lunedì 21 aprile 2014

5° Skepto Film Festival. Vince un film sul problema del velo nello sport. Intanto, dall'1 luglio, le giocatrici islamiche potranno gareggiare in tutto il mondo con il loro foulard....

di Roberto Silvestri

"Try-outs" di Susana Caseres, che ha vinto la V edizione di Skepto

Qualche giorno fa il quinto festival internazionale del cortometraggio di Cagliari, Skepto (9-12 aprile), eccezionalmente organizzato da uno staff di volontari di prim'ordine, premiato da una straordinaria presenza di pubblico, competente e attivo, e di cui fu animatore per tanti anni Alberto Signetto, il regista torinese prematuralente scomparso, che ha contribuito a farne un appuntamento sperimentale e conviviale, ha presentato una superba selezione di film a soggetto (per l'Italia Pre carità, di Flavio Costa, sull'accattonaggio come business che richiede alta professionalità e corsi ad hoc) e documentari in concorso, sia nei cinema che nelle piazze stipate, oltre a una sezione notevole di short comici (tra questi, giustamente premiato, il demenziale Sassiwood di Antonio Andrisani e Vito Crea), di cartoon (dove hanno spopolato le opere ungheresi di Reka Buksi e Peter Vacz) e di film di produzione sarda, cui la neonata "Fondazione Film Commission", diretta con convinzione e competenza dalla cineasta Nevina Satta, ha promesso, a partire dai prossimi mesi, una non burocratica assistenza, e non solo finanziaria e logistica. 

Il regista turco Abdurrahman Oner

Non  è mai successo che una giuria (di cui facevo parte assieme al critico castigliano Javer Chillon, a Olga Bel, direttrice del festival Mabuse Short di Barcellona, al direttore del Festival di Tirana Agron Domi, al vice direttore di RaiNews24 Fausto Pellegrini,  al cineasta James Rumsey e al critico e organizzatore di festival  Massimiliano Nardulli)  potesse indifferentemente premiare uno o l'altro dei film presentati senza suscitar fischi, scandali, polemiche o baruffe. Va dato merito per questo al direttori artistici della manifestazione, fin dalla prima edizione, Stefano Schirru. E al suo staff. Siccome da 5 anni i migliori registi del futuro vengono a Cagliari gli enti locali dovrebbero fare maggiore attenzione a questo evento. E finanziarlo in modo che arrivino poprio tutti i cineasti selezionati. E costa molto. Ma gli Zhang Yimou, le Campion, i Kitano e i Kaurismaki di domani potrebbero innamorarsi di questi paesaggi di questo clima amichevole, del calore del pubblico e di questi tesori d'arte. E l'economia dell'isola potrebbe trarre enorme vantaggio materiale da queste giornate di proiezioni e discussioni 'immateriali'.

Buhar di Abdurrahman Oner (Turchia)

Io ho trovato particolarmente innovativo dal punto di visto concettuale e stilistico due opere non premiate. Un thriller turco ricamato come un arabesque ma di micidiale ferocia nello svolgere il conflitto modernità contro tradizione, Buhar, di Abdurrahman Oner (purtroppo assente ma reduce dal festival di Belgrado che ha appena vinto), 'femminicidio  domestico capovolto', in bianco e nero. La telecamera è di fronte a uno specchio che inquadra una cucina con un piccolo televisore e, a destra, il tavolo da pranzo. Lo specchio sarà ostruito lentamente dal vapore, che cancellerà proprio la scena finale clou, che particolarmente nel corto è lo stereotipo obbligatorio, il bersaglio verso cui sono diretti tutti gli impulsi della storia, qui frustrati nella loro spettacolarità generalmente implacabile come in uno sketch o prevedibile come in una lezioncina morale.  Ed è la moglie che uccide il marito, anzi il patriarcato tutto, nella sua serialità micidiale. E più invisibile è la scena, che è il sonoro a visualizzare (solo nel bordo destro si intravede la vittima arrogante, il marito che ha deciso di sposarsi un'altra moglie più giovane, e lo comunica burocraticamente, mentre l'imprevista copertura gassosa emanata dai fornelli lo cancellerà più di un colpo che non vedremo ma sentiremo) più incisivo e irreversibile è l'atto. Buhar significa: Svanendo nel blu.

MeTube: August sings Carmen Habanera di Danile Moshel (Austria)

Così come senza finale, anzi tutto un finale, la mamma che porta amorevolmente da mangiare al figlio, ma qualcosa non quadra, perché dietro la scena c'è sempre un retroscena, è il più stravagante dei 33 film in gara, la clip musicale Metube: August sings Carmen Habanera dell'austriaco Daniel Moshel, satira perfida del cinema 'monolocale' all'europea, omaggio techno e robotico alla melodia ispanica di Bizet, capace, anche in playback, di resuscitare dall'inconscio di un deprimente quadretto familiare piccolo borghese dai lividi colori verdastri (e per la proprietà transitiva anche del pubblico, invitato a lasciarsi trascinare dalle pulsioni) le più eccitanti, colorate e imprevedibili fantasmagorie ludiche, che qui sono omoerotiche, sadomaso e di gruppo. Quasi un omaggio all'immaginario di David Lynch, John Waters e David Cronenberg.   

Rosemary Jane di Carolina Petro (Columbia/Uk)

Confermando la tendenza di molti giovani cineasti (non solo italiani) a muoversi dal proprio paese per arricchire il proprio bagaglio umano e culturale studiando o vivendo all'estero, più che per disperazione (come da noi), Abdurrahman One è scomparsa nel nulla, prima di inviare una copia in alta definizione del suo lavoro, visto in sala in versione provvisoria non giudicabile, e ha vinto il primo premio invece una cineasta spagnola diplomata all'Ucla di Los Angeles, Susana Casares con Tryouts (che sono le esibizioni-performance delle ragazze pon pon), mentre una menzione speciale della giuria è stato attribuito a una cineasta colombiana, Carolina Petro, che ha girato il suo saggio, Rosemay Jane, in Inghilterra  (innamoratissima del marito, morto da poco, una signora entra in contatto con i pusher west indies di una sinistra zona periferica londinese con la quale confina, per rifornirsi di marijuana eccellente e superare un lutto che la sta lasciando insonne da troppo tempo. 

Debtfools di Filippo Verdakas e Despina Ekonomopoulou (Grecia)

A parte la lancia spezzata in favore della legalizzazione della droga leggera e del suo comprovato valore terapeutico, il film ha un guizzo perché proprio sul luogo comune del finale a effetto (che qui è soltanto la dolce fumata) c'è, inaspettata, un'anticipazione dell'happy end, quando la sessantenne signora wasp abbraccia e bacia in una galleria il suo perplesso rifornitore black perché si avvicinano minacciosi due impiccioni di poliziotti. Di circolarità perfetta, ma è quasi diventato un soggetto a sè, che conta numerose variazioni divertente, e che consigliamo a ogni scuola di cinema, è il greco Debtfools, di Filippo Vardakas e Despina Ekonomopoulou, perfetta metafora che spiega, sotto forma di farsa, perché il debito più c'è, più fa ricco il popolo. Un turista americano vorrebbe affittare una stanza d'albergo in un piccolo centro greco. L'albergatore riceve 100 euro d'anticipo, mentre lo yankee sceglie la sua stanza. E va dal macellaio con il quale ha un debito di 100 euro, che ha un debito con il benzinaio che ha un debito con il proprietario di un night, che ha un debito con una entraneuse, che ha un debito con l'albergatore che, riprendendo i 100 euro li può restituire all'americano (e non potrebbe essere un tedesco...) che non trova le stanze di suo gradimento. E se ne va. Intanto tutto il ciclo economico è salvo. E' solo una questione di tempi.

Ma torniamo al film che ha vinto, Tryouts,  perché, anche qui just in time, elabora una storia ispirata a un problema vero, e di stretta attualità come leggeremo qui sotto, e che qui viene risolto con un guizzo di geniale transculturalità. Siamo in California e una ragazza sedicenne di origine araba (non persiana, perché gli iraniani di Los Angeles sono scappati sia per mettere in salvo il loro gruzzolo, sia per fedeltà allo scià, sia perché orripilati dai furori sessuofobici e antimoderni dei fondamentalisti islamici...)  partecipa alle selezioni delle cheers-leaders, le ragazze pon pon che organizzano, molto discinte, il tifo per la squadra di football. E' la migliore di tutta la sua squadra, per grinta e perfezione dei movimenti acrobatici. Ma ha un problema serio. Porta il velo in testa. Ea è contro il regolamento. Ma la religione obbliga la ragazza a non mostrare mai i capelli. Come fare? Ecco la soluzione. Si taglia a zero i capelli e, novella skinhead, verrà accolta nel gruppo. Potrebbe essere la soluzione che consigliamo in Francia alle ragazze costrette dai genitori religiosi a portare il velo (o che scelgono di farlo perché irritati dal fondamentalismo, laico o cattolico, esercitato nei loro confronti).

Symphonie N.42 di Reka Bucsi (Ungheria)

La federazione internazionale di calcio, Ifab, organo indipendente incaricato annualmente di redigere o modificare le leggi dello sport in sintonia con la Fifa e con i rappresentanti del Regno Unito, permetterà l'uso di un copricapo, e dunque anche del velo islamico, della kippa ebraica e del turbante indu', nelle competizioni ufficiali dall'1 luglio 2014. Non riuscendo a proibire o a multare l'abuso (anche scaramatico) del 'segno della croce' ad ogni ingresso in campo 'religiosamente interpretato' di un numero considerevole di calciatori "cristiani" si è considerato politicamentes scorretto proibire esibizioni di altri credi religiosi che non disturbino il corretto svolgimento del gioco. I sikh gareggiano in atletica leggera e giocano a cricket con i capelli coperti da molti anni. A Londra 2012 a due atlete saudite fu permesso di indossarlo. 

Proiezioni in piazza a Skepto 2014

Ma in Francia, dove un culto è obbligatorio, la repubblicanità,  questa legge susciterà non poche polemiche. Anche perché non è detto che il velo non possa essere pericoloso per le giocatrici e perderlo in campo potrebbe scatenare non poche tensioni in più. Intanto le ragazze che, volenti o nolenti lo indossano, potranno finalmente giocare a pallone e non solo danzare l'hip hop o fare atletica leggera e badminton. La Lega calcio francese continua a opporsi, pero', a questa regola perché minerebbe la neutralità dello sport. Ma rischia in questo modo una sospensione dalle competizioni internazionali. 

Cadet, corto in concorso a Skepto 2014, diretto dal belga Kevin Meul

Molte polemiche suscitarono in Francia i casi della squadra di calcio femminile del Montpellier, Patet-Bard, cui fu proibito scendere in campo con il foulard e della giocatrice Mériame ben Abdelwahab, la cui carriera finì prematuramente per essersi rifiutata di togliere il velo. Molti arbitri applicano però da anni con una certa tolleranza il divieto.  Portare il velo viene considerato da molti francesi un segno di ostilità sociale. Ma, secondo molte ragazze di origini arabe, proibirlo sarebbe un segno di ostilità sociale. Le tensioni inoltre si acuiranno anche perché dall'1 giugno tutti i messaggi politici saranno vietati. Regola incomprensibile anche questa. Dovrebbero essere proibiti solo i simboli nazisti e fascisti, si è vinta una guerra per questo. E poi di politico non hanno nulla i gesti razzisti e i simboli sciovinisti. Ma come si farà a impedire di giocare con un basco alla Che Guevara in testa e di salutare con il pugno chiuso i tifosi?

Allenamento di calciatrici islamiche della squadra parigina F.C. Les Gobelins






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