approdare a Sky), la società produttivo Indigena di Soldi, Soldini e Kiko Stella, l'indimenticabile Giuseppe Turroni (e i due Porro, Maurizio e Gabriele), Paolo Mereghetti, il gruppo che si forma attorno al prof. Bettetini (Lombezzi, Grasso, Casetti, Farassino, Sanguineti, che viene da Savona), la banda dell'Obraz (e su tutti Enrico Livraghi, Antonello Catacchio, Roberto Duiz), i futuri creatori di Film-Makers (Filippo Pedote e Silvano Cavatorta). In Era la città del cinema di Claudio Casazza si rende un grande omaggio a questa città dell'immaginario, prima ancora che Freccero il situazionista ci metta piede, e Morandini non può che essere, con Nichetti e Lella Costa, uno degli ospiti d'onore. Altro che corazzata Potemkim... Rispetto a Milano, la Messina di Micciché, la Trieste di Kezich-Cosulich, la Torino che presto perderà tutti i suoi gioielli più preziosi (Salza, D'Agnolo Vallan...), e Roma, che raccoglie soprattutto esuli da tutta la penisola (a cominciare dallo spezzino Enzo Ungari, dal genovese Ghezzi, dai toscani Vivarelli, Menon e Melani...) bravissimi nell'inventare la commedia romanesca, sono poca cosa.
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