giovedì 26 novembre 2015

A bigger splash di Luca Guadagnino . E Dio esiste e vive a Bruxelles

Paul Thek, Il tuffatore 1969


Roberto Silvestri



I due film della settimana, che escono quasi contemporaneamente nelle sale italiane, sono una coproduzione italo-greca, A bigger splash di Luca Guadagnino, con quel titolo che rievoca tanto un dionisiaco e "fumatissimo" reggae sunsplash dell'epoca Bob Marley e Peter Tosh e una commmedia nera dal titolo provocatorio e blasfemo, Dio esiste e vive a Bruxelles, del geniale cineasta fiammingo Jaco van Dormael, qui pigramente adagiato, ma sa tirare colpi al ventre che raggiungono l'obiettivo, su un copione stipato di gag, lazzi e scherzi da prete tratti dalla tradizione blasfema e anarchicheggiante alla Hara Kiri. E' proprio il momento adatto per una pellicola così. Soprattutto per rispetto a Charlie Hebdo e pensando al Belgio del coprifuoco di questi giorni e ai belgi come sono stati maltrattati da Baudelaire e dai francesi di oggi piuttosto furibondo con la leggerezza poliziesca del piccolo vicino. Perché questa farsa serissima si presenta fin dal titolo come una controparabola cristiana (oltretutto parafemminista) e alla Pap'occhio che titilla i nostri piaceri più sarcastici, goliardici e proibiti, pur affrontando serie tematiche religiose, come la grazia, la predestinazione, il libero arbitrio, il senso di colpa e il ruolo imprecisato della donna. Dissacrare in fondo non è il cuore del nostro (esageratamente magnificato come nostro, ma a me sembra di tutta l'umanità non dominante) stile di vita? E quale attore più dissacrante di Benoit Poelveroorde, l'Alvaro Vitali transalpino,  per strappare la parte più ambita di tutte, se se ne vuole dare una versione anticlericale e da epoca Web? Il web sa scatenare i nostri istinti più sadici e abominevoli, egoisti e bisbetici e attraverso il computer si può punire eternamente tutte le creature viventi. E tenerle sotto controllo. Figuriamoci dio come si divertirebbe a immaginare quei misteriosi e imperscrutabili sui disegni sul Mac. Ma. Sostituite dio con il "sistema globale militare industriale" e comprenderete il succo obliquo e secrettato della parabola. La figlia di dio in persona, e la moglie di dio in persona, tradiscono il patriarcale tiranno e, diffondendo via computer tutto ciò che non si deve mai sapere, se no l'anarchia impazza, fanno saltare il giocattolo. Come Lassange con Washington.  Basta svelare a ognuno il giorno della propria morte. E a quel punto il divertimento macabro prende il sopravvento. Dio insegue la piccola peste che nel frattempo si è creata una corte di apostoli, secondo i consigli del fratello maggiore, che la sa molto lunga, e a Bruxelles si svolgerà una caccia divina all'ultimo sangue.
Ma blasfemo è anche il film di Luca Guadagnino, solo che il suo irridere è formale, è nei linguaggi compositi che si utilizzano - spesso male come ci ha spiegato perfino Muccino, antipasoliniano irriducibile -  nel raccontarie storie in immagini sonore. Guadagnino, italo-maghrebino, mamma algerina, nei suoi film mescola sempre un piacere narrativo tutto suspense hollywoodiano e un gusto grafico per l'arabesque musicale che il fido montatore Walter Fasano rende spiazzante e acido grazie a controtempi, trance improvvisa e deliranti racconti. Non a caso la tesi di laurea di Guadagnino, allievo di Giovanni Spagnoletti, è stata un radiografia di un maestro, Jonathan Demme, drastico formalista dal cuore sapiente.  Inoltre i suoi film che conosciamo e apprezziamo (a cominciare dagli epicurei Melissa P. e da Io sono l'amore)  sono speciali nel panorama italiano per una atmosfera accecante e solare e una sensualità dionisiaca, più che gay, sparsa ovunque. E, a proposito di amore.
Si fa sempre l'amore in quattro, anche quando si crede di farlo in due. E anche quando si crede di farlo tra un uomo e una donna. Parola di Lawrence Durrell che era più di un raffinato scrittore, un conoscitore delle nostre zone più dark, individuali, bisex, sfuggenti e collettive. Quattro è il cuore numerico di una rock band del periodo d'oro, 60-70. Beatles, Rolling....Monterrey/Woodstock... .E cos'è una rock band, soprattutto californiana, se non emozioni forti ed estreme in interfaccia, che si scambiano, in poliritmia, elettricità e corpi, palco e platea, musicisti e pubblico? Il film di Guadagnino è suonato da un quartetto. Quattro strumenti. Molti e avulsi intrecci erotici. Però il rock non è più quello di Janis. E' diventato business gelido. Ha il profumo di Rod Stewart, piuttosto. Ecco perché Tilda Swinton, che qui è la super star del palcoscenico, è afona. E' senza voce. Metafora del non saper cosa dire in questi tempi oscuri e senza via di scampo. In un film musicale libanese girato durante l'assurda guerra di allora, prove generali dello scontro babelico di oggi tra rivoluzionari (allora maoisti), sciiti, sunniti, maroniti, ebrei, la protagonista era una cantante, che aveva perduto la voce. Ed era un capolavoro. Come questo. Che ci trasporta in una bella villa con piscina nell'isola incantata di Pantelleria. Un panorama curiosamente simile a quello dell'ultimo Barbet Schreoder (anche se lì siamo a Ibiza, nella scena dee-jay anni 90).

Janis Joplin avrebbe detto: "Ibiza, Pantelleria, sì, posti esotici, come Lima, come Acapulco, come il nord Africa, uno di quei luoghi cool che piacciono tanto ai fighetti....". Ma oggi Pantelleria non è solo questo. Siamo dentro un eurofilm su commissione, finanzia Studio Canal. Ma l'effetto finale sarà quello di un eurogol. Una immagine agghiacciante lo chiuderà. E sembrerà un ricordo, un sogno di Brian Jones. Ma in realtà è come il requiem per i morti nel Mediterraneo di Isaac Julien. Un remake, questo A Bigger Splash, che fa la critica dell'economia immaginaria dell'originale francese del 1969. Mette molto sesso liberato e asimmetrico nel cinema italiano di oggi senza la concentrazione ossessiva di Tinto Brass. C'è aria profumata d'afghano alla Bertolucci, e non solo per la villa e per la piscina (un gigantesco Corrado Guzzanti maestro in comicità surreal-dadaista, che non ha neanche bisogno di alzare il tono, anche se fa il Benigni della situazione e impersona un carabiniere, ma non come nelle barzallette, lasciando perplessi chi al cinema è malato di muzak) e per Dakota Johnson, intrappolata col velluto, come successe a Liv Tyler. C'è la violenza viscontiana, con citazione quasi filologica di Ossessione, i due amanti nell'automezzo, a delitto compiuto. C'è l'horror di Mario Bava, un maestro nel kammerspiel dark.  E questo disomogeneità di riferimenti è ancora considerata molto scandalosa.
Torna il quartetto sentimentale di La Piscina, allora, a Maggio da poco sconfitto, un irritante e calligrafico pezzo di "cinema di papà", regia professionalissima (questo il guaio) di Jacques Deray, in realtà veicolo per il duo divistico "Alain Delon e Romy Schneider" alle prese con un borghesissimo doppio triangolo incrociato (grazie a una Jane Birkin come al solito polivalente) ambientato nell'ambiente intellettuale più banale (scrittori agiati). Oggi la piscina torna ad essere sessantottina, è in una villa a un passo dall'Africa, terra che il regista Luca Guadagnino conosce molto bene, e che quanto a soggettività desiderante sta dando una lezione a tutto il mondo (almeno a Tunisi). E siamo nel secolo dopo. Pantelleria vuol dire certo tragedia dell'esodo. Battelli, polizia, fuga, speranza... Ma vuol dire anche Claudio Baglioni, a proposito di pop music. E Baglioni è, ci crederete o meno, un mito della controcultura americana. Il regista Paul Morrissey, il braccio destro di Andy Warhol, lo adora... Piace a Morrissey la melodia e l'armonia pacificata, quel rock mediterraneo disintossicato dai veleni chimici della droga. Anche molto rock anglosassone è stato devitalizzato, dopo le grandi tragedie, e i grandi decenni, sono famosi gli strali dei Clash contro tutto il mercato rock british dell'epoca, Rod Stewart in particolare. Gruppi divisi per generi, incasellati come nel supermarket. Suoni preconfezionati e standardizzati. Poi salta sempre fuori qualche gemma. Qualche tesoro euritmico...Marianne (Tilda Swinton che omaggia la Faithful?) è sicuramente uno di questi. Ci crediamo sulla fiducia. Una specie di novella Annie Lennox. Altra consonanza, una rotondità di fraseggio che può far venire i brividi e fare impazzire più di un assolo alla carta vetrata di Syd Barrett.  La metafora del senza voce è geniale.  L'incredulità con la quale abbiamo assistito alla distruzione di ogni centro tranculturale, dalla Turchia purificata di curdi armeni ebrei e greci, a Beirut e Sarajevo, da Baghdad a Damasco, lascia senza parole. Si vuole costruire un mondo dominato dagli Orban e dagli Erdogan su modello asettico e monorazziale della Corea del Nord o molto peggio dell'Isis? Gli artisti non riescono più neanche ad urlare come Ginsberg, come Havel, come Zappa....
Nel film di Deray erano due letterati, a battersi per una donna. Cinema da boulevard. Qui siamo tra artisti diversi. Audiovisivi. Una star del rock che appunto ha perduto momentaneamente la voce (Marianne), un fotografo emergente (Paul) che è il suo nuovo amante; un genio della produzione discografica, dal passato mitico di manager dei Rolling Stones (Harry), ed  ex di Marianne, e sua figlia Penelope, appena conosciuta in effetti, potrebbe sembrare la sua amante Lolita, è tra il misterioso e il catatonico, il banale e il sublime, come si usa tra le millennial alla moda.
Con Walter Fasano al montaggio, la sezione ritmica è assicurata. il film pulsa, svisa, riffa. Mai una inquadratura è quella che spaziotemporalmente ti aspetti.Yorick Le Saux, che disciplina le luci, ha il compito di congelare il surplus di calore africano e di riscaldare le ombre più sinistre. Il quadro è un continuo controbalzo. Via il folklore meridionale. Il divo fiammingo emergente Matthias Schoenaerts offre il suo corpo di granito e macho, una sorta di Putin cubista, al desiderio gay (e senza bisogno di mettersi una barba posticcia come un combattente del daesh). Si parla di Hockney, no? Ralph Fiennes e Tilda Swinton sono per Guadagnino come gli Experience per Jimi. I loro gesti e i loro sguardi sono la storia universale di quel gesto e di quegli sguardi. Hanno il compito di inventare per un film pop, fluido, melodico (e iper realista, alla Hockney, dice il regista)  un tracciato sotterraneo e alternativo espressionista. Un basso continuo dissonante. Tanto che alla fine del tragitto l'energia che scagiona da questo film è simile all'energia Janis o Jimi. Come se Guadagnino si volesse ricollocare, tramite La piscina al 1969, all'anno in cui fu girato. Un viaggio nel tempo affascinante. La prova è nell'invettiva politica finale, inaspettata. Quando la tragedia dell'esodo "biblico" contemporaneo conquista e non strumentalmente il primo piano. In quell'attimo, nell'agosto 1969, un altro pittore dell'avanguardia statunitense, poi morto giovane di aids, amico di Warhol, dipinse "il tuffatore". Nella piscina. Il quadro che abbiamo messo in testa alla recensione. Autore un altro Paul. Paul Thek. Pittore da riscoprire. Proprio come questo film. Non basta una visione. Magnifiche visioni.  

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