martedì 17 maggio 2016

Ciad, gli orrori degli anni ottanta. A Cannes 69 un documentario di Haroun sui crimini di Hebré

Roberto Silvestri

Cannes

Non è una finzione. E’ tragicamente vero. E’ la madre di tutte le sequenze. Il torturatore che incontra il torturato. Su una panchina qualunque. Seduti. “Non è colpa mia eseguivo gli ordini”, si scusa l’aguzzino. “Ero come un cane addestrato dal padrone ad azzannare il nemico. Posso anche chiedere perdono, anzi lo chiedo, ma eseguivo ordini”. Il torturato spiega al criminale, che non se ne rende conto: “dobbiamo fare qualcosa perché in questo paese mai più nessuno diventi più il cane ringhioso di qualcun altro”. In mezzo il presidente di una associazione delle vittime di un dittatore africano.
Siamo in Ciad, oggi, il governo attuale in qualche maniera prosegue nella stessa politica degli anni 80 di quel dittatore, ma siccome Gheddafi non c’è più, non ha più bisogno di utilizzare le maniere forti. Si parla infatti di crimini avvenuti oltre trent’anni fa. Ma quello che conta non è la scheda geopolitica circostanziata, su stati che nei nostri tg non esistono nemmeno, ma l’immagine, madre di tutte le immagini, che il regista di questo capolavoro, selezionato fuori concorso a Cannes 69 riesce a costruire. “Giusto un’immagine”. Questo film l’ha trovata. Tra i due protagonisti della storia, in un match più devastante di un mondiale dei pesi massimi, Clement Abaifouta, presidente dell’associazione delle vittime dei crimini del regime di Hebre (AVCRHH). In competizione solo Jarmusch, Park Chan Wook e quasi Assayas e Almodovar sono arrivati vicino all’immagine. E basterebbe infatti questa sequenza, insostenibile emozionalmente, per fare unico e indispensabile questo documentario. Polanski e tanti altri registi l’hanno immaginata quella scena, ma per farla recitare poi da attori. Il processo Eichmann aveva altri scopi che non quello di allestire scene madri per aprire una fase di giustizia e riconciliazione tra tedeschi e ebrei. La vendetta non tollera la giustizia. Come i russi a Berlino, i titini in Venezia Giulia, i khmer rossi a Phnon Penh e i marines a Mai Lai. Nel doc di Oppenheimer sui massacri in Indonesia di comunisti, mezzo milione di assassinati, non si riesce mai a far incontrare una vittima con il suo aguzzino, semplicemente perché quella vittima non c’è più, è sparita nel nulla. Sono solo i parenti delle vittime che potranno ottenere le scuse degli assassini e forse concedere il perdono. In Indonesia, per ora, non succederà. Non c’è solo Pol Pot, anche i liberisti occidentali sono stati orribili nel decennio ottanta, non solo in Centro e Sud America ma anche in Africa del Nord (in Ciad, appunto) e in Africa del Sud (coordinati da Pretoria razzista).
E’ possibile avviare un processo di verità e riconciliazione nazionale anche in Ciad, dopo gli otto anni di dittatura poliziesca e di massacri commessi, per colpa della guerra fredda e degli interessi superiori delle multinazionali, dal 1982 al 1990? Le vittime perdoneranno mai i torturatori che hanno lasciato sul campo corpi maciullati e gli assassini mai perseguitati dalla legge? E perché questa giustizia arriva con troppi anni di ritardo? E come avverrà questa riappacificazione? Potranno i militari giustificarsi dicendo che hanno solamente eseguito gli ordini, imitando i loro antenati nazisti? Ne parla questo film impressionante e necessario.
Hissein Habré, une tragédie tchadienne, visto a Cannes in una sala semivuota, perché il pubblico di Cannes è preoccupantemente intossicato, come proiezione speciale della selezione ufficiale, è il nuovo bellissimo lavoro di Mahamat-Saleh Haroun, un documentario sui metodi inquisitori del regime militare di Habré, sostenuto politicamente e finanziariamente da Reagan/Bush, Francia e Germania in funzione anti-Gheddafi, e resposabile diretto della morte in carcere di quasi 5000 prigionieri, dopo torture inaudite. Ma che ascolteremo dettagliatamente, coltellata dopo martellata, castrazione dopo mutilazione. Haroun dovette fuggire all’estero durante quegli anni. Proprio nel paese, la Francia, che gestiva gli sporchi affari senza sporcarsi direttamente le mani. Siccome il doc è di Arte non si entra proprio nei dettagli insidiosi della storia. Anzi non si capisce molto di quello che è successo nel paese dal 1990 ad oggi. Si intuisce però che Parigi continua a mantenere tutto sotto controllo, e non ha più bisogno di organizzare colpi di stato (ne ha istigati 64 dopo le indipendenze delle sue ex colonie, un numero da Guinness dei primati). Appena un dittatore sgarra, muore e viene sostituito. E la stampa e i media aizzano alla campgna contro il vecchio dittatore.
Habré, processato nelle scorse settimane a Dakar, dopo 25 anni di esilio dorato (la sentenza arriverà proprio alla fine del mese) da un tribunale internazionale che lui non riconosce, rischia l’ergastolo per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e torture (un reato che in Italia non esiste, come insegna il caso Cucchi). Difficilmente potrà però difendersi dalle accuse dei testimoni sopravvvissuti che hanno raccontato per filo e per segno i suoi metodi da Gestapo. Nel film molti combattenti delle milizie rivoluzionarie o cittadini qualunque innocenti, uomini e donne, forti abbastanza da resistere due-tre-quattro anni ai ferri degli aguzzini, raccontano dettagliatamente le loro sofferenze. Qualcuno non riesce più a stare in piedi. Molti sono ciechi, sordi, senza una gamba, senza memoria. Vivono di soli incubi. Hanno il corpo zeppo di cicatrici, altro che tatuaggi. E si tratta dei più fortunati. Dei sopravvissuti.
Haroun è uno dei più interessanti cineasti africani della “terza generazione”, quella che ha esordito nel XXI secolo. Quella della nuova guerra di indipendenza dal neocolonialismo. Una guerra in corso. Dopo la generazione dei padri fondatori, dei patriarchi “realisti”, a cominciare da Sembene Ousmane e dopo quella dei loro allievi, più “visionari” e umoristi, come Gaston Kaboré o Oumar Cheik Sissoko. Il suo esordio, stilisticamente più personale e minimalista, ma accompagnato da un intatto furore etico, è del 1999, Bye Bye Africa, che vinse un premio a Venezia. Per l’insieme della sua opera (consacrata nei maggiori festival internazionali) Haroun ha vinto il prestigioso “premio Bresson” nel 2010, e dopo Abounia, Daratt (Stagione secca), Un uomo che piange e Grisgris, su un virtuoso sciancato del balletto pop, eccolo alle prese con il suo primo documentario lungo. Dedicato alla Associazione delle vittime di Habré, che ha lottato dal 1990 in poi, cioé dalla caduta della dittatura fino al suo arresto, il 30 giugno 2013, per ottenere giustizia e processare un dittatore che attraverso il suo partito unico e la sua polizia segreta ha tenuto in pugno e in regima di terrore il paese (per contro degli interessi occidentali, che non credo verranno processati a Dakar). E’ stata una donna, l’avvocato Jacqueline Moudeina, militante dei diritti dell’uomo, ad arrivare fino in fondo, senza mai essere pagata dai suoi clienti, poverissimi, premio Nobel alternativo The Right Livelihood Award 2011.

lunedì 16 maggio 2016

Cannes 2016. Assayas e Almodovar


Cannes, 17 maggio 2016


Sulla Croisette Personal shopper di Olivier Assayas, mentre il cineasta spagnolo si presenta con Julieta. Entrambi candidati eccellenti per la Palma d’Oro

ROBERTO SILVESTRI

Oggi è il giorno di Olivier Assayas e di Pedro Almodovar con due film in concorso molto attesi, la ghost story eccentrica Personal shopper e una tragedia meno fiammeggiante e pop del solito, forse perché tratta dai racconti poco rococò della scrittrice canadese Alice Munro, Julieta. Molti li danno superfavoriti per la Palma d’oro, soprattutto il primo. È vero che il dramma sulla paranormalità, i fantasmi, gli ectoplasmi e lo spiritismo del regista francese che viene dai Cahiers du cinema è stato tra i più fischiati della selezione. Ma del pubblico di Cannes non ci si può più fidare, né quando delira di entusiasmo né quando si indigna rumorosamente, perché le proiezioni stampa sono ormai deformate da un pubblico di invitati (di Lescure) scelti scrupolosamente tra i non addetti ai lavori, .

È anche vero che da indiscrezioni autorevoli il direttore del festival Thierry Fremaux dà per favorito proprio il dramma teosofico che Kristen Stewart interpreta come un assolo di violino, dall’inizio alla fine. Quasi un documentario sul corpo e la tecnica recitativa della superstar di 26 anni, ma veterana del set, che entra ed esce dai blockbuster (il più famoso resta Twilight) con una nonchalance invidiabile. Tanto che ha vinto un Cesar per Le nuvole di Sils Maria, la precedente stravaganza “vettista” di Assayas.

Qui Kristen Stewart è Maureen, americana in Europa, che di mestiere fa, annoiata, lo shopping di classe e la stilista per una celebrità parigina, non poco narcisista, e che intanto cerca, traumatizzata, di rientrare in contatto con lo spirito del fratello gemello, morto giovanissimo di infarto. Entrambi erano medium, sensitivi capaci di comunicare con ogni mezzo necessario, al di qua e al di là della vita.

Durante questa ricerca, tra Praga, Londra e Parigi, complicata da un fidanzato genio dei computer che lavora nel Golfo wahabita, dall’assassinio della sua datrice di lavoro (nel quale viene quasi implicata, per colpa di una sua avventata amicizia on line), dall’amicizia con la ex del gemello, che ora ha un nuovo fidanzato, Maureen evoca strani e minacciosi poltergeist, che abitano i misteriosi spazi di una villa abbandonata in campagna, e altri elementi fantastici che stridono con il resto del film, un thriller tradizionale ma sfrontatamente realistico. Da cui lo scandalo della ricezione, che considera insopportabili le basse incursioni di genere horror dentro un testo prodigo di citazioni colte come le sedute spiritiste di Victor Hugo e il rapporto tra teosofia e nascita della pittura astratta, frutto delle ricerche di Kandinskij e prima di lui da Hilma af Klint, pittrice svedese che iniziò a comporre i suoi mille giochi cromatici nel 1906 sotto l’influsso dell’occultismo.

Arrivare a prosciugare dalle immagini il senso, ampliando nello stesso tempo la gamma delle suggestioni sensorie, è il procedimento che pure Assayas sperimenta. Anche perché il cinema è un’arte occultista, non nel significato spirituale o mistico. Ma perché nasconde strutturalmente il fuori campo. Il migliore cinema è proprio quello che di questo fuori campo si fa traghettatore.

Almodovar invece cambia il proprio registro. Il suo Julieta è un film sobrio. I colori sono accesi perché il regista della Mancha nasce al cinema con i technicolor hollywoodiani degli anni ’50, con Sirk e Minnelli. Ma questa volta niente movida e niente elogio del kitsch. I drammi segreti, invece, di una signora madrilena di 50 anni che ha perduto la figlia tanto tempo fa, non perché è morta ma perché è fuggita di casa incolpandola della morte dell’adorato padre, un pescatore galiziano buttatosi nella tempesta a causa di un litigio di gelosia e per esser stato scoperto amante di un’amica pittrice e scultrice.

Tanti anni dopo riemergono tracce della figlia e il film va indietro nel tempo a ricostruire il complicato puzzle esistenziale di questa donna esausta, giocato sui mezzi toni e sui mezzi sentimenti. Julieta ha due corpi (echi di Bunuel e Hitchcock), da grande quello di Emma Suarez e da giovane quello di Adriana Ugarte; è un’insegnante di filologia classica, esperta di miti, emula di Ulisse, che solca il mare dell’avventura rifiutando l’agio e la tranquillità, la ricchezza e la lussuria. Perché la vita è mare in tempesta, non calmo mare da cartolina.

domenica 15 maggio 2016

Brutte notizie dalla Russia integralista cristiana di Putin. Lo studente di Kirill Serebrennikov

Roberto Silvestri
CANNES

Un tempo in nome del libero pensiero si rompeva con scuola, famiglia e plumbea atmosfera repressiva circostante. Oggi avviene il contrario. I giovani che esigono ordine e tradizione non vengono più messi in grado di non nuocere, né dallo stato né dai coetanei. Un interessante film selezionato per Un Certain Regard, che sceglie lo stile del grottesco, e un tono molto poco realista, si occupa con una certa preoccupazione di questo rovesciamento di fronte.
Nel film russo “Lo studente” (o “il discepolo”, a seconda della traduzione americana o francese), ambientato sul mare, a Kalingrad Oblast, enclave transculturale, si scodellano almeno una trentina di citazioni bibliche, e neanche le più interessanti, con note a pié... schermo, per indicare ai profani se sono tratte dai vangeli di Marco, Luca, Matteo o Giovanni. Versetti decontestualizzati, utilizzati e sbandierati ad alta voce da Veniamin, detto Venya, un biondo liceale ariano, reazionario e in banale crisi mistica (l’attore è Petr Skvortsov, e riproduce alla perfezione le espressioni di un baccellone), per combattere, a casa, in classe e ovunque, antiche scemenze ariane antisemite, miti patriottici fondanti, come l’industralizzazione, e luoghi comuni mal interpretati come l’imbarbarimento della civiltà, l’apocalisse dello spirito (russo cristiano), “lo stato di cose vigenti”, il Potere e la sua ipocrita avidità materialista.
“Prendiamo esempio dai ragazzi che combattono nell’Isis e che non hanno paura di morire pur di difendere la Fede!” urla Venya, nell’unico momento internazionalista (anche se da internazionale nera) del film, seducendo un unico compagno di classe, lo sciancato, che si è perdutamente innamorato di lui (ricambiato nel profondo, ma, come sappiamo, non in superficie, perché sarebbe grave peccato), l’unico che Veniamin non dileggia per l’handicap (come a dire: c’è una profonda ostilità nell’animo russo a tutto ciò che è differente, estraneo….) ma solo perché ama schiavizzarlo e se non ci riuscirà, lo annienta.
Il mondo che circonda l’aggressivo Veniamin e finge di esserne scandalizzato, è tutt’altro che sordo però alle sue parole feroci e ai suoi gesti teatrali (che sono da espulsione immediata), perché è diceria comune che “la fede organizzata in chiesa e i lussi dei pope servono soprattutto per compiacere i disegni di Satana”…. L’insegnante laica di biologia (che verrà lasciata sola a combattere, perché ha un cognome ebreo) e un pope “moderato” (che poi per opportunismo fiacheggerà il ragazzo) cercano inutilmente di riportarlo alla ragione o alla ragionevole fede. Però, quando la Bibbia e il Corano sono abusati in modo letteralista, come facevano certi ribelli del ‘68 con il libretto rosso di Mao, ecco che chi ne abusa trova consenso, a differenza di quanto capitava ai filocinesi perché il loro libretto era difficilmente strumentalizzabile, proprio tra i peggiori nemici da combattere: i potenti, la preside, il pope, i guardiani, la maggior parte del corpo insegnante, e perfino i compagni di classe, tutti piuttosto acefali.
In fondo ogni dittatura che vuol tutelare solo un pugno di happy few (materiali o spirituali, come il Partito) ha bisogno di seguaci servili, di miti alienanti o mariani, di croci e simboli anche non uncinati da adorare, di repressione militare e corporale, di sessuofobia a manetta (e il ragazzo unto dal Signore pretende e ottiene che le compagne di classe non sfoggino all’ora di piscina, i loro succinti e diabolici bikini), orizzonti mistici, ordine maschilista da restaurare e di classe da rispettare.
Tre anni fa il presidente russo Putin, rompendo per opportunismo con la separazione tra Stato e Chiesa, ha emanato una legge che rafforza l’educazione religiosa nelle scuole (la scelta è tra sei religioni, ma quella dominante è la cristiana ortodossa, agnisticismo e ateismo sono esclusi, forse perché hanno già dato?). E sappiamo come sono finite le Pussy Girls e chiunque a scuola non metta sullo stesso piano in modo che se discuta creazionismo e evoluzionismo, fascismo e comunismo. Un bel regalo agli stati confessionali e autoritari, dai wahabiti del petrolio agli sciiti iraniani a Israele. Lo ha spiegato Willhelm Reich in “Psicologia di massa del fascismo”, quando Stalin dal 1930 ha congelato la Rivoluzione ha fermato per prima cosa l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, ricondotte alla patria potestà che tanto inebria non solo il talebano ma il maschio che ovunque ha perso la sua centralità. Lo stesso fa Putin, ex Kgb, con la democrazia rappresentativa, messa sotto tutela della Chiesa ortodossa. Uchenik, è l’opera quarta del russo Kirill Serebrennikov, che fu a Venezia nel 2012 con Betrayal tratta da un testo teatrale abbastanza dirompente, Marthyr, del tedesco Marius von Mayenburg, che non credo gironzoli troppo per i teatri russi.

venerdì 13 maggio 2016

Cannes 69. Clash di Mohamed Diab. Un Certain Regard. Il film che al Sisi non può non amare


Roberto Silvestri

“Né la legge islamica né la legge marziale devono governare l’Egitto”. Così afferma nel press-book il regista Mohamed Diab, chiamato a inaugurare la sezione Un Certain Regard, e già autore del blockbuster The Island che dal 2007 primeggia nel box office cairota di tutti i tempi. Diab auspica una terza via, costituzionalmente corretta, e che ricomponga il paese lacerato in due. Giusto.
Però da quel che si vede in Esthebak, la seconda legge sta sanguinosamente prendendo il controllo nel paese. Desaparecidos. Mai sentito in Egitto. Arresto di giornalisti. Retate di islamisti armati. Non solo l’omicidio sfacciato di Regeni (che ha avuto l’effetto di sbriciolare ancora di più l’unità politica dell’Europa, visto che i francesi sono platealmente ansiosi di prendere il posto dell’Italia negli scambi economico con il neotiranno “moderato” al Sisi). Prendiamo una scena del film che ci appare, dopo questo crimine insoluto, veramente abietta. Il tenente della polizia antisommossa ordina a un sottoposto: “Tieni pure aperta la porta del furgone con i prigionieri dentro, se no potrebbero pensare che torturiamo i detenuti!”.
Prendiamo anche le scene degli scontri di piazza (che fecero molte vittime, e meno tra i poliziotti). Gli insorti sono visti come scalmanati folli che gettano pietre e sparano con le armi a casaccio e perfino contro il furgone con i loro compagni dentro (sic). Insomma chi vede il film non potrà che stare, nel conscio e nel subconscio, dalla parte dei poliziotti e dell’esercito….Dice il regista che ha costruito la scena con un militare assassinato dal cecchino islamista: “perchè così si vede come e perché un ufficiale di polizia possa diventare estremamente violento”. Attenuanti generiche.
Uno dei film più attesi a Cannes, claustrofobico perché il soggetto è la chiusura del processo rivoluzionario in Egitto, e il regista si autodefinisce un promotore dell’insurrezione del 2011, è quello che ha aperto il “concorsino”, come lo ha definito Riccardo Scamarcio, che è in gara nei prossimi giorni per la piccola palma con “Pericle il nero”, il thriller anomalo di Stefano Mordini.
Attesa delusa, quella per “Esthebak”, nonostante le scene di rivolta popolare e di scontri duri con la polizia siano tabù nell’immaginario cinematografico mondiale mainstream e nonostante alcuni accorgimenti narrativi quasi originali (come l’unità di luogo, tutto si svolge, pipì compresa, dentro un cellulare della polizia che ramazza prigionieri di ambedue gli schieramenti, oscurantisti islamisti e rivoluzionari democratici), che paraltro ci ricorda sinistramente un’analoga trovata (un film israeliano interamente girato dentro un carro armato all’assalto di Jenin).
Le scene d’azione nel buio dei quartieri popolari sono ricostruite bene, fantasmatiche, quasi un documentario dalla città dei morti, con l’uso di 500 tra comparse e cascatori, sniper ovunque (la polizia non spara mai piombo, solo lacrimogeni in aria…). Poi i dialoghi sono banalmente “quotidiani” e sentimentali come sanno essere solo nei peggiori mèlo egiziano e non scodellano sostanza conoscitiva rispetto a avvenimenti che avrebbero davvero bisogno di essere compresi e analizzati meglio, certo anche attraverso il “fattore umano” (era il metodo utilizzato nelle commedie satiriche anti Mubarak di Sherif Arafa, pur citato nel film, ma non troppo ben reinterpretato).
Il regista egiziano Mohamed Diab, già autore anche di “Cairo 678”, pamphlet antimachista, che ebbe molto successo nel 2011, narratore popolare che non si spaventa di affrontare importanti questioni politiche e umane comunicando con il più largo pubblico, racconta questa volta con la collaborazione del fratello sceneggiatore Khaled Diab, e di una ventina di attori-prigionieri (tra questi la star Nelly Karim, già attrice di Chahine) abituati alle tonalità enfatiche delle serie televisive in “Esthebak”, ovvero “Clash”, ovvero “Scontro”, i giorni della caduta di Mohamed Morsi. Parliamo cioé del 2013. Delle manifestazione avvenute dopo e contro il “colpo di stato”, come lo chiamano i filo-integralisti islamici, che volevano rimettere Morsi al potere; e quelle, parallele e conflittuali, della componente laica, femminista e democratica del movimento, completamente a favore della “rivoluzione” e al fianco dell’esercito.
Si capisce subito dal film che Diab è stato dalla parte di chi non considera la cacciata di Morsi, pur democraticamente eletto, un “colpo di stato” né Al Sisi il suo dittatoriale e machiavellico ideatore. Questo è anche il motivo grazie al quale il film è stato fatto senza problemi di sorta e di censura, anzi con l’aiuto del’esercito visto che ricostruire scene di guerriglia urbana non poteva passare inosservato. Il tutto anche grazie a contributi produttivi francesi (Arte e Sampek), tedeschi e degli Emirati Arabi Uniti. Insomma un film non anti-governativo, anche se è giusto considerare quella defenestrazione di Morsi come l’esito politico delle più grandi manifestazioni di massa avvenute nella storia del paese dall’epoca di Nasser, con milioni di cittadini esasperati dal malgoverno dei Fratelli Musulmani. Dunque una cacciata imposta dal basso ai militari (che poi ne hanno approfittato, come sappiamo), perché Morsi, il leader dei Fratelli Musulmani, organizzazione islamista di antica origine, già molto potente con Mubarak, per il quale controllava scuola e sanità, stava attentando alla laicità della Costituzione e voleva introdurre nella carta comune articoli regressivi, bigotti, partigiani e oscurantisti. Meno chiara la partecipazione dei moti pro-esercito da parte della componente integralista ancora più fanatica dei Fratelli musulmani, ovvero quella dei salafiti che hanno fiancheggiato Al Sisi, e ancora lo fanno, in nome di una strategia internazionale sunnita che li vede al fianco di alcuni paesi del golfo contro altri (Arabia Saudita contro Qatar). Ma nel film niente di tutto questo. E neppure una bella litigata tra gli opposti estremismi militanti, tutti vagamente ridicolizzati: il leader religioso e astuto come una volpe, la donna con il velo, il rappettaro, il tifoso dell’Al Alhi, laico ma gelosissimo della sorella, il giornalista un po’ opportunista, di Al Jazeera (che è modellato su chi ha passato davvero un anno e mezzo in prigione dopo quei fatti, cioé l’egitto-canadese Mohamed Fahmy), il ciccione con lo scolapasta in testa che è una macchietta obbligatoria in ogni commedia cairota, il vecchio che ha perso il figlio e urla il suo nome nella notte, l’infermiera costretta a usare mezzi molto rudimentali per cucire una ferita, l’homeless che ha perso il cane, i membri del partito islamista e i simpatizzanti, chi inneggia già all’Isis, la mamma che trema ma che sa anche urlare per proteggere il suo piccolo, il poliziotto dal cuore tenero che tradisce, l’ufficiale implacabilmente stupido…
Molto simili sociologicamente i due schieramenti, come mai ce lo saremmo aspettato. Borghesi e proletari, donne e uomini, studenti e operai su fronti opposti. E da quel che captiamo i temi più interessanti che si intuiscono dal film sono una certa xenofobia diffusa (la teoria del complotto straniero che perseguiterebbe qualunque cambio politico al Cairo); il tradimento dei giornalisti (c’è anche un fotografo, ispirato a Mohamed Abu Zied, in carcere ci sta da tre anni e non credo perché riprendeva con un orologio-telecamera) e un finale davvero orrendo con il furgone finalmente nelle mani dei manifestanti. Ma non si sa di quale fazione. Per cui metà dei prigionieri trema.

Cannes 69 Fai bei sogni, da Gramellini, inaugura la Quinzaine




CANNES

di Mariuccia Ciotta


Inaugurazione della Quinzaine des realisateur riservata a Marco Bellocchio con Fai bei sogni, risarcimento (forse) per l'esclusione dal concorso (“no comment” del regista). I flash indimenticabili del film, tratto dal best-seller di Massimo Gramellini, sono il primo piano fantasmatico di Piera degli Esposti, quasi un'apparizione da Belfagor (ossessivo leit-motiv del protagonista), l'incontro con l'ardente Fabrizio Gifuni nella parte di Raul Gardini e le fuggevoli apparizioni di Roberto Di Francesco e Roberto Herlitzka.


Certo, Valerio Mastrandrea nella parte di Massimo (Gramellini) riesce perfino a far dimenticare la sua cadenza romana, essendo nato nella Torino degli anni '60, ma il regista di I pugni in tasca lo obbliga a un percorso accidentato, ballare un selvaggio twist, farsi largo tra i morti di Sarajevo, cadere in crisi di panico, scrivere lacrimevoli risposte al lettore.
Fai bei sogni racconta la storia di una madre (Barbara Ronchi) morta misteriosamente e di un bambino di 9 anni (Nicolò Cabras) che rifiuta la perdita. Indiscutibilmente il Bellocchio-touch si sente ed è un godimento di memoria cinematografica, tagli di inquadratura, luci, digressioni, dettagli. Ma l'essenza drammatica e anche sarcastica del film è infestata dalle giravolte narrative del libro autobiografico. E' lontano Sangue del mio sangue (2015).
Alla fine grandi applausi per il regista e la troupe circondati dall'entusiasmo del pubblico.

domenica 8 maggio 2016

Cannes 69 L'erotismo lesbico



Cannes

Mariuccia Ciotta

Il fermo immagine di Cannes 2016 non sarà il manifesto del festival, dal Disprezzo di Godard con la sua vertiginosa Villa Malaparte, ma Kristen Stewart, la Bella di Twilight con la bocca incollata a quella di SoKo, cantante pop e attrice francese, in un ribaltamento dell'erotismo divistico che quest'anno sulla Croisette lascerà la sua impronta. "Vivo nell'ambiguità del mio mestiere d'attrice ed è la cosa che amo" dichiara Stewart, che non vuole definire la sua sessualità, e vagabonda tra le stelle di ogni genere, capigliatura punk e aspetto androgino, per dire che il cinema stesso è "ambiguo".
Sono molti i film di questa 69a edizione sotto il segno della "femmina folle", a cominciare proprio dall'eccentrica coppia. SoKo recita in La danseuse (Certain regard, 13 maggio) la parte di Loie Fuller, pioniera del ballo moderno, icona della “danza serpentina”, nel suo incontro appassionato con Isadora Duncan (Lily-Rose Depp, figlia di Johnny). E ancora in Voir du Pays (Certain regard, 17) storia del ritorno traumatico di sue soldatesse dall'Afghanistan, una è ferita, l'altra ha subito un trauma psichico, insieme cercheranno di ritrovare la joi de vivre in un hotel a cinque stelle di Cipro.
Anche la protagonista della saga vampiresca è presente in due film, Café Society (fuori concorso), esordio nel mondo digitale di Woody Allen, che ha aperto l’11 maggio il festival in clima da età del jazz. E Personal Shopper (concorso, 17) di Olivier Assayas. Il rapporto feticistico tra l'"acquirente personale" e una grande attrice di Hollywood, che l'ha incaricata di acquistare abiti chic a Parigi, domina il film in un fruscio di sete e di allucinazioni sensoriali ai confini del paranormale. La fascinazione si ripete quando l'ex Biancaneve Kristen Stewart sale la montée de marche mano nella mano con Jodie Foster, maestra in tutto, con cui ha girato, bambina, Panic Room. Regista di Money Monster, (passato fuori concorso il 12) Jodie ha deciso il coming out a tempo ritardato per timore di deludere i fans mentre la giovane "allieva" è un'apripista spericolata dell'amore transgender.
Segnali di un cambiamento profondo, coltivato da Cannes dove il fascino dell'erotismo lesbico si è sprigionato con il film franco-tunisino La vie de Adèle (Palma d'oro 2013), seguito l'anno scorso da Carol, star Cate Blanchett interprete delle pagine di Patricia Highsmith.
Le drag king si declinano in diverse forme nell'attuale cartellone del festival, come in Elle (chiuderà il concorso il 21) di Paul Verhoeven, visualizzato nel corpo tormentato di Isabelle Huppert, divisa tra passioni divergenti così come l'ha disegnata lo scrittore Philippe Djion in Oh...
E, a sorpresa, Paolo Virzì, va sulle tracce di Thelma e Louise e mette in scena Valeria Bruni Tedeschi (che imita Vivian Leigh in Un tram che si chiama desiderio) e Micaela Ramazzotti (quasi un alias di Hillary Swank in Boy don’t cry) abbandonate non senza malizia una sull'altra nel poster di La pazza gioia (Quinzaine des realisateurs, 14). Il film è scritto da Francesca Archibugi e racconta la fuga delle due svitate, diversamente pericolose, da una comunità terapeutica alla scoperta del piacere fuori dalla gabbia dell'ordine mentale. Tracce di esperienze eversive - una madre che amò un'altra donna - corrono anche nell'italiano Pericle il nero di Stefano Mordini con Riccardo Scamarcio (Certain regard, 19). E anche in L'ultima spiaggia, documentario italo-greco (passato fuori concorso il 12) dove un muro, allusivo di altre barriere, separa uomini e donne, si fa sentire il godimento erotico liberato dalla disciplina familiare.

"Scene di sesso lesbico selvaggio" annuncia invece, senza sfumature, uno dei beniamini dei festival, Nicolas Winding Refn - danese, eletto miglior regista a Cannes 2011 - a proposito di The Neon Demon, "un horror sulla bellezza virtuosa e su quella malvagia" in gara il 20 maggio col suo tenebroso mondo di succhiasangue, metaforici ma non tanto. Modelle feroci divoratrici di potere sulla passerella losangelina (un altro leit motiv del festival, il mondo della moda), le donne "dracula" raddoppiano il desiderio con i loro canini fallici e moltiplicano il potere nel riflesso di sé. L'amore lesbo si trasforma così da spettacolo eccitante a temibile chiamata alle armi, come dimostra il manifesto di The Neon Demon dove un'elegante biondina esibisce il suo abito-divisa che sgocciola sangue.
Ancor più erotico ma sempre in forma di resistenza anti-maschile The Handmaiden (in concorso il 14) del sudcoreano Park Chan-Wook che estrae l'amore proibito dalla Londra vittoriana di Sarah Waters e dal suo romanzo Fingersmith per trasferirlo negli anni Trenta della Corea occupata dai giapponesi. Nell'ombra vellutata di un palazzo grondante ricchezza, si nasconde il viso pallido di una giovane donna reclusa dallo zio, e che vedrà nel suo doppio umiliato, l'ancella del titolo, la più dolce delle vendette. Cosa succede tra la padrona Hideko e la serva Sookee? Piccole mani guantate accarezzano, sguardi perversi toccano, la prigione diventa un luogo esclusivo per l'una e l'altra in questo lesbo-thriller del regista che prosegue l'attività di Lady Vendetta ma senza pistole e coltelli.
Intanto la giuria della Queer Palm, il premio destinato al miglior film su tematiche Lgbt, istituito a Cannes nel 2010, apre bene gli occhi in cerca del vincitore, e quest'anno sarà difficile non attribuirlo a una Lei, che dovrà assomigliare il più possibile alla principessa Elsa di Frozen (cartoon Disney), incoronata Queer e scelta per la campagna twitter pro-gay #GiverElsaAGirfriend.
Anche nel Marché spuntano titoli in sintonia con il mood della Croisette, come Below Her Mouth diretto dall'attrice-produttrice April Mullen, canadese, e distribuito dalla Elle Driver, nome del personaggio combattente di Kill Bill!.

Uno staff di sole donne, dalla regista alla camerawoman, si sono unite per questo film indie costato più di due milioni di dollari, e che "contro gli stereotipi della sessualità femminile" mette in scena due creature lunari, l'ex ballerina Natalie Krill e la svedese Erika Linder, corpo e viso cangianti, modella preferita di Tom Ford, Vogue, Marie Claire. Un ragazzo vestito da donna, o una donna vestita da ragazzo? Stessa domanda che George Cukor proponeva guardando Katherine Hepburn nel classico degli anni Trenta Il diavolo è femmina. Un "dramma disinibito" - l'ambiente, ancora una volta, è quello della moda - ovvero il weekend di fuoco di Dallas e Jasmine. L'obiettivo della Elle Driver e del suo crew femminile è anche di natura più materiale, perché oltre al nuovo "soggetto" del desiderio, in gioco ci sono i minori compensi riservati ad attrici e cineaste, che con Below Her Mouth si allineano alla protesta di Patricia Arquette sul palco degli Oscar: "E' arrivato il nostro momento di avere la parità di salario una volta per tutte, e parità di diritti per le donne degli Stati Uniti d'America".
Ed ecco che il sesso “separatista” si trasforma da pruderie a gioco di squadra, condotto da eroine come la francese Thérése Clerc, protagonista del documentario La vita di Thérèse (Quinzaine, 16 ). Una vita spericolata, che lei stessa racconta poco prima di morire, il 16 febbraio scorso. Sposata a vent'anni, casalinga, madre di quattro figli, Thérése si scopre omosessuale nei primi anni '70, divorzia e inizia la sua militanza nel Mouvement de Libération des Femmes, e a favore dei diritti gay & lesbian. E' considerata la più grande tra le paladine di Francia sul fronte della libertà sessuale.
Senza Thérèse niente Kristen Stewart, niente baci sulla Croisette.

sabato 7 maggio 2016

Anno 2025, la Cina è al di là delle montagne. Il nuovo Jia Zhang Ke


di Mariuccia Ciotta

Dimenticato nel Palmares da Cannes 2015 è uscito il 5 maggio scorso in Italia e non va perso Al di là delle montagne, ovvero Shan he gu ren (Mountains May Depart), atteso titolo di Jia Zhang-Ke, già Leone d'oro a Venezia (dove aveva già presentato Platform) con Still Life (2006), regista quarantenne in cima alla lista della nuova generazione cinese. Il film prodotto da Cina, Francia e Giappone, era arrivato sulla Croisette all'ultimo momento, fresco di montaggio veloce e con qualche problema tecnico (la proiezione si era interrotta un paio di volte), ma, accolto con entusiasmo, è stato tra i favoriti della critica internazionale per la Palma d'oro.
Jia Zhang-Ke ha affilato la sua poetica nel documentario, tema dominante la Cina in via di trasformazione. Addio al sapore di un'antica cultura (e dei ravioli al vapore), all'infanzia che ha radici nella piccola città di Fenyang, nella provincia centrale di Shanxi, dov'è nato e vissuto il regista. Il film si apre nel 1999 con il vortice chiassoso di un balletto di ragazzi a ritmo di Go West dei Pop Shop Boys, cult da discoteca in quegli anni, ed esibisce il formato stretto della prima cinepresa digitale di Jia Zhank-Ke, una serie di “appunti” che col passare del tempo, non solo cinematografico, si allargano nel cinemascope, fino al Fantamondo del 2025, ripreso con l'Arriflex Alexa. Un percorso spazio-temporale che stringe il presente tra memoria e preveggenza e si materializza nel corpo di Tao (Zhao Tao, moglie del regista e attrice in molti suoi film) divisa tra due amici di sempre, il presuntuoso e rampante Zhang, padrone di una stazione di servizio e deciso a far soldi, e Liangzi, gentile e dimesso minatore. Sceglierà il peggiore, perché “i nostri modi di vivere sono stati sconvolti con l'irruzione del denaro al centro di tutto”.





Tanto che Zhang chiamerà il suo bambino Dollar, e lo spedirà appena possibile, dopo il divorzio con Tao, in Australia, più lontano geo-emotivamente possibile dalla Cina, un luogo simbolo dell'emigrante incapace di parlare l'inglese e di dialogare con i figli. Materiali misti, reali e immaginari, che viaggiano metaforicamente su auto (lussuosa e rossa quella di Zhang), treni, aerei, e oggetti domestici primitivi accanto a schermi e cellulari ultrapiatti, trasparenti... il passaggio da “com'eravamo” a come “come saremo”, Mountain May Depart già nel titolo indica il traguardo.




Quello originale vuol dire “i vecchi amici sono come le montagne e i fiumi, immutabili”, paesaggi di riferimento. Traduzione dall'inglese, “le montagne possono andarsene”, e si vede. In ogni inquadratura, sullo sfondo, campeggiano gru monumentali sospese su grattacieli in costruzione, note allarmanti nello skyline cinese, giganti che incombono sulle casette malferme, le botteghe di artigianato, i mercati, i prati di Fenyang. Se con Touch of Sin (in gara a Cannes 2013) il regista ha scritto un diario in nero del paese, film a episodi di vita spietata, qui lievita l'angoscia, un sommesso, crescente malessere che fa svaporare l'allegria di fine Novecento e si dispiega nella storia di Tao, sempre più disillusa. Perderà il padre, scrigno di memoria, e anche il figlio se ne andrà così lontano da dimenticare il nome della madre.