di roberto silvestri
Kommunisten. In tedesco comunisti. Si definirono così Karl Marx,
i suoi compagni di partito e molti dopo di lui, compresi i cineasti francesi (e
anche un po’ tedeschi e italiani) Jean Marie Straub e Daniéle Huillet, dopo
aver analizzato e reso omaggio a quell’evento storico, possente e di rottura, che
fu la Comune di Parigi. La lotta di massa e il governo dal basso, la presa del
potere collettivo a Parigi nel 1871. Un salto nella storia che fu anche un coacervo
di errori e di tremori finì con un tremendo massacre e una cruenta sconfitta.
Comunisti. Una parola plurale
inebrainte ma già inquieta fin dalla nascita, light and dark, un sostantivo in
metamorfosi, dunque, Kommunisten, che
resiste a se stesso, che cerca, come fosse un grande camaleonte, di trasformarsi
in altro, in un morfema alieno e ancora sconosciuto. Forse in una immagine. Giusto in un’immagine. Non in
una imagine bella (l’icona staliana). Non in una immagine giusta (la maschera mortuaria di Lenin e Mao). Meglio se in una
immagine errata.
La presa dark del
palazzo di inverno, 1917. E’ Eisenstein. La presa di Gorbacev da parte di Eltsin, 1991. Sono i tg di tutto
il mondo, incredulo. In mezzo il potere ai soviet, confiscare e nazionalizzare
le terre dei proprietari fondiari, fusione di tutte le banche in una sola banca
statale, soppressione della polizia, dell’esercito e dei funzionari zaristi,
creazione dei commissari del popolo per controllare il Soviet supreme; libertà
sessuale per gli uomini e le donne, I gay e le lesbiche… Sembrava “Bakunin realizzato”
(come sostenne Bogdanov, che votò contro quell’avventuristico estremismo). Ma
poi: repression sessuale, eliminazione dei commissari del popolo trasformati in
superpolizia del Soviet Supremo, i processi kafkiani anti trotskysti e anti
destri, i gulag, il Kgb, i morti incolpevoli, la psicologia di massa del
fascism esportata ad est, le deportazioni in massa eppure la guerra eroica
antinazista, la liberazione di Auschwitz, la vittoria in Cina di Mao, che
Stalin non sostiene, il panafricanismo che attaccando il comunismo fa nascere
la nuova sinistra sessantottina anche in Occidente, la guerra fredda, gli
impiccati comunisti ungheresi, il
Maggio, Kent, Praga, Kabul…
Già l’intensità emotiva e storica di questo lemma Kommunisten, nel flusso di tempo che va da quando son vittoriosi a
quando sono annichiliti, ci introduce alle ultime immagini di un film di “europoesia”,
in italiano, francese e tedesco, diretto da Jean-Marie Straub, senza Huillet,
morta nel 2006, ormai esule nella
natia Francia spintonato da una Italia ingrata, che ha proprio questo titolo ed
è più di una semplice opera d’arte. Direbbe Brodskij che qui ci troviamo
davanti all’esibizione di una impellente scopo, di una necessità “antropologica”.
Anche se Barbara Ulrich lo ha presentato
a Locarno come “un’orazione, una invocazione di un’altra vita possibile”. Più
disciplinata, magari più gerarchizzata, addirittura più pianificata come
preghiera. Una orazione artificiale, comunista, frutto dei procedimenti usati
da Straub e Huillet per far “recitare la vita”, al di là di ogni tradizione
stilistica, dell’espressionismo o dell’impressionismo, bandendo i trucchi dell’immedesimazione
puerile, sbriciolando i neuroni specchio, senza giocare con le intenzionalità
dell’eroe che prevaranno su quelle del malvagio. La recitazione “distanziata”
brechtiana sembra procedimento utilizzato per punire lo spettatore “non
critico”, e invece è Guerra, azione, emozione, come in Fuller: amplia lo spettro
sensorio e sentimentale della ricezione, perché intreccia e fa cozzare, come
sulla linea di scrimmage nel football americano corpi e sfondo, natura e
umanità, amore e politica, terrestre e
divino, storia e mito, eterno e transitorio.
Si tratta poi di specie davvero estinta quella dei
comunisti? Ma che vitalità hanno avuto e hanno tuttora? Anarchico si può essere
anche da soli. Ma per essere comunisti bisogna essere almeno in due. La libertà
di pensiero, la libertà di parola, è concessa nel nostro totalitarismo
democratico. Ciò che è proibito è un pensiero
di libertà. Pensare qualcosa di diverso da quello che tutti dicono è il
dispositivo sovversivo messo in atto da questa coppia diabolica fin dagli anni
del rifiuto a partecipare al massacre algerino. Pensare la libertà vuol dire
isolare e riaffermare in modo stentoreo le parole inascoltate, mute, dunque
stare in silenzio. Ma i silenzi di Straub e Huillet sono rumorosi quanto quelli
di John Cage. Il nostro corpo, la nostra testa esplodono di suoni intimi, durante
quei silenzi. E quante cose dicono queste immagini, quante informazioni ci
trasmettono – luci ombre linee orizzontali verticali… - debordano. Più che in Transformers.
Parentesi. Al Filmstudio durante il movimento si
discuteva spesso, magari al termine della proiezione di Othon o di Non riconciliati
di come conciliare arte e politica. Semplificando. C’era la fazione Pierre Boulez:
l’arte è autonoma dalla politica. Comporre nello studio e stare sulle barricade
sono cose necessarie, ma parallele. Poi c’era la fazione Petri o Giuseppe
Ferrara. Fare film, musica, pittura
direttamente politica e di contestazione, usando anche il linguaggio degli
avversari, anche se “fascista e autoritario”, basta che fosse il più popolare e
accessibile possibile. Poi c’era la fazione Straub-Huillet. I linguaggi non si
fanno “proliferare inconsapevolmente”. Si maneggiano politicamente,
rivoluzionariamente. Più radicale sei nell’arte, più poeta sei, più sei già
politicamente attivo e rivoluzionario. Anche se ti chiami Pound o Brodzkij. Immaginiamo
infatti come utopia del passato un Senato davvero autorevole come quello di Guerre Stellari, altro che riforma
Renzi, formato in quegli anni dalle “leggende viventi”, Dario Fo, Giuseppe
Ungaretti, Michelangelo Antonioni, Luigi Nono, Mario Schifano, Alberto Moravia,
Annabella Miscuglio, Mario Bava, Piero Bargellini, Alberto Grifi, Ennio
Morricone, Pier Paolo Pasolini, Gianfranco Baruchello, Straub-Huillet, Italo
Calvino, Nanni Balestrini, Eugenio Montale… Pino Pascali e Salvatore Quasimodo
no, erano morti nel 1968. Fine parentesi.
Verso la fine di Kommunisten
Daniele Huillet in campo lungo su una collina, interna e
ostile alla natura,
metà Holderlin metà Hegel, tra natura e storia, sussurra interrogativa, a viso
girato, “neue
Welt?”, “nuovo mondo?”.
E’ l’estratto da Peccato nero, girato proprio nel 1989, e che qui si intitola
proprio Nuovo mondo. La resistenza,
rispetto alla natura, al mondo e alla storia, all’oppressione, alla guerra e
alla violenza, e anche ai testi stessi scelti dal duo Straub-Huillet - saggi,
pamphlet politici, diari private, tragedie classiche, romanzi, scritti di
viaggio, poemi epici… - e ricomposti, ridotti, re-intonati, re-insonorizzati e anche
spazialmente ritradotti in cinema strutturalisticamente corretto, con tanto di
terra con tanto di cielo con tanto di corpi con tanto di primi piani, di
costumi (che non farà mai più Daniéle) e con tanto di respiro degli attori
forzato alla rima e di musica concreta (suono
in presa diretta, straito dal vento, dalle foglie che frusciano, gli uccellini
che cantano, le pietre che rotolano, lo sciabordio dell’acqua, le voci fuori
campo, e anche le orchestre sinfoniche che eseguono classici, “musica da buca”,
non “da schermo”, ma pare sempre diegetica…) ad abbracciare il tutto. Ma abrasivamente.
Non c’è mai stile nelle sequenze di Straub. Si tocca semmai il cielo della
maniera.
Ecco perché la resistenza,
il marciare contro vento e contro il tempo, è da sempre il cuore di questi film
densi e magmatici che oltraggiano l’intero sistema cinema oltre che la storia
uffficiale del Novecento. Cinema bastardo. Poetico e saggistico nello stesso
tempo. Un pasticcio. Cacofonia rispetto al risuonare dei lingaggi legalmente
consentito. Altro che rigore. Altro che scarnificazione. Resistere al proprio
lavoro. Resistere come fa la natura che poi scoppia nel tuono e nei fulmini. Qui
c’è eros. Tensione guerriera di linguaggi. Barocchismo. Un grande sì alla vita.
Tenere sulla corda il linguaggio consueto. Farlo vibrare. Perché il regista
quando esegue il proprio esperimento è un lavoratore come un altro, come un fabbro,
un operaio, un orchestrale. Disciplinato e furibondo. Come agisce il prodotto
del tuo lavoro se tu lavoratore non puoi disporne? Altro che forza creatrice
soprannaturale! Altro che lavoro come fonte di ogni ricchezza e di ogni
civiltà! Il valore d’uso è ricchezza.
Mi ricordo, a questo proposito, la commozione e
l’ammirazione con la quale Straub mi parlava dei violinisti delle orchestra
nella Ddr socialista. Il loro modo di trattare lo strumento. Di proteggerlo
anche dalle eccessive sedute di registrazioni, per essere smaglianti nel giorno
dei concerti, pochi all’anno… mentre ormai, con la globalizzazione e le
esigenze dell’industria discografica multinazionale, quei musicisti sarebbero
stati schiavizzati con abbassamento della qualità, ritmi infami e usura dei
loro strumenti e corpi. Stesso discorso per gli attori del Berliner Ensembre,
che Brecht aveva diretto. E pensavo, per analogia, che anche la robotica in
fabbrica che aveva annientato l’operaio massa, i sistemi avveniristici tmc1
tmc2 tmc3, invece di aiutare i corpi dei lavoratori a faticare meno li
seviziano oggi in maniera ancora più sadica, negli apparati nervosi più che nei
muscoli, però, e allontanando, anche fisicamente, un operaio dall’altro. Con
più difficoltà a pensare alla rivolta in moltitudine, alla trasformazione della
forza lavoro in classe operaia. Servono rinforzi. Arrivano dall’Africa nera e
dal Medio Oriente. Sapranno inventare qualcosa? Per ora resistono.
Resistere a tutto questo. Resistere anche al
linguaggio del cinema come fa il poeta con la sua stessa lingua. Ecco la
lezione di storia straubiana. Questa volta raccontata a partire dalla presenza
di comunisti nei suoi film. Non di semplici partigiani, come nella
sequenza di Othon sui titoli di testa
quando è inquadrata la grotta nella quale l’Fln nascondeva le armi. Ma
rintracciando tutti i comunisti, consapevoli o meno di esserlo, presenti nei
suoi film passati (anche per questo non troppo amati dale istituzioni culturali):
Franco Fortini che legge il suo saggio I
cani del Sinai in appoggio alle lotte palestinesi nell’episodio Panoramica sulle Apuane (dal film Fortini/Cani
del 1976); gli operai egiziani perseguitati da Nasser fino a el Sisi che
escono dalle fabbriche, oppressive e liberatorie,
come quelli enigmatici dei fratelli Lumiere in Troppo presto troppo tardi del 1982 (episodio Il popolo); Elio Vittorini, che dà voce in Operai, contadini del 2001 a
una militante messinese in dubbio, oggi come nel dopoguerra, su come rispondere
alla fame, alla sete, alla paura, alla miseria, alla violenza e all’euforia
industrialista (episodio La speranza).
E Il verde dell’utopia comunista diventa
un episodio, da La morte di Empedocle, con
il suo piano lungo e fisso, ovviamente post-umano, su un bosco al vento, che
sarebbe piaciuto a Holderlin. E’ del 1987 e già rimette i comunisti fuori
campo. E, prima ancora degli altri, a inizio film, i comunisti catturati,
presi, torturati dai nazisti nella Germania prebellica, qualcuno muore,
qualcuno parla. E’ Il tempo disprezzato, dalla
novella di André Malreaux del 1935, l’unico
episodio che Straub ha girato ex novo nel 2014 con riprese (4:3,
HD video, Canon 5D) effettuate nella cittadina svizzera di Rolle, dove
vive Jean Luc Godard, anzi le celle degli interrogatori sono proprio le pareti
della sua casa. Anzi, forse una delle due voci fuori campo che interrogano i
prigionieri è proprio quella del caro amico Godard. L’altra è certamente di
Straub alias Jubarite Semaran. La novella (neanche degna di comparire nelle
opera complete della Pleiade) è ispirata quasi sicuramente al Die Prufung: Roman aus einem Konzentrationslager,
romanzo semi autobiografico di Willy Bredel scrittore comunista tedesco
arrestato da Hitler e sbattuto in campo di concentramento.
Dal 10 novembre Kommunisten
è uscito nelle sale italiane (sarà proiettato a Roma al cinema Palazzo il 20), ed è quasi un miracolo (comunque un’impresa
di cui potrà vantarsi in eterno la società di distribuzione cinematografica
Boudu). Questo nuovo film di Jean Marie Straub in sei capitoli ha un prologo, che
è l’inno nazionale della Repubblica Democratica Tedesca composto da Hans Eisler
e che in occasione delle Olimpiadi di tanti anni fa sentivamo spesso (e non
solo grazie alla straordinaria, certo olimpionica, maestria chimica dei medici
di quella nazionale tanto spettegolata anche a vanvera). Nella seconda strofa,
non la sentiremo, il testo dell’inno affermava:
“Tutto il mondo anela alla pace”.
A Locarno, dove Kommunisten
è stato presentato in anteprima mondiale ma fuori concorso, a ribadire comunque
la collocazione militante, di ricerca e più “teoricamente corretto” di altri,
del festival ticinese, è stato presentato assieme a due altri film straubiani di
composizione ibrida, A propos de Venise,
diario di un viaggio in Laguna del 1887 di Maurice Barrés, con una sarcastica
Barbara Urlich voce recitante e Bach in sottofondo e il “preistorico” Dialogue d’ombres, da una novella
pubblicata da Bernanos nel 1928 e firmato con Daniéle Huillet nel lontano 1954. Due amanti in dialogo serrato, anche teologico, etico,
erotico. Una sorta di esperimento che diventerà il più cattolico La mia
notte con Maud rohmeriano. In entrambi i film vengono inseriti e
dialetticizzati brani da Cronaca di Anna
Magdalena Bach. Procedimento a mosaico anticipato in molte opere dal
montaggio multiplo del duo, e poi inCézanne
e in Proposta in Quattro parti realizzato
nel 1985 per ”la maginfica ossessione” di Fuori Orario. Nel primo venivano
inseritie sequenze da La morte di
Empedocle e anche Madame Bovary
di Jean Renoir. Nel secondo dialogavano tra loro David Wark Griffith (A Corner in a Wheat), Mosé e Aronne, Fortini/Cani e Dalla nube alla resistenza. Si devono
ritoccare, se non rinnegare, le proprie opera giovanili, adeguarle a una nuova
situazione interiore. Come scriveva Goffried Benn “si deve fare di sè una
vecchia gazzella se si è stati un giovane sciacallo”. Il cambio di paradigm è sempre necessario tra
comunisti.
Comunisti. Quelli ancora vivi, che hanno lottato per
un mondo migliore o almeno altro da
questo - abbiano partecipato all’avventurosa impresa di costruire un “potere
operaio mondiale anti sessista e antirazzista” o di edificare o difendere una
società-stato socialista (e non nazionalista, anche se in un solo paese) - stanno
raccontando da tempo a chi non sa o ha appreso in maniera deformata la loro
preziosa (anche se, certo, sconfitta) esperienza.
Se l’assalto al cielo è fallito anche l’assetto barbaro
sulla terra, oggi, non è dei migliori, specialmente nelle zone controllate dal sacrilegio
armato, laico o religioso che sia. Così improvvisamente l’immaginario
collettivo ribelle si riappropria di visionari e profeti rimossi, gli
eterodossi dell’arcipelago comunista, da Olof Palme a Thomas Sankara, da Che Guevara
a C.L.R.James, dagli I.W.W alle suffragette “come programma minimo”; spuntano
dal nulla e entusiasmano Barack Obama (perché non era al senato per dire no
alla tragica farsa dell’Iraq aggredito: Hillary sì) e poi Jeremy Corbin,
Siryza, Bernie Sanders, Podemos, i premi Nobel tunisini… Non possiamo oggi che
dirci comunisti libertari. Ma non
basta.
Comunisti. Abbiamo divorato in questi mesi con le
pagine dei maestri più sinistri e maligni, via via Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Mario
Tronti, Dello spirito libero, Toni
Negri, Quasi un’autobiografia, Pietro
Ingrao, Volevo la luna… per limitarsi
all’Italia, agli ultimi anni e alle cattive
personalità che con più entusiasmo e acume hanno saputo coinvolgerci nelle loro
memorie antifasciste e nella loro storia di anti capitalisti. E’ in arrivo da
Hollywood anche un film su un altro birbante, lo sceneggiatore Dalton Trumbo,
che pagò con il carcere il solo fatto di agire e dichiararsi fieramente comunista americano dentro il
maccartismo e la guerra fredda. Come si ricorda oggi Trumbo? “Ah, quel vecchio
comunista!”. Ma.
La generazione che non era ancora nata nel 1991,
quando il comunismo reale, come si dice, crollò a Mosca dopo 46 anni di agonia
e almeno 28 di spinta propulsive internazionalista e quella maoista, formatasi attorno alle effimere
(in senso barocco) lotte planetarie e anti-imperialiste degli anni sessanta e
settanta, quelli che hanno l’età di André Glucksmann e resistono, vogliono
capire, conoscere, analizzare, sapere molto e di più del novecento e della
modernità, anche declinata a oriente, e tutto sulle anime belle e sugli spiriti
liberi comunisti. Comunismo fu il più alto intento umano che il moderno
abbia messo in campo. “L’errore non è stata la rivoluzione subito. L’errore è
stato il socialismo subito”. Traumatico sintetizzare in pochi decenni secoli di
pesante oscurantismo che tuttora affiorano dentro i muscoli del neo-zar Putin.
Non era utopia il comunismo o “una ricetta per la cucina dell’avvenire” come
scrive Tronti. Ma un modello troppo presto, almeno dal 1930, contraddetto. E’
stato un tentativo “disperato e riuscito, di trattenere un brutto presente
invadente, fermare la guerra, trovare un rimedio alla fame dei contadini, una
risposta alla fatica sfruttata degli operai”. Vi pare poco? “Era un balzo della
tigre nel passato”. E, siccome chi vuole avere le visioni per essere un po’ più
scientifico ed etico deve andare al cinema, ecco il film che sintetizza tutto
questo, che immette nel nostro intimo le immagini costruttive della nostra
coscienza, che fa “un balzo di tigre nella storia” del cinema.
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