di Roberto Silvestri
Acquistato dalla Bim esce
in questi giorni in Italia il film che ha vinto l’ultimo festival di Cannes, Deephan
- Una nuova vita di Jacques Audiard, un autore
beniamino del pubblico d’essai a format francese.
Palma d’oro dai “nobili
intenti”, ma pasticciato formalmente come va di moda oggi (non per incapacità
narrative ma per pigrizia culturale e fertilità della formula ‘cronaca vera più
mito’) Deephan è infatti metà presepe
e metà action movie.
Il portiere di condominio servizievole |
Certo, va anche
controcorrente ed è di stringente attualità la storia, costruita attorno alla
vera odissea di Anthonythasan Jesuthasan,
scrittore, attore e profugo politico tamil-cingalese. Non c'è infatti solo “l’esodo
biblico” del fronte Mediterraneo. Decine di migliaia di boat people stanno
fuggendo in questi mesi da Birmania e Bangladesh tra l'indifferenza cinica dei
più ricchi Thailandia, Malesia, Indonesia e dell'opinione pubblica occidentale
ignara dei disastri provocati tra i contadini dalla globalizzazione
capitalistica.
Jesuthasan, ex militante
rivoluzionario tamil, romanziere marxista che ha vissuto lo sterminio del suo
popolo in Sri Lanka, oggi esule in Francia, dopo aver attraversato immani
tragedie politiche, esistenziali, economiche e culturali, è l’autore del
dittico autobiografico Gorilla (2001)
e Traditore (2004), i romanzi dai
quali Audiard ha estratto la sostanza conoscitiva di Dheepan, interpretato dallo stesso Jesuthasan.
La furia di Deephan |
Però proprio lui è stato escluso
dal tavolo degli sceneggiatori, dalla triade Michel Audiard, Noé Debré e Thomas
Bidegain. Sono le piccole contraddizioni colonialiste di una operazione
sedicente antirazzista?
Il pacchetto produttivo poi
comprende l’esagonalità tutta, e al massimo della potenza: Canal +, ministero
della cultura, film commission, banche, finanziatori privati e tv pubblica ...
Soldi che come contropartita richiedono una certa simpatia istuzionale per
l’autorità costituita. E’ il problema del cinema sovvenzionato dallo stato, o
meglio dal governo piuttosto che dalla “società civile”. Questa volta la
promozione è sia per il ministro francese dell’istruzione (che scuola modello
quella che accoglierà Illayaal, la figlia “inventata” dei rifugiati!) e quello
degli interni che fa un figurone concedendo facilmente l’asilo politico perché
mantiene una parvenza umana, nonostante lo scodellare di bugie su bugie sugli
extracomunitari (è un problema del cinema francese di oggi, almeno di quello
sponsorizzato a Cannes 2015: pubblicità progresso del ministero della Giustizia
francese in A testa alta, e del
ministero della sanità in Mon Roi...).
Ma spieghiamoci meglio raccontando la trama del film.
Uno scrupoloso portiere di
periferia – fuggito miracolosamente indenne dallo Sri Lanka, con una falsa
moglie e una falsa figlia di 9 anni, se no la cosa non funzionava (solo la
famiglia è il pilastro della civiltà occidentale), tutti e tre scampati agli
eccidi buddisti del governo autoritario di Colombo del maggio 2009 - si
trasforma (ma è sogno? è realtà?) in una macchina bipolare e schizofrenica.
Affettuoso padre di
famiglia, spasimante pieno di premure verso “la moglie”, che si fa sbirciare da
lui nuda nel bagno, ed efficiente lavoratore da una parte. Ma, dall'altra, una
sorta di giustiziere della notte impazzito, guerrigliero solitario che si
aggira nelle banlieu parigine come un pesce nell'acqua e sgomina, a
pistolettate e bottiglie molotov, le gang afro-maghrebine del giro della
droga...
Era stato infatti un
guerrigliero, una Tigre Tamil, Dheepan, militante del Ltte, Liberation Tigers
of Tamil Ealam, prima incarcerato, poi torturato e infine misteriosamente (?) liberato...
Solo che qui Rambo-Stallone non c'entra.
Siamo talmente ai confini
della realtà e nei territori dell'allucinazione che l'happy end deve essere
assicurato, anche per tranquillizzare il pubblico più xenofobo di Francia.
La “sacra famiglia” di
rifugiati si ricomporrà infatti, legale questa volta, vera, ma in … Gran
Bretagna. Madame Le Pen tirerà un sospiro di sollievo.
Anthonythasan Jesuthasan in "Deephan" |
La falsa moglie è
interpretata dall'attrice indiana di teatro Kalieaswari Srinivasan, madre più
che dilettante, molto maldestra, che insaporisce il suo ruolo di ottima cuoca e
domestica da un vicino di casa potente e mafioso, con qualche finezza
umoristica inattesa, come l'attrazione irresistibile per le droghe leggere e la
pornografia dozzinale delle riviste per soli uomini.
Ma puntualizziamo. Non c'è
stata mai una “guerra civile” in Sri Lanka, come si sintetizza malamente nel
materiale stampa del film di Jacques Audiard. La guerra è stata piuttosto
incivile. Si è assistito impotenti, senza intervento della comunità
internazionale, con giornalisti e fotoreporter occidentali espulsi, al massacro
feroce della minoranza Tamil da parte del governo cingalese buddista di Mahinda
Rajapaksa e del suo esercito.
Gli ultimi 70 mila civili
induisti uccisi, quell'anno, dopo 25 anni di guerra. Nonostante la resa
dell'esercito Tamil. Si chiamò genocidio.
Papà Deephan e la figlia Illayaal |
Chi scappa da una guerra o da un
genocidio si chiama profugo politico. Il profugo politico deve essere accolto
dalla comunità internazionale in base a una convenzione dell' Onu - anno 1951 -
sullo statuto dei rifugiati (l'Italia non era ancora nell'Onu quell'anno, ma ha
ratificato quella convenzione e ha ottenuto aiuto dalla comunità internazionale,
per chi fugge dall'Isis e dalle violenze wahabite e per chi fugge dalle carestie
e dale violenze scatenate dal Fmi). Quando il film è uscito a Cannes la Francia
di Hollande si rifiutava di accogliere la sua quota di rifugiati, fissata
dall'Alto Commissariato Onu in 20 mila, chiedendo di riceverne solo 5-10 mila
in due anni. Anche perché, dicono le statistiche la Francia non sarebbe che il
sesto paese, tra quelli altamente industrializzati, richiesto dagli aventi
diritto (circa 620 mila, nel 2014).
Dal film si capisce anche
perché non si vuole (e non si deve!) finire nelle banlieu più degradate, dove
le sparatorie sono all'ordine del giorno, la delinquenza metafisica regna e
alle donne è imposto il velo, almeno secondo i resoconti giornalieri del
lepennismo, malattia infantile della contagiata sinistra europeo di oggi e dei
suoi organi di deformazione della realtà.
Claudine Vinasithamby, nel ruolo della falsa figlia |
Dheepan, a parte la simpatia a pelle dei due interpreti
principali indo-cingalesi, è un mediocre psico-thriller francese che
smuove soprattutto i sensi di colpa e l'assistenzialismo caritatevole dello
spettatore. E, non essendoci più un “cinema francese" (gli ultimi due film
candidate da Parigi al premio Oscar per il migliore
film straniero sono rispettivamente diretti da un cineaste mauritano e da un cineaste
turco) può permettersi di rubare di qua e di là. Si chiama globalizzazione
d'autore. Con retrogusto imprenditoriale. Il ricco mercato indiano fa molta
gola... Allora. Dal cinema civile italiano dell'epoca Rosi si prende
l'indignazione: perché la questione dei profughi politici è di grande e
struggente attualità. E bisogna pur spezzare qualche lancia in favore del
ministero degli interni perché si riconosca che la Francia ne ha già presi
troppi di questi profughi politici... Niente quote. Da Ken Loach si cita un po'
di umorismo da "dannati della terra", con qualche tocco di femminismo
paternalista per non sembrar populisti (ma non mancano sviolinate
spiritual-religiose). Si pizzica poi, nel finale, qualcosa dalla saga
hollywoodiana di Rambo - anche se sembrerebbe soprattutto una
deviazione onirica - perché quando una macchina di guerra impazzita si rimette
in moto, nella giungla metropolitana, sono dolori per tutti. Dheepan come
Stallone. Deve molto, inconsciamente, Dheepan, anche alla
"sensibilità vincente" del Front National, nuova gestione, perché la
descrizione grigiosporca delle periferie avvelenate e abbandonate, in mano non
all'ordine repubblicano ma al casino organizzato dalle pericolose e
trinariciute gang (naturalmente afro-maghrebine, e armate di bazooka) è tutta
un manifesto politico anti Holland. Dov'è la polizia? Contrasta la droga e i
mitra solo uno scrupoloso e servizievole portiere induista, capace di rimettere
a posto le luci al neon divelte, l'immondizia disseminata ovunque e l'ascensore
divelto, come suggeriva di fare Marc Augé per dare anima ai non luoghi.
Eppure perfino dentro l'uomo d'ordine più buono del mondo, il graffitista etico
dei suburbi, può celarsi una indemoniata "cellula dormiente",
pronta a tirare fuori gli artigli, come una Tigre Tamil. Insomma il cuore del
film inquieterà non poco il contribuente transalpino. E anche il nostro. E
nessuno ricorda (neanche questo squisito film civile) che i Tamil furono
vittima di un genocidio, sterminati dai buddisti di Colombo senza che
l'Occidente dicesse o facesse nulla. Che neppure questo film
"palmizzato" ne faccia cenno è scandaloso.
Jacques Audiard con i suoi tre interpreti a Cannes 2015 |
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