Stanley Cavell. Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio. 24 euro Einaudi. 1999. Traduttore Emiliano Monreale
di roberto silvestri
“Si impara sempre qualcosa
da qualunque film americano anche stupido, ma mai nulla da un saccente film
inglese”.
Semplifichiamo a memoria la celebre frase di Ludwig Wittgenstein
scritta negli anni trenta, quando la commedia, il western, il musical e l’aspro
dramma social-gangsteristico sono i generi principi di una Hollywood fabbrica
di sogni ma anche di identità, che racconta la storia antica mentre fa storia
contemporanea, tra ‘teoria della frontiera’ e ‘new deal’ come progetto inedito,
fiaba quasi utopica, coreografia sincronizzata, per un attimo, tra classi
sociali, sessi e melting pot in furiosa lotta.
E se Martin Scorsese nella sua
piccola, recente storia filmata (e privata) del cinema americano rimuove la
commedia, perché gli sembra ovvia, è proprio ai botteghini dei film di Frank
Capra e Howard Hawks che, durante la depressione, milioni di assegni di disoccupazione
trovarono il loro più razionale senso facendo scandalizzare gli storici liberal
più austeri.
Lo spiegherà più tardi e li prenderà in giro Preston Sturges
allora sceneggiatore poi diventato (non tanto facilmente) regista, in “I
dimenticati”. Far ridere, vendere gioia, far dimenticare i guai della vita ai
derelitti, agli sfruttati, ai poveri, ai carcerati. Produrre estasi, trance,
deliri, fuoriuscita da sé. Evasione. Prefigurare ipotesi di giustizia, mondi
nei quali i sopraffattori siano sopraffatti. Ecco un buon progetto di cinema
militante o almeno consapevole, per un regista che voglia toccare il cuore
sapiente del pubblico e innalzare il livello di coscienza politica sua e del
proletariato tutto, infiammare le masse, progettare rivolte, almeno interiori.
Non si comunica un bel niente se non si riesce a trasmettere direttamente,
faccia a faccia - tramite la critica più spietata, la risata – e guardandosi
negli occhi, non dall’alto in basso, il “grande no” allo stato di cose
presenti. Stanley Cavell
E contemporaneamente produrre un grande sì alla vita, perché l’America è la terra dell’entusiasmo atletico e esuberante che fu cristallizzato nelle acrobazie cinetiche di Douglas Fairbancks sr. E anche l’unico che voglia garantire la felicità del popolo, almeno secondo le Leggi fondative. Senza comicità, insomma, niente rivoluzione in occidente. Quando la dimentico, la Russia crollò come Urss.
Qualche decennio fa la
Raitre di Guglielmi, per miracolo irripetibile, scodellò trenta commedie
americane anni trenta, griffate La Cava, Hawks, Capra, Lubitsch... E per merito
delle dense e aguzze presentazioni di Vieri Razzini (e dei sottotitoli che per
la prima volta non deturparono la prima meravigliosa voce sullo schermo, quella
di Jean Arthur) penetrò anche nel nostro immaginario così ben protetto da gerarchie
cattoliche sanguinarie, materiale ludico sovversivo proprio perché finalmente
spiritosamente non integralista.
E
siccome la commedia dei primi anni trenta è marxiana (i fratelli Marx),
distruttiva (Fields), lussuriosa al limite del codice penale e ben al di là del
perbenismo fascista (Mae West), corrosiva (Lubitsch), surrealista e dadà, cosa
successe poi perché divenne nel corso del decennio “a glow of satisfaction”, ancor
più “sofisticata” nei set e costumi, screwball (svitata) nel ritmo pazzo e
capace di “riconciliare gli irriconciliabili”, di prefigurare la perfetta unità
della coppia eterosessuale, sebbene sempre sul punto di disfarsi
(l’omosessualità ne fu il controcodice quasi impercettibile)? Fu la fine della
paura, della fame e della disoccupazione?
Il
volume miliare dello studioso (e anche regista) Andrew Bergman “We’re in the
money”del 1971 resta un classico del cinema rooseveltiano, il primo, di
sinistra, che non vuole piu’ declinare insieme populismo e progresso. Anzi, ne
divarica gli esiti. I populisti odiarono Roosevelt e da allora si spostarono
per sempre a destra, traducendo forza lavoro con gente e classe operaia con
cittadini.
Quelle
arcaiche suggestioni che restano fuoco e non cenere e che danno alla civiltà
occidentale ancora una chance. Che le permettono di ipotizzare, dopo sicure
complicazioni non solo erotiche, e il superamento di non facili ostacoli, un processo
di trasformazione morale e maturazione interiore. E dolo la necessaria morte
simbolico ecco che si giungerà a un ulteriore… ri-matrimonio con la storia.
Eccitante come quello tra Rosalind Russell e Cary Grant in “My girl Friday” o
tra lo stesso Cary Grant e Katharine Hpeburn in “Susanna”. Certo: ma perché bisogna
aspettare venti anni per avere avere a disposizione tradotti i grandi classici
della critica cinematografica? Siamo ormai alla crisi verticale anche
dell’editoria? Oppure è troppo forte per il nostro sistema mentale bigotto concepire
che il grande amore che ci trasforma in invincibili è l’unione non facilmente
ipotizzabile tra un lui “in trance” e una lei in delirio come Cary e Kathy? Leggere
in questo senso il capitolo III, intitolato “Leopardi nel Connecticut” ci farà
capire di più il retrogusto comico di Il
giovane favoloso di Mario Martone.
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