domenica 4 settembre 2022

Mostra di Venezia 90. Wiseman e Schrader. Di Mariuccia Ciotta

Schermi incrociati per le vie del Lido e ritorno al cinema della sacralità. Niente format seriale. Frederick Wiseman e Paul Schrader si incontrano in un giardino del secolo scorso. Un couple (concorso) e Master Gardener (fuori concorso). L'immagine si congela nella visione trascendentale. Wiseman (92 anni) segue le tracce di de Oliveira, al lavoro fino al traguardo di 106 anni, e non solo per una questione d'età. La sua Sofia/Sonja Andrèevna assomiglia alle portoghesi Benilde e Francisca, nascoste sotto abiti sontuosi, testimoni rivolte alla macchina da presa per confessare molti segreti e rivelarsi all'origine dell'arte maschile. Lei, Sonja (Nathalie Boutefeu) parla (in francese) di Lev Tolstoj, ed è già un suo personaggio, corpo reale per le pagine di Sonata a Kreutzer. Sospetti, gelosia, indifferenza, omicidio. Nell'isola bretone di Belle-Ile, alberi, cespugli e fiori sono animati da vita propria. Le corolle si agitano e non solo a causa del vento, approvano o contestano le parole di Sonja che vaga nel giardino di La Boulaye, e recita, straniata, le lettere inviate al marito, ogni giorno per 48 anni di matrimonio e 13 figli. La mattina Leo è amoroso, la sera è spietato. Un giorno la ama, e poi la caccia via infastidito. Il giardino reagisce e commenta, come in un film parallelo dell'autore di National Gallery. Primi piani dei petali frementi, osservatori del monologo, quasi la platea dei consiglieri comunali di Monrovia. Wiseman non li alterna alla recita per sottolinearne l'emotività, ma scandaglia la fioritura e la interroga. Forse Sonja non è una vittima, ma una scrittrice alle prese con un provino, ricordando Straub/Huillet, privati, però, di concentrazione e di austerità. Wiseman ride, si capisce, dietro le spalle di Sonja. Sta dalla parte del giardino e dei suoi colori che elargiscono vita, collane preziose dipinte di azzurro e rosa pastello. Ed eccoli tornare, apparizione disneyana e da paradiso anti-calvinista, i fiori, nella sequenza fiabesca di Paul Schrader che, come Wiseman, abbandona la storia del giardiniere ex primatista bianco, svastiche tatuate sulla schiena, ora pentito, ma succube della ricca signora sudista Norma Haverhill (Sigourney Weaver) che in un'altra vita sarà stata Rossella O'Hara, schiavi compresi. Joel Edgerton è Narvel Roth, il master gardener della grande tenuta di Graceland, sotto osservazione poliziesca (è stato testimone di giustizia) e morale (e sessuale) della padrona del giardino, pronto al concorso del più bello della zona. La signora, che diffida della nipote mulatta, possiede una Luger e la punta contro l'ex nazista in una inversione delle parti. Chi è più bianco? Gelido lo schermo, come sempre, tutto deve stare al suo posto secondo linee geometriche, seguendo le aiuole fiorite, moralmente squadrate, in continuità con Il collezionista di carte. All'improvviso, però, Schrader passa dal giardino all'italiana (e non alla francese, errore del copione?), ordinato e armonioso, all'allucinazione fantasmagorica, al giardino selvaggio in stile inglese. La vegetazione invade la strada sotto l'auto dell'ex white power innamorato della ragazzina african-american, il miracolo sparge fiori sui margini della carreggiata e poi, in un'esplosione di corolle multicolori, la notte si illumina e stende un tappeto di margherite e orchidee al passaggio della coppia. Contatto con Un couple. Deviazione dall'ordine delle cose e del proprio stesso cinema. Liberazione urlata dalla strana coppia che guida in un altro film, fuori dal perimetro narrativo, allo stesso modo di Wiseman.

Mostra di Venezia 90. Parte prima. Roberto Silvestri

Nel mezzo del cammin della Mostra, quando abbiamo visto e ammirato le opere di Schrader, Ferrara, Wiseman e Guadagnino e i doc di Laura Poitras, Mark Cousins e Steve James, ma non ancora i nuovi film di Walter Hill, Enrico Ghezzi e Alice Diop, sarà bene inquadrare le questioni di fondo del big business. Premettendo che il cinema argentino sembra quello più vitale del momento (da “Argentina, 1985” di Santiago Mitre a “Trenque Lauquen” di Laura Citarella). Rispetto al 2019, prima della pandemia, il consumo cinematografico nelle sale sembra in caduta libera: - 20% nel nord America e -35% nel mondo. E per quanto riguarda i circuiti internazionali rischiano la bancarotta compagnie potenti di esercizio, come la statunitense Cineworld Group e la britannico Picturhouse. Tanto che nel 2020 il dipartimento giustizia degli Stati Uniti ha cancellato la celebre legge antimonopolistica del 1948 che impediva agli studi (e oggi a Apple, Netflix, etc.) di essere proprietari anche di sale di proiezione, oltre che produttori e distributori di contenuti. Perché questo poteva nuocere agli interessi commerciali (ben più sostanziosi) delle televisioni private. Questi dati generali sconfortanti che riguardano il numero dei biglietti venduti, riportati dalla rivista inglese Screen International, vengono confrontati con i box office dei singoli paesi. Senza i blockbuster, ovvero il cinema-cinema, il piacere del ritorno allo schermo gigantesco, cioé senza Top Gun (Paramount), Jurassic World Dominion (Universal), Doctor Strange, Thor (Disney) e Elvis (Wb), e nel mercato asiatico anche Bullet Train (che è Sony), la situazione sarebbe ancora più catastrofica, rendendo difficile la vita per tutto ciò che non sia il multiplex periferico e dei suburbi e i suoi viaggi mitologici negli archetipi spettacolari. In questo duro contesto i festival di Venezia e Toronto cercano di rilanciare il cinema, di qualità commerciale e autoriale, scendendo a patti con le piattaforme e i colossi del web, compromesso che sembra ormai inevitabile e che sta modificando anche l'high concept e il linguaggio dei film, sia del mercato “grande” che di quello art house. Toronto, rispetto a Venezia si è accaparrato il nuovo Spielberg autobiografico, “The Fabelmans”, “Empire of Light” di Sam Mendes – che di vecchie sale cinematografiche tratta – e poi le nuove fatiche di Mary Harron, Stephen Frears, Peter Farrelly, Francesca Archibugi, Reginald Hudlin. Ma condivide “The Whale”, “The Son”, “Saint Omer”, il tremendo “Other's People Children”, “No Bears” di Panahi, e ancora britannici “The Eternal Daughter” e “The Banshees of Inisherin”. Molti dei film visti finora – White Noise, Tar, il giapponese A Man, Athena, Bardo, L'immensità...) si giovano del fraseggio libero consentito dagli sviluppi narrativi - di gran fondo - delle serie web e tv, con i giochi manieristici infiniti che complicano fino allo sfinimento la personalità (e anche la sessualità) dei protagonisti, che nel film giapponese di Keu Ishikawa non a caso cambiano anche nome, ambiente e indole - capaci di sorprendere continuamente lo spettatori per i repentini salti di passo e di carattere. Trasferirli nel “mezzofondo” o nella “velocità” dei 90-120 minuti di un film da sala, però, non è sempre d'aiuto. Si aprono continui buchi nella continuity, come se costanti “salti della scocca” rendessero il prodotto frivolo, pronto a tutto, solo preoccupato di non appartenere più al “cinema della rappresentazione” o a quello della significazione, al cinema d'azione e racconto puro o al crito-film saggistico, cosa che la sensibilità postmoderna, insomma Lynch e Tarantino, ci avevano abituato a mescolare senza imbarazzo perché garanti di una “falsità seria”.
Stella Dallas di Henry King (Usa 1925) Preapertura muta della Mostra, con orchestra, eccellente, e partitura di Stephen Horne, di un classico del cinema pre-code. A Belle Bennet, diva bionda dell'epoca, qui gran dama sudista decaduta, vittima della desertificazione economica successiva alla guerra di Secessione, e alla fine dell'economia delle piantagioni, riesce quel che non era concepibile per Rossella O'Hara. La love story con lo yankee, cioé Ronald Colman (ovvero il simbolo stesso dell'eleganza recitativa e della “innata classe english”), qui rampollo nordista, e sentimentalmente rozzo, di una agiata stirpe di finanzieri, rovinata da uno scandalo, che scende al sud per ricominciare come manager di una industria tessile (il cotone adesso va lavorato in loco, la schiavitù diventa quella del salario). Ovvio che le due civiltà e i nostri due eroi non si capiscano (siamo a cavallo del secolo, tra 800 e 900) come non si capiscono ancora oggi. E i due si separano: lui torna a New York e lei (il caratterino è quello di Via col vento) resta orgogliosamente al sud, tra i suoi amici, i pergolati fioriti, le pettegole di provincia, una moda troppo marginale che la farà sempre più assomigliare a Mae West o a una drag queen, e quell'amore per la vita che uno yankee non capirà mai. Mentre la loro figlia riassumerà le due qualità di entrambi, la passione di mamma e l'eleganza di papà. Stella Dallas, a costo di perdere sua figlia per sempre, troverà la maniera per scaraventarla al nord, da papà e dalla sua nuova moglie, forse perché la nuova America rinasca, eliminando gli orrori del passato (il razzismo) e e della modernità (il manchesterismo...). C'è odore di F.D.Roosevelt e di new deal nel melodramma, ancora molto commuovente, fiammeggiante e anche un po' pessimista e disperato.
White Noise di Noah Baumbach Usa Apertura Adam Driver ha aperto le danze, un po' appesantito perché il suo personaggio lo esigeva. E' il brillante docente universitario di storia, sposato con 4 figli, uno più stravagante dell'altro, che Don De Lillo nel suo romanzo omonimo del 1985 descrive alle prese con l'ambiente culturale amorfo di provincia, con i suoi “Hitler Studies” e con un collega (Don Cheadle) che lo vuole complice dei suoi seminari sui rapporti tra psicologia di massa del fascismo e esplosione teenager del fanatismo divistico rock. A Baumbach piacciono le contorte storie d'amore, estremamente elaborate dal punto di vista dei dialoghi, che si intersecano in maniera spesso indecifrabile, alla Hawks, con Driver (Marriage Story fu premiato a Venezia nel 2019) e qui il contorsionismo coinvolge anche il genere catastrofico, cioè una nube tossica che minaccia la salute dell'intera regione e obbliga la famiglia a fuggire (c'è traccia del covid...), e i nervi a fior di pelle di una moglie (Greta Gerwig) molto inquieta alle prese con pastiglie poco raccomandabili e con guru spirituali ancora più inquietanti. L'inizio fa saltare perfino le lenti degli occhiali, poi questo prodotto Netflix rientra nei limiti di una circolazione emozionale controllata.
Tar di Todd Field concorso Tanti anni fa, nel 1974, una documentarista che meriterebbe l'onore di un premio alla carriera, la nordamericana Jill Godmilow, che è di Filadelfia ed è anche studiosa di letteratura russa, realizzò con Judy Collins un documentario femminista (candidato poi all'Oscar) sulla grande direttrice d'orchestra argentina Antonia Brito, che comprendeva esecuzioni mozzafiato di Beethoven, Listz, Brahms e Rachmaninoff. Titolo Antonia. La rivista militante dell'epoca, Women on film, le dedicò una decina di pagine con intervista, e si polemizzava con le titaniche difficoltà per una donna, di pur rara genialità, di dirigere un grande ensemble di professionisti. Il parallelo con le registe espulse dai piani alti di Hollywood era lampante. Ma Todd Field (che maneggia solo attrici da concorso, da Kate Winslet a Silly Spacek) sembra aver capito molto poco di quel personaggio e di quei problemi, anche se Antonia Brito viene distrattamente nominata. Infatti a Cate Blanchet - che del film è produttrice e nel film interpreta Lydia Tar, immaginaria direttrice d'orchestra, erede di Bernstein e a capo della Filarmonica di Berlino - viene lasciato campo libero, solo per giocare senza redini con il suo personaggio, strattonandolo da tutte le parti e suonando ogni tasto dello strumento, semi toni compresi. La polemista femminista, la jena lesbica, la studiosa accorata, il genio senza anima, la teorica cinica, la sensuale, la donna d'azione, l'opportunista imbarazzante, l'amante abbandonata e così via. Decentramento performativo, dunque, come nuova tecnica per sedurre le giurie? O il solito insopportabile film che, prodotto da una diva, aggiunge un 30% di primi piani di troppo?
Riget Exodus di Lars von Trier Molti anni dopo i dieci fortunati episodi ospedalieri di Il regno, girati per la televisione danese dal 2004 al 2005, e metafora di una società nordica gravemente malata e forse chirurgicamente inoperabile, ecco i nuovi 13 episodi, più sbeffeggianti e autoironici. E, in tempi no vax e neo oscurantisti, certamente illuminanti. A Venezia sono state presentate le prime 5 ore, in un programma diviso in due parti. Ho visto la prima parte della nuova stagione, dominata soprattutto da quella che sembra una polemica campanilistica, quasi da curva calcistica, tra Svezia e Danimarca, visto che il protagonista, un luminare (piuttosto reazionario e perfino inetto) chiamato a Copenaghen per ricoprire un posto di alta responsabilità ospedaliera, susciterà forti contrasti e vendette d'ufficio, impreviste ma anche necessarie. Credo che non tutte le sfumature umoristiche del confronto siano però, per noi, comprensibili. Von Trier conferma una abilità unica di fraseggio e di messa in scena, e nel creare atmosfere estremamente pericolose e porta al massimo della forma un cast mozzafiato e affiatato, cogliendo con la precisione di un laser, la realtà ospedaliera. Monumento alla scienza e alla razionalità occidentale che poggia però le sue fondamenta sull'irrazionalismo religioso e la magia più inquietante e macabra: i sotterranei di questo ospedale sono liquamosi e nauseabondi antri infernali, ma anche il terrazzo dell'edificio, protetto dalle più moderne tecnologie di difesa, è stranamente indifeso. Dobbiamo alla cultura arabo-medievale andalusa, scientificamente più avanzata dell'epoca, XII-XIII secolo, la concezione moderna dell'ospedale come è inteso oggi, non più ricovero dei poveri e dei derelitti, recinto di compassione cristiana per corpi senza futuro, ma luogo di cura, conoscenza, analisi, ricucitura e guarigione. Eppure anche in questi reparti digitalmente d'avanguardia covano le più impreviste “sacche di resistenza” arcaica, come gli adepti (laureati) di una setta “White Noise” (strana l'analogia con il film di Baumbach) che considerano il “rumore bianco”, cioè un rumore dallo spettrogramma piatto, come il segnale del dolore universale che richiede la nostra compartecipazione emozionale, attraverso l'elettroshock. Anche nel fim di Gianni Amelio “Il signore delle formiche”, su Aldo Braibanti e la sua odissea tragica, si vedrà una terribile scena di elettroshock. Strano. In Francia sono vietate le immagini di elettroshock. In Italia, nonostante Basaglia, non so.
Un uomo di Kei Ishikawa Giappone. Orizzonti. Uomo misterioso, sensibile, disegnatore, tagliaboschi, si innamora di una vedova di provincia con figlio piccolo che gestisce una cartoleria. Muore schiacciato da un albero. Si scopre che il suo nome è falso. Un investigatore, incaricato di scoprire chi era davvero quell'uomo, porterà fino in fondo la sua missione.... Molti giapponesi, si scoprirà, vogliono o debbono assumere altre identità. Il padre del 'tagliaboschi', per esempio, era stato condannato a morte per omicidio. L'investigatore privato finirà anche lui per innamorarsi della vedova, lascerà moglie (fedifraga) e figlio, e fuggirà in provincia. Vagamente ispirato a “Matilda” di Antonietta De Lillo. Dal best seller di Keiichiro Hirano è il quarto film di Ishikawa.
Marcia su Roma di Mark Cousins Giornate degli Autori Il film giusto al momento giusto. Nel centenario del colpo di stato che ha regalato all'Italia la sua prima dittatura moderna ci voleva un occhio acuto anglosassone (e spregiudicato) come quello dell'australiano Cousins per analizzare con maggiore distacco e profondità non solo la storia d'Italia ma anche quella del nostro cinema (un libro sullo stesso argomento, scritto dall'italo-californiano Steven Ricci, non è mai stato tradotto né pubblicato in Italia). Chiunque venga a Roma da un paese qualunque del Commonwealth e gironzoli tra lo stadio Olimpico e lo stadio dei Marmi, ma non è italiano, troverà troppo simile alla iconologia razzista di Pretoria le scritte inneggianti alla guerra, l'obelisco Dux e l'estetica fascista della statuaria “micho-macha”. In un cortometraggio anni 80 del sudafricano Stefano Moni quel parallelismo era proprio ben tratteggiato. E' infatti un documentario di propaganda dimenticato, il film A noi, realizzato come instant movie dal fascismo, a svelare sotto gli occhi di Cousins alcune verità scottanti e dimenticate. Che quella marcia resistibile e umida, poco virilmente effettuata sotto una pioggia battente, e per questo poco fotografata, anticipata da un raduno a Napoli tutt'altro che riuscito, fu teleguidata non dal vigoroso Mussolini (diventato diversamente rivoluzionario nel 1914, ci racconta Angelica Balabanoff, solo dopo aver accettato una valigetta piena zeppa di soldi per far diventare interventista il pacifista Partito Socialista Italiano) ma dalla Confindustria, che decise la caduta del governo e i tempi e i rituali successivi: lo spudorato assassinio rivendicato di Matteotti, l'aggressione all'Etiopia, i lager in Libia, da anticipare campi di sterminio nazisti, i gas tossici usati contro la resistenza in Abissinia, invisibili solo a Montanelli, l'asse con Hitler e i disastri militari. Magnifico lavoro da diffondere sulla Rai in prima serata unificata, e nelle scuole.
Un couple di Frederick Wiseman Usa concorso Coraggioso come uno spettacolo di Andy Kaufman, quando il celebre comico – ci raccontava Man on the Moon di Forman - si metteva a leggere a teatro un intero romanzo, dall'inizio alla fine, questo secondo film di finzione del più celebre documentarista vivente, Wiseman, specializzato in film-maratona, è invece un omaggio non agiografico al metodo Straub-Huillet (in particolare al film-diario Cronaca di Anna Magdalena Bach). A colori, in stile più leggiadro, e molto breve (ma non per questo meno drammatico ed emozionante), è il ritratto di Sofia Tolstoj, attraverso il suo diario e le lettere al marito Leone, il celebre scrittore russo, ma non per questo impeccabile uomo. Allo scrittoio, in giardino, sulle rocce bretoni dell'Atlantico, tra i fiori, nei boschi, Nathalie Boutefeu (che ha selezionato gli scritti con Wiseman) legge la storia della sua complicità artistica, e di una passione lunga, avvincente, complicata e destinata alla rottura. E una intera fase del rapporto coniugale uomo-donna ottocentesco-novecentesco a entrare sotto il microscopio sensibile e implacabile di Sofia. Su questi testi, non a caso, stava lavorando negli ultimi anni di vita anche Rossana Rossanda.
Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmer Orizzonti C'era il culto della bellezza classica in casa Gemma e la pecora nera della famiglia ne è rimasta schiacciata. Un divo adorato, Giuliano, idolo del cinema popolare, quando tutti andavano al cinema, e una figlia non proprio perfetta, anzi attrice di non grande successo, un corpo da ritoccare ogni tanto. Però possiede ancora qualcosa, i ricordi, un cuore eticamente corretto, un autista fedele, uno stile cow-boy-spaghetti, tra Dolly Parton e Renato Zero, e care amiche, come un'altra figlia di padre illustre, la più fortunata Asia Argento. Il duo formato dall'alto-atesina Covi e dall'austriaco Frimmer è leader tra i “cacciatori di reale” del cinema d'oggi. Lo conferma una presenza costante nei festival prestigiosi e di ricerca. La pivellina è stato ovunque e Underworld ha avuto una menzione speciale alla Berlinale 2020. Entrano in un ambiente, scalpellano via ogni traccia di realtà, cioé di reale posticcio, di finzione da canone, e resta l'anima di una personaggio, di una famiglia, di una società, come la Roma invisibile di chi non possiede neppure le proprie catene. La Roma del cimitero acattolico. La Roma tra Pasolini e Russ Meyer che offre la sua bellezza solo a occhi esclusivi. Vera non ha pià la villa con piscina, ha sperperato i suoi soldi, perso le case di Parigi e New York, però ha mantenuto rapporti autentici con la città degli emarginati e degli artisti veri. Per deficit di intuito sbaglia quasi sempre l'oggetto d'affezione. E' un problema serio per chise ne approfitta. Non per lei.
Bardo di Alejandro Inarritu Messico concorso L'autore in crisi che svela le sue angosce più segrete, i suoi sogni mai realizzati, le colpe, i tradimenti. E rivela le sue scoperte, estetiche, politiche. L'auto-psicoanalisi è il genere chiave del cinema moderno. Da Fellini a Chahine, da Bergman a Godard, da Antonioni a Chantal Akerman. La postmodernità però ha fatto riemergere, accanto al punto di vista soggettiva, una differente “intensità politica”, non realistica ma visionaria, dell'immagine. Amores perros il film selvaggio che lo ha rivelato a Cannes 2000 svelava una Mexico City di entusiasmante e insostenibile vitalità, anche se marginale e repressa. Dopo due oscar nordamericani il regista torna per la prima volta in Messico e racconta in 65mm e per Netflix la sua crisi esistenziale di cineasta di successo che forse ha tradito il suo popolo, i suoi amici, la sua famiglia, anche se tutti, a nord del confine e a sud di Tjuana lo vogliono premiare. Intanto nei deserti di confine migliaia di messicani poveri muoiono tentando di raggiungere stipendi umani proprio nel paese che da 200 anni sta distruggendo l'economia della loro patria, dopo averne fraudolentemente rubato molte terre e che li tratta da servi e giardinieri. Una tragedia che non è utilizzata da Inarritu per lavarsi la coscienza, ma entra nelle sue immagini... ombre giacomettiane che corrono e svaniscono, ingombrano sogni e incubi. Lo travolgono.

lunedì 25 luglio 2022

Bob Rafelson, il deformatore di Hollywood


di Roberto Silvestri 

E’ morto ad Aspen a 89 anni il regista statunitense Bob Rafelson, produttore, sceneggiatore e regista di una ventina di film di successo come La vedova nera, Il postino suona sempre due volte, Sangue e vino, un episodio di Tales of Erotica. E’ stato lo scopritore di Arnold Schwarzenegger (Stay Hungry è del 1976) e uno dei più brillanti e estremi giovani turchi della New Hollywood, quando sesso droga e rock’n’roll entrarono di prepotenza nella Mecca del cinema, allora in grande crisi di idee e di profitti. E la deformarono irreversibilmente. Molto coinvolto nel mondo musicale (dall’invenzione dei Monkees ai lavori con Lionel Ritchie), anche se adorava John Ford e Ingmar Bergman e non smetteva di guardare Viaggio a Tokyo di Yasujirô Ozu, che lo aveva ipnotizzato "per l'immobilità dei suoi fotogrammi e per la sicurezza nella composizione", considerava un film “non come una pergamena sacra ma come una ‘tela flessibile’ ”. 

Nel dicembre del 2009, grazie a Donald Ranvaud, ovvero l’alta cinefilia di un italoinglese fattasi pratica produttiva di qualità internazionale (La vita appesa a un filo, Addio mia concubina, Stazione centrale, La città di dio…) - che improvvisamente ci ha lasciato nel 2016 ma di cui sono in postproduzione ancora due film - ho incontrato il suo simpaticissimo amico, Bob Rafelson all’hotel Locarno di Roma.

Gigantesco come un cow boy da rodeo (lo era stato in gioventù) anche se era newyorker, per me rappresentava un coraggioso rivoluzionario dell’immaginario, un leader, purtroppo detronizzato, della New Hollywood, perché nei film che avevo scoperto alla Mostra di Venezia di Gambetti, cioè 5 pezzi facili e Il re dei giardini di Marvin, e poi anche Stay Hungry, sulla disfunzionalità crescente della famiglia dinastica borghese americana - metafora di un’intero sistema in avaria nonostante la gigantografia muscolare - aveva aperto ed era entrate in stanze dell’immaginario fino a quel momento proibite o dimenticate. 
Scandalose, eccentriche, aritmiche, eppure swing (era stato anche batterista jazz) le sue meditazioni soggettive, anticonformiste rispetto alla costruzione standard di una azione- avvincente-da-tragedia-o-da commedia, introducevano quantità di imprevisti tematici, linguistici, comportamentali o veri “salti della scocca” narrativi che per la nostra generazione ribelle e combattente erano molto avvincenti e non avevano bisogno di alcuna traduzione intellettuali o di una sensibilità particolarmente dada. Quella era la vita vera. E bisognava cambiarla. 



Rafelson e il suo amico Bert Scheider (che era molto amico di Huey Newton, il leader perseguitato del Black Panther Party, che proprio lui aveva fatto fuggire a Cuba) avevano portato avanti nel 1968 un atto terroristico incruento e vincente, trasformando un filmino on the road da quattro soldi ispirato al Sorpasso di Dino Risi, che avevano prodotto indipendentemente, in un mega successo internazionale, Easy Rider. La qual cosa gli aveva permesso intanto l’eterna gratitudine complicità di Jack Nicholson (che sarà il protagonista dei primi due film da lui diretti, dopo il mockumovie Head-Sogni proibiti coi Monkees, la band rock inventata per far la parodia del rock). E di far tremare di paura gli Studios perché abbinato a un vero piano di ‘entrismo trotzkysta’ dentro una della major, la Columbia, perché Bert era figlio di Abe Schneider, presidente della major, dopo la morte del super tycoon Harry Cohn). 
In trio con Steve Blauner, la loro compagnia, Raybert-BBS, ha prodotto 7 magnifici film distribuiti dal 1969 al 1974 in tutto il mondo: Easy Rider di Dennis Hopper e Jack Nicholson, 5 pezzi facili e Il re dei giardini di Marvin, The last pictures show di Peter Bogdanovich, Drive He said (in Italia Yellow 33) inno al basket di Jack Nicholson , A safe place di Harry Jaglom, un amico intimo di Orson Welles, e soprattutto Hearts and minds, il documentario premio Oscar di Peter Davis sulle atrocità americane commesse in Vietnam e sul razzismo anti-giallo sistemico negli Usa. 
Il fallimento del progetto ‘entrista’ si deve all’ascesa al vertice della Columbia di David Bagelman che ha esautorato Schneider? 
Sarebbe troppo semplice. No. Si trattò piuttosto di questo: tu stai vincendo e lasci. Al massimo del successo, quando sei ancora campione del mondo, abbandoni la boxe. Se ti devo dare una risposta rapida ti do questa. BBS ha fatto sette film, alcuni di questi diretti da me. Ma non volevo più produrre film diretti da altri. Non ero competitivo né ambizioso, non mi interessava mettere il mio nome sui titoli di testa. Poi Bert Schneider (che sarebbe morto 46enne sul set di I tre giorni del Condor, ndr) era enormemente coinvolto con il Black Panther Party, era impegnato nel Movement, nella lotta contro la guerra in Vietnam e per i diritti civili. E così abbiamo deciso di fermarci. C’era un edificio che avevamo comprato a Los Angeles, dove ognuno si era ritagliato il suo ufficio. Ma qualcuno doveva pure andare a ritirare gli affitti e io non me la sentivo proprio di andare a riscuotere i soldi dagli amici. Siamo rimasti infatti amici con tutti…e ho deciso di voler fare solo i miei film, senza uno scopo o un programma di potere più ambizioso. Se avessi deciso di andare due anni in Amazzonia lo avrei fatto, senza dare conto a nessuno. C’è un altro motivo per la fine di quel progetto. L’industria era cambiata, da un momento all’altro tutti volevano fare film rivoluzionari e tutte le majors volevano fare film con registi giovani e inesperti. Ma quello che tutti volevano in realtà era il successo. Agli studi interessava aver scoperto un altro modo per aver successo, non interessavano gli argomenti trattati, anche se fossero stati altamente rivoluzionari, volevano solo alzare i profitti. Siamo stati fortunati. Ma pochi, dopo di noi, hanno continuato su quella strada. Poi tutto è imploso, perché tutti volevano essere come Spielberg e come Lucas dopo i loro successi, Incontri ravvicinati e Guerre stellari, il basso costo era di nuovo un ferro vecchio. Fantastici loro due, dei geni straordinari, però non volevano essere realmente rivoluzionari o cambiare le cose nel vero senso della parola, hanno solo utilizzato questa immagine…E poi è arrivato Cimino. Fine. Ma è interessante sapere che oggi, dopo oltre 30 anni, tutti i film della Bbs usciranno in un bel cofanetto che i tecnici della Columbia stanno restaurando. 

Jack Nicholson e Jessica Lange  in "Il postino suona sempre due volte" 



E la saga dei Monkees? 
Quello era stato il vero progetto ambizioso, perfino Dennis Hopper e Martin Scorsese volevano girarne un episodio per la tv. E’ stata veramente un’idea aggregante. Dennis Hopper ha poi avuto i soldi dall’Universal per fare The Last Movie. I produttori non volevano un sequel di Easy Rider, ma un altro successo “alla Easy Rider”. Solo che i capi dello studio non riuscivano a parlare sul set con il regista e mi chiamarono per chiedermi come si facesse a contattarlo. Lo Studio vuole appropriarsi, copiare, strapazzare qualsiasi idea, spremerla come un limone e gettarla via. C’è un progetto interessante di tuo figlio Peter, ‘Pretty Little Hate Machine’, ha a che fare con un film musicale, alla Nine Inch Nail? No. Mio figlio che in genere si occupa di video musicali, ha scritto questa storia noir, si tratta di un criminale della mia età che incontra una ragazzina e diventano criminali insieme. Non sarò io a produrlo è un progetto tutto suo. Ovviamento lo aiuterò perché la sceneggiatura mi piace. Ma non voglio essere troppo invadente. Quindi stiamo cercando il regista adatto. 
A proposito di Black Panther. E’ plausibile che l’Fbi abbia ucciso Jimi Hendrix? 
Non credo, ma la storia spesso conferma l’impossibile. 
Perché Dennis Hopper è così conservatore politicamente dopo aver girato film così sovversivi?
Quando ha smesso di prendere la droga, perché ha voluto cambiare tutto il suo set mentale. Sembrava che non sarebbe mai uscito dall’ospedale vivo. E’ stato Burt Schneider a salvarlo. Ed è successo quello che succede a un ateo che sta per morire e che chiama il prete. 
Arnold Schwarzenegger è la sua scoperta… 
Anche quella è una bella storia. Non avevo mai passato tanto tempo nel sud degli States, quando mi arriva un libro, per caso, di Charles Gaines, un romanzo, Stay Hungry su un body builder del sud. Una cosa molto strana, non avevo la minima idea di cose fosse il body building. E allora vado a fare delle ricerche (che è sempre la cosa più interessante) e vado a fare tutto il giro del Mister Universe, da una città all’altra, in sei città e dico a Gaines, ‘tra sei mesi ti dico’ e prendo un’opzione di sei mesi senza pagare una lira. Io voglio sei mesi per decidere, devo imparare di più. Arnold Schwarzenegger fa parte del tour. Così l’ho conosciuto molto bene, però non parla affatto l’inglese: cosa ci fa questo austriaco che vive a Birmingham, Alabana? E’ così incongruo. Non c’è motivo: io sto cercando un americano e non mi importava niente di questo qui, oppure attori che hanno grandi corpi. C’è questa strana parata continua di gente che viene nel mio ufficio, uomini che si tolgono tutti i vestiti e c’è anche Sylvester Stallone che non assomiglia a Schwarzenegger, e Arnold che mi dice: ‘Sai una cosa Bob (lo imita) puoi andare in qualsiasi parte del mondo ma non troverai nessuno meglio di me per questa parte e mi sceglierai’. E aveva ragione. Nello stesso tempo mi ha detto anche che sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti. Era il 1975. Impossibile gli ho detto, devi essere nato negli Stati Uniti per diventarlo. Ma questa è solo un emendamento della costituzione! Arnold è molto interessante, ha questa forza interiore incredibile, quando si è fidanzato, c’erano tutti i Kennedy possibili e immaginabili nella stanza e lui: “Bene voi Kennedy avete bisogno di sangue nuovo!” Nel film è di grande sensibilità. E quando abbiamo fatto il giro stampa del film, a ogni proiezione era presente Arnold, non si sedeva per vedere il film ma aspettava fuori tutti gli invitati e si presentava a uno a uno “come sta?” e dava il suo biglietto da visita, voleva far conoscere e si è fatto conoscere. “Sai la punizione che ti spetta per aver fatto il primo film di Arnold? - mi diceva Jack Nicholson - Farne un secondo”. 
“Cinque pezzi facili”, il titolo viene da Stravinski?
No no no no. La prima scena, era pensata così: la cinepresa entra in un interno di una famiglia molto tradizionale e si avvicina a un piano e arriva in primo piano su uno spartito che si chiama così perché è un esercizio per i bambini. Volevo che fosse un film su un bambino che impara a suonare ma che questo fatto si scoprisse a poco a poco durante il film, vi ricordate la scena del traffico con Nicholson che salta sul camion e suona il piano che stanno trasportando, e perciò ho tolto quella prima scena per cui i critici si sono immaginati le cose più strane, e perfino incestuose…. 


Nicholson e Rafelson sul set di "5 pezzi facili"


Nicholson-Polansky. Jack non ha molto aiutato Roman all'epoca dello scandalo sessuale
Non mi meraviglia che Nicholson non abbia fatto dichiarazioni pubbliche in sua difesa. Jack non è mai stato uno che veramente lotterebbe per una causa qualsiasi, però so che i due si vedono spesso, almeno una volta all’anno. Sono molto amici. Ma non conosco molto bene i dettagli di quella storia. E non so bene perché io non piaccio a Polanski. Non abbiamo un grande rapporto. 
Obama e il cinema, Obama e la cultura. Siamo ottimisti? Cambiano le cose?
No. Sa come dire le cose, vengono dal cuore le sue parole. L’uomo ha ereditato così tanti problemi che sarà difficile risolverli. Ci vorranno anni, decenni. I problemi internazionali sono talmente gravi che, come tutti gli altri presidenti, anche lui lascerà per ultima la cultura. Certamente farà qualche cosa e qualche cosa di minore la cambierà. Non può andare al congresso in questo momento e dire: salviamo la cultura. Lo ammazzerebbero. Non riesce neppure, quasi, a far passare la sua riforma sanitaria…e sono pessimista sulla possibilità che passi quella legge. Roosevelt ha creato lavoro anche per gli artisti, pittori, scrittori, cineasti…Obama è uno studente al suo confronto è fantasticamente intelligente ma i tempi sono differenti. Roosevelt non è che ha cambiato radicalmente l’economia, ha cercato di annullare il potere della Corte Suprema che era contro di lui e nominare nuovi giudici, ma è stata la seconda guerra mondiale che ha tirato davvero l’America fuori dalla crisi.

giovedì 14 aprile 2022

L'urlo di Battaglia. E' morta la fotografa senza paura


Roberto Silvestri 


 «I palermitani non sono tutti mafiosi. Venite ad aiutarci, perché da soli non ce la facciamo».  Oggi, apprendendo l’orrenda notizia mi viene in mente questo primo film che le è stato dedicato. Diretto e fotografato dalla documentarista italiana che vive in Gran Bretagna Daniela Zanotto Battaglia (2004) è un’intervista- omaggio alla grande fotografa sociale palermitana, che ha insegnato a combattere (e a guardare in faccia senza paura) la Mafia, dall'epoca del quotidiano L'ora di Palermo, seguendo l'infinita sequenza di omicidi, fino ad oggi. 


Nata il 5 marzo del 1935 a Palermo (dove è morta dapo una lunga malattia il 13 aprile 2022, giornalista, ex assessore (verde) all'ambiente della giunta Orlando, ex deputata, editore, militante per la giustizia e per la libertà, premio Eugene Smith (New York, 1986) e Mother Jones Achievement for Life, 1999, ha esposto al Centre Pompidou e nelle più importanti gallerie del mondo. 

Letizia Battaglia, a 16 anni, nel ‘72, lascia il marito e parte per Milano con le tre figlie, lavorando come giornalista di cronaca e poi, per piazzare meglio gli articoli, si improvvisa fotografa. Scopre un grande talento.

La guerra «contro la barbarie più arrogante» inizia con il suo ritorno in Sicilia, e dopo l'incontro con Franco Zecchin, che sarà il suo compagno nella vita e nel lavoro. Nel frattempo diventa l'occhio di profondità della realtà isolana, una lottatrice indomabile per la libertà a 360 gradi, che Daniela Zanotto sa ritrarre con passione e finezza di tocco. 

E a cui Letizia Battaglia, il cui «archivio di sangue» fu rastrellato senza garbo dalla polizia, durante il processo Andreotti, spiega la situazione odierna: «Preferisco essere uccisa piuttosto che dichiarare di avere bisogno di una scorta, di arrendermi davanti a quelli che vogliono che abbia paura...

Dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino, la mafia ha cambiato strategia, si sente in pericolo e si butta in politica. I mafiosi diventano i nostri amministratori». Girando nel centro storico della città barocca spiega: «Qui volevano mandare le ruspe, buttare giù tutto e fare dei grattacieli, mandando i vecchi abitanti a vivere nei casermoni delle periferie. In alcune zone sono riusciti a farlo, hanno demolito le chiese e le case che erano l'anima della città. Molti edifici sono stati comprati per un pugno di soldi dai politici stessi. Durante l'amministrazione Orlando siamo riusciti, con una stretta maggioranza, a cambiare il piano edilizio. Ora molti proprietari aspettano che la legge cambi ancora: preferiscono tenere chiusi i vecchi edifici, che diventano sempre più fatiscenti, piuttosto che restaurarli. Aspettano....». Un secondo bio-pic, Shooting the Mafia gli è stato dedicato nel 2019 da Kim Longinotto e ha avuto una vasta eco internazionale. 

Letizia Battaglia ha partecipato come ricercatrice fotografica d’eccellenza, nel 2005, al film di Marco Turco In un altro paese e nel 2014 al film-farsa-tragedia di Franco Maresco Belluscone Una storia siciliana. Con Maresco nel 2015 “complotterà” anche in Gli uomini di questa città io non li conosco (in un documentario nel quale sono stati coinvolti Scaldati, Andò, Emma Dante, Mimmo Cuticchio, Giuseppe Tornatore, Mario Martone, Roberta Torre e Goffredo Fofi, su cui Maresco sta girando attualmente un film-ritratto). E nel 2019 il bellissimo La mafia non è più quella di una volta, a 25 anni dalla strage di Capaci (un’opera particolarmente colpita dalla censura invisibile che caratterizza le democrazie liberali).


Ha recitato nella parte di una fotografa nel film, bello e sottovalutato, di Wim Wenders Palermo Shooting (2008) e ha collaborato generosamente a Lo sguardo dei turchi di Angelo Loy (2009), con Giulio Cederna co-sceneggiatore, a tre documentari sulla fotografia sociale, Fotografi (2012) e Dans un ocean d’images di Helen Doyle (2013),  Dateline (2016) ed è stata coinvolta nelle serie tv Corleonele Parrain des Parrains e L’assedio (2019). 





 

sabato 9 aprile 2022

I miliardi della manicure. Alla scoperta di Mitchell Leisen




Roberto Silvestri 


Un manicure “canaglia” potrebbe sposare il miliardario perfetto e invece si innamora di un miliardario imperfetto (ha perso tutti i suoi soldi nel grande crack, anche perché … lo ha provocato lui) che sta per sposare una ereditiera dell’ananas. Come finirà? 

Una battuta molto divertente di questa commedia brillante dal sottofondo erotico potente e imprevisto ci fa capire che siamo (proprio come in questo momento) in un momento cruciale della storia umana: “La Spagna è ancora repubblicana”…Se le democrazie europee si fossero comportate allora da democrazie, il nazismo non sarebbe spuntato dalle fogne …

Che ne dite di un giretto nel passato per aprirsi a future nouvelle jouissance?  Consiglio dunque un film di fascia alta, I milioni della manicure (domani mattina alle 11 al Quattro Fontane di Roma, ma c'è nel cofanetto dvd "Carole Lombard" a cura di Vieri Razzini), set un Grand Hotel che potrebbe essere un Trump Tower ante litteram, grondante multimiliardari. E’ un duetto del 1935 molto incandescente e pieno zeppo di bevute post-proibizionismo, tra Carole Lombard –  tra le commedianti della Hollywood classico l’unica capace di improvvisazioni free in grado di far arrossire il caos, solo Ted Tetzlaff sapeva seguirne i tempi con le luci, cesellando bianchi,  neri e chiaroscuri a ritmo - e Fred MacMurray, il cui volto era stato usato da modello per i fumetti di Captain Marvel e che esordisce “giocando a campana” con le mattonelle optical art del grattacielo.  



Il director è un mago del box-office, l’ex costumista e scenografo Paramount di Cecil B. D Mille, Mitchell Leisen, “regista delle donne” come Cukor, ovvero capace di rovesciare il punto di vista, la geometria del desiderio, dall’occhio maschile a quello femminile. Una sequenza del film, l’ultima notte passata insieme, ma distanti, senza riuscire a dormire, è guidata dal desiderio – frenato a stento dalle sigarette - di lei per il corpo maschile di lui. Una rivoluzione simbolica, come ci ha raccontato Cesare Petrolio a Hollywood Party, che ha scelto il film come curatore artistico della Cineteca Nazionale, responsabile delle proiezioni di sabato, domenica e lunedì al Quattro Fontano, ormai diventato il nostro Classic Theater. 

Ed è compito della nostra generazione far avanzare un po’ in classifica generale di molte posizioni questo cineasta che maneggia l’arabescato alla von Sternberg sia come delirio estetico che come deviazione onirica transgender (nel senso che ci sposta dall’atmosfera light della commedia a quella hard del melodramma, e d’improvviso). Come elemento strutturale, costruttivo della visione, alla Adolf Loos e alla Anita Loos.  

Ecco perché va punito il “generale capo dei vigili urbani della critica neworker”, Andrew Sarris, che colloca questo genio  solo al sesto livello nel suo The America Cinema. Forse perché Leisen era gay? Non è nel pantheon, nella Champions League, con Ford, Hawks, Hitchcock e Welles. Non è in serie b con Minnelli, La Cava e Cukor. Né in C con Stahl, Ulmer, Jacques Tourneur. O nel quarto livello con Antonioni, Eisenstein e Rossellini, e neppure nel quinto con Wilder, Mamoulian, Wellman e Wyler. Però con lui vediamo James Whale, Busby Berkeley, Michael Curtiz, Mervyn Le Roy, Delmer Daves, Henry Hathaway, Burt Kennedy… accomunati nella categoria “i simpatici leggeri” . Sempre meglio di Kubrick, che è tra i ‘seriosi’, o di Corman, Cassavetes e Coppola (“gli strampalati”), di Tod Browning, Henry King e Paul Fejos (meritevoli di ulteriori ricerche) o dei clown (Jerry Lewis, i Marx, Fields…). Oscurato alla Paramount da Lubitsch e Sternberg prima, poi dall’insorgenza degli ex sceneggiatori promossi (Preston Sturges e Billy Wilder) che ne segnarono il declino, comunque Sarris trova i suoi film anni trenta stilisticamente validi ma cita Easy Living, Midnight, Lady in the Dark, Remember the night, Hold Back the Down, ma non questo Hands Across the Table (I milioni della manicure) e neppure l’altro duetto Lombard-MacMurray.


Chi conosce il film di cui New York New York è il remake, sa di cosa si tratta: stesso romantismo acido, stessa geometria del desiderio erotico (a guida femminista) in  Swing High, Swing Low, 1937, commedia brillante che si trasforma in exotic musical panamense e poi diventa, a Manhattan, nei locali afro-latini della perdizione, un fiammeggiante melodramma dark.  MacMurray che era stato un cantante nell’orchestra di Geroge Olsen e Gus Arnheim e che suonava il sassofono in numerose jazz band - come il Californian Collegians diretta da Bob Hope nel lavoro teatrale Roberta del 1934 - prima di diventare, un po’ per caso, attore e poi star grazie a Leisen viene completamente disincarnato dall’amore. Abbandonato da lei per un equivoco plausibile, smette di suonare (la tromba) e l’alcool lo porta alla perdizione… Carole Lombard ha tutte quelle qualità che la tradizione ha considerato tipicamente femminili e tipicamente maschili. Niente ci impedisce di considerare questa storia d’amore da lei guidata sia eterosessuale che omosessuale. Una rivoluzione. Peccato che sia morta giovane in un incidente aereo. Credo sia stata l'unica personalità al mondo che riuscì, grazie al suo mitico press agent Russell Birdwell, a diventare sindaco onorario di Culver City e a far dichiarare un certo giorno dell'anno il "Carole Lombard Day", convincendo il produttore David O. Selznick a dichiarare la festa una vera giornata non lavorativa.  



    

venerdì 18 marzo 2022

Licorice Pizza, C'era una volta nella San Fernando Valley. Paul Thomas Anderson e il suo American Graffiti

 






Roberto Silvestri 

 

 

“Se il costo della benzina aumenterà di nuovo troppo, l’America si potrebbe davvero portare a termine la Rivoluzione”. Mi diceva Robert Aldrich nel 1979. Con Nixon anni prima il sistema nervoso dell’Impero aveva già iniziato a dare i numeri quando, per reagire alle continue annessioni di territorio palestinese, i paesi arabi razionarono la vendita di greggio…

Questo lo sfondo storico-politico di Licorice Pizza, girato in pellicola 70mm DTS. “La benzina è finita, usate la bicicletta!” scrivevano ai distributori. Ma sono le interiora non le superfici di un paese in movimento turbolento a essere fotografate qui. I flussi di coscienza, il danzare tra ricordi casuali. Una foschia di racconti selvaggiamente abbelliti e di ricordi semidimenticati. Le feste in cui si rischiava di morire e le peripezia rischiose che facevano morire dal ridere. Le splendide carrellate iniziali sui primi incontri e i primi dialoghi audaci dei protagonisti (Anderson condivide il merito della fotografia con Michael Bauman) sono  seducenti quanti deprimente quell’incalzare continuo di uomini che si comportano irrimediabilmente male. 

 


Siamo in un epoca prima dei mall center, delle carte di credito, dei telefoni cellulari. Quando i dischi in vinile si compravano al “Licorice Pizza” (o in templi simili ormai estinti) se si viveva a Encino, nella San Ferdinando Valley, urbanizzata estensione della contea di Los Angeles. 

Licorice Pizza è un period movie arredato alla 1973, anno di grazia, quello della prima crisi energetica. Che musica però in quei giorni: Doors, Sonny & Cher, The Four Tops, Still, Donovan, Bowie… per adornare una commedia teenager esilarante e fuori schema come poche. Siamo quasi al livello di Rock’n’roll high school o, per quanto riguarda i materassi ad acqua, che hanno un loro peso specifico speciale nel film, agli orrori da ridere di Nightare on Elm street 1 e 4 o sublimi di Edward mani di forbici. Giù fioccano sul film i premi della critica americana, per la sceneggiature, soprattutto, per Bradley Cooper (nella parte di Jon Peters, il parrucchiere delle dive che ispirò Shampoo con Warren Beatty) ricco demente libidinoso, da eccesso di coca e lsd, che a secco di benzina mancherà l’appuntamento con Barbra Streisand. E per Alana Haim….la protagonista, l’incarnazione perfetta della ragazza della Valle, “Alana Kane”. Già.

Le ragazze della San Fernando Valley, nei primi anni Settanta, erano proprio speciali, avevano inventato un loro modo di parlare eccentrico, senza che gli adulti capissero un acca e interferissero. Come in ogni altra parte del mondo. 

Ma quello che succede dietro le colline di Hollywood, nella gigantesca periferia piatta e desertica della metropoli dei sogni, dove in estate si muore di caldo e le piscine sono d’obbligo, e non c’è molto da fare (anche perché dal 1939 al 1973 in California i flipper erano fuori legge perché producevano ludopatici, un piacere ossessivo e irrefrenabile come con le slot machines) se non correre alla disperata imitando Carax, parlare come Alana Haim o inventare di tutto, ha un’eco differente. Contagia il mondo. Anche se i cinefili non californiani ma francofoni non colgono.  Tutti parlarono allora della figlia di Frank Zappa e del suo idioma da lettrista pazza. Nel 1983 Martha Coolidge girò Valley Girl (mal tradotto in Italia come La ragazza di San Diego, comunque poco visto) per raccontare l’impossibile storia impossibile d’ amore tra la periferica Julie e il fico di città, Randy il punk. 

E Paul Thomas Anderson che non fa più cinema da una vita ma solo musica post-rock in immagini, dalla Valle viene e vi ha ambientato lì anche Boogie Nights, Magnolia e Punch Drunk Love

Dopo l’autobiografica rapsodia beat di Vizio di forma si dedica a un’altra forse autobiografica sinfonia d’amore impossibile. Per la vita, che ti spinge a inventarsi qualcosa e ad esserne padrone. Far l’attore o il rocker o il cineasta ma non sottostare alle regolette di agenti e produttori e genitori e mercato e star, fosse pure Lucy Ball (Christine Ebersole). Far la quasi fidanzata, ma non sottostare alle regole e agli stereotipi di un copione standard, “come si deve” per essere prodotto. Dunque la love story è tra Alana e Gary Valentine. Come un doppio slalom parallelo e imprevedibile nel quale gareggiano una ragazza di 25 anni invaghita di un minorenne  - casa poco raccomandabile e dunque tenuta a bada il più possibile, finché è possibile – e un quindicenne un po’ in carne e brufoloso che ha una cotta per lei ed è molto intraprendente perché attor giovane (Cooper Hoffman, il figlio di Philip Seymour, e non meno bravo di Alana). Alana è innamorata perfino degli amici di Gary, anche se sono tutti scatenati ma senza patente. Tanto per ricordare un po’ Wendy, Peter Pan e il loro codazzo di moccioso.

Tra questo film, bertolucciano come sempre - che è un po’ La luna delocalizzato nella perversione, basta mamme invadenti, anche Lacan sarebbe d’accordo, e meno eroina e come droga pesante il liberismo edonista - e il Filo nascosto, che era una irresistibile commedia british ben vestita da melò nero, troviamo una dozzina di video clip girati da P.T. Anderson con e sulla band rock femminista Haim, oltre che con i Radiohead. 

E proprio Alana Haim è un membro del trio new rock con le sorelle Danielle e Este, canta, suona la chitarra (qui ne spacca una) ed è la protagonista maggiorenne (con dietro tutta la sua famiglia) di questa rapsodia teenager, di narrazione fluttuante che non si sta mai ferma, come se dovessimo vederla dallo skateboard. 


Dedicato al cineasta Robert Downey sr., il papà di Robert jr. scomparso il 7 luglio scorso, attore in Boogie Nights e Magnolia,  e membro nobile dei cineasti indipendenti non indecifrabili di New York, che ci ha regalato 18 film mai visti in Italia, nei titoli di coda troviamo anche un ringraziamento speciale per chi ha ispirato il personaggio e le avventure adolescenziali di Gary. Si tratta dell'amico di infanzia Gary Goetzman, l’ex attore bambino che partecipò davvero in pigiama al tv show Under One Roof (cioè a Yours, Mine and Ours del 1968), ora stimato co- produttore di Tom Hanks ed ex mirabile orecchio musicale di Jonathan Demme: anche qui Goetzman monta una sequenza di hit mozzafiato, a cominciare da due pezzi di Chico Hamilton e uno di Roland Kirk, per dare un tocco jazz, latino e squilibrante, tra Paul McCartney e Taj Mahal. 

Abbondano nel cast le celebrità (John C. Reilly, Tom Waits), i figli di celebrità (Dexter Demme, figlio di Ted; Sasha Spielberg…), i papà di celebrità (George Di Caprio) e i colleghi registi come Sean Penn, altro cameo super il suo, nella parte di un divo del cinema old fashion tra William Holden e Steve McQueen o Benny Safdie nel ruolo del candidato a sindaco democratico della sinistra ecologica ma che non può ancora dirsi gay. 



Nella seconda parte della commedia d’amore ma mai sentimentale, infatti,  si apre uno squarcio micropolitico per adulti che rischia di portare fuori pista il teen-movie e Alana che dalla piccola imprenditoria svitata e dal romanticismo tenero, dal calore e dall’umanità della prima parte si avvia verso un’impassibilità e un distacco pungente imprevisto, mettendo in difficoltà le altre attrici protagoniste candidate all’Academy Awards, a corto di esercizi obbligatori altrettanto difficili (si è parlato non a caso di rediviva Barbra Streisand, anche per la comune origine canora). 

Ma non crolla la sicurezza di Gary, l’ex attore fatto fuori dal giro degli show tv per le sue scurrili impertinenze televisive che dopo il business dei materassi d’acqua e dei flipper Gottlieb e Wiliams (da Forrest Gump di periferia) marcia dritto verso la meta: “Io Alana me la sposerò. Sono più cool di lei”.  C’è dell’Altman o del Tarantino, oltre alle musiche originali di Jonny Greenwood e al cameo perfetto di Harriet Sansom Harris (l’agente di attori) a tenere insieme un film di oltre due ore su goffi adolescenti alle prese con donne fuori dalla loro portata e soprattutto dai loro seni? 

C'era una volta a Hollywood ovvio, ma con dentro Anche gli uccelli uccidono Harold e Maude di Ashby e Convoy di Peckinpah (la scena del camion a marcia indietro sulle colline) però, sia per Bud Cort che è un perfetto anti-Gary nel suo essere perfettamente fuori posto e fuori norma, e la nostra coppia lo è,  sia perché gli occhiali rosa che sembrerebbero sovrapporsi alla Los Angeles dei Simbionesi, delle Pantere nere e del Movement da Anderson sono piuttosto causati dalla cascata di immaginario odierno (gli sforzi imprenditoriali compulsivi di Gary puzzano di millennial) che travolge la nostalgia per la new e la old Hollywood. Prendiamo la scena iniziale, potrebbe essere James Cagney o Mickey Rooney con quel suo: "Sono uno showman. È la mia vocazione!" per abbordare Alana, impiegata annoiata della compagnia che scatta foto agli studenti per l’annuario del liceo di Tarzana. E lei gli risponde: “Cosa sei? Un piccolo Robert Goulet? Un Dean Martin o qualcosa del genere?”. Ma è conquistata. Lui lo diverte, nonostante il respiro affannoso da piccolo arrapato. Lui la strappa a quel lavoro. Se la porta dietro. Nel suo ristorante di fiducia, per iniziare a maneggiare cucina giapponese (le scene più farsesche del film) o cocktail seri (non sarà mai il suo forte). Perfino a New York, accompagnatrice maggiorenne personale per uno show tv. La perde più volte. La riacchiappa. Come socia. Come compagna d’avventure pazze nella notte. Ma mai come fidanzata. O quasi, se il leggero tocco di polpastrelli o di ginocchi sotto i tavoli significano ancora qualcosa. L’amico attor giovane Lance (Skyler Gisondo) più convenzionalmente bello, maturo e ebreo, per esempio, gliela soffia a un tratto. Per fortuna è troppo ateo per il papà osservante di Alana, che lo caccia di casa. La scena in famiglia ha una leggerezza di tocco particolarmente buffa se si pensa che il papa’ ha addestrato le figlie alla lotta marziale israeliana, ovvero a come cavare un occhio al nemico usando una penna stilografica… 


Gary la mette in contatto perfino con il suo agente, interpretato da Harriet Sansom Harris per una audizione al Penn's Holden (qui chiamato Jack). Finiscono per bere un martini (“gin o vodka? E lei, esagerata: ‘gin e vodka!’) al Tail o' the Cock a Studio City, dove l'amico di Jack Rex (Tom Waits) fa uscire tutti sul campo da golf per mettere in scena l'audace salto in moto di Jack nel fuoco in uno dei suoi film. Alla fine, Alana perde la pazienza per l'apatia di Gary per tutto ciò che accade nel mondo, e fa volontariato per la campagna elettorale di Joel Wachs (Benny Safdie) ingelosendolo a morte. Però…

Di Mark Bridges (Il filo nascosto) sono le minigonne svolazzanti e i gloriosi costumi retrò, dentro i quali P.T.Anderson rende la bruna Alana arguta e intelligente fino all’indignazione, aspra e spesso irascibile, ma anche tenera e premurosa, una presenza incandescente da nuova star dello schermo: “Sono più figa di te, e non dimenticarlo,”  urla a Gary, così immaturo, così egocentrico, così intelligente, in un momento di esasperazione. Ma saprò dire anche "Sei dolce, Gary", una frase che Haim pronuncia con un piccolo tremito adorabile. 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 15 marzo 2022

Il cinema, il teatro e la cultura portoghese dei garofani perde un suo petalo, Jorge Silva Melo

Roberto Silvestri 

 

 

Jorge Silva Melo




Gli sbandierati “valori occidentali” non è che li maneggiamo e conosciamo poi così bene. Il contributo lusofono alla presunta ‘cultura europea’ meno che mai, anche perché dovremmo assumere come nostre, tradizioni extra mediterranee, africane, asiatiche, latinoamericane, confluite in quel sincretismo imperial-culturale, atlantico e pacifico, che si chiama Portogallo…. 

Così la notizia della morte di un grande, originale ed eclettico artista portoghese, Jorge Freitas e Silva Melo, è passata proprio inosservata in Italia (e non solo). Non dirà molto neppure ai nostri cinefili, ma l’artista lisbonese è stato tra gli esponenti più colti, contagiosi e radicali del nuovo cinema portoghese, esploso tra la fine della dittatura Caetano e la rivoluzione dei garofani, e anche un protagonista della ricca scena teatrale sperimentale (che Antonio Tabucchi aveva scoperto sul nascere e promosso in Italia). 

Un cinema liberato e sfrontato, sessantottino nel senso della conquista di una soggettività desiderante esplosiva, che ha allargato i confini immaginari perfino al di là della "triade sacra" e laica: “Manoel de Oliveira, Joao Cesar Monteiro e Paulo Rocha” . Il cinema di Silva Melo è sul desiderio assoluto, il desiderio di superare le proprie qualità, di superare sé stessi, il desiderio di vincere: “Credo che questo tema non mi lascerà mai. Da quando Narciso smette di innamorarsi di sé stesso e si innamora di un altro uomo. Che rivoluzione nell'antica Grecia!”.

 

Nato il 7 agosto 1948 e laureato in filologia romanza, dal 1966 al 1969 Silva Melo è critico teatrale per riviste specializzate come O Jornal de LetrasArtes, O Tempo e o Modo. Approfondisce i suoi studi cinematografici a Londra nel 1969, grazie a una borsa di studio della fondazione culturale Caluste Gulbenkian.  

Silva Melo, forse ancora più del patriarca de Oliveira, è stato un artista (scrittore, critico, attore, regista teatrale e cinematografico, scenografo, teorico e produttore) di importanza cruciale nell’imporre quel certo originalissimo ed estremo “stile portoghese” post rivoluzionario. Ha fatto parte di un movimento di cinema pubblico (o sovvenzionato dalla Gulbenkian) che dopo la scoperta italiana (tra Pesaro e Venezia) di de Oliveira nel 1973-78 e di Antonio Reis e Margarida Cordeiro, ha scodellato nei festival di ricerca internazionali anche grazie alla genialità imprenditoriale di Paulo Branco, opere di Antonio Campos, Cunha Telles, Galvao Teles, Antonio de Macedo,  Luis Felipe Rocha, Fernando Lopes...  Il suo ruolo era quello di Jonas Mekas a Manhattan, spingeva gli altri a lanciarsi, a produrre, a rischiare, a unirsi. Lo ha fatto anche con Pedro Costa e Joao Canijo.  

Silva Melo ha fondato la rivista militante Crìtica nel 1971 e, con la leggenda vivente dello spettacolo portoghese Luis Miguel Cintra, conosciuto al liceo Camoes, il “Teatro da Cornucopia”, allestendo il primo spettacolo nel 1973, quasi una anticipazione scenica del 25 aprile 1974, e l'ultimo nel 2016 (anche se Silva Melo lo aveva abbandonato nei primi anni 80). 

A proposito di scaturigini di un processo. Silva Melo ha collaborato tra il 1969 e il 1974, come direttore di produzione o aiuto regista, alla nascita del nuovo cinema portoghese, che molto deve alla compagnia teatrale d'avanguardia Os Boneceiros cioè al nucleo ideativo dei primi film di Joao Cesar Monteiro, Sophia de Mello Breyner Andresen (1968) e, dopo gli studi di cinema a Londra (e l'amico Cintra a Bristol, a studiare teatro), Quem Espera por Sapatos de Defunto Morre Descalco (1972), con Cintra attore. E’ poi con Paulo Rocha (Pousada da Chegas, 1970), Antonio Pedro Vasconcelos (Perdido por Cem, 1972), un artista comunista che sarà responsabile della produzione fiction televisiva pubblica, e Alberto Saixas Santos (Brandos Costumes, 1973-1974). 

Ma è sempre il teatro che lo attira di più nel decennio ruggente dei Settanta e con la sua compagnia (e dunque anche con la scenografa e costumista Cristina Reis) allestisce via via opere di Moliere, Marivaux, Brecht, Gorki, Buchner, Karl Valentin, Kroetz, von Horvath... 

Del 1976 è però la fondazione di una cooperativa di cinema, il Grupo Zero e assieme alla cineasta di origini scandinave Solveig Nordlund e a Luis Miguel Cintra gira Musica para Si e Viagen para a Felicidade e per la televisione co-dirige, sempre con Nordlund e recita in E nao se pode Extermina-lo? (1979). 

Assistente di Peter Stein a Berlino nell’Orestea e di Giorgio Strehler a Milano nell’Anima buona di Sezuan di Brecht, allestisce alla Scala l’opera di Mozart Le nozze di Figaro e in Francia lavora con Jean Jourheuil e Jean Francois-Pryret su testi di Heiner Muller. Rientrato in patria insegna alla scuola di cinema del Conservatorio. 

Alterna set e palcoscenico, teoria e pratica, sperimenta anche oltraggiosamente distruggendo gli spazi degli allestimenti tradizionali in Tambores na Noite di Brecht, e passa oltre. Tra la collaborazione alla sceneggiatura e ai dialoghi di O Desejado ou As Montanhas da luadi Paulo Rocha e, nel 1988, la messa in scena dei drammi di Heiner Muller Material Medeia e Quarteto, la scrittura di drammi teatrali e la direzione, dal 1996 del Centro Culturale di Belem, opta per il lavoro collettivo e trasversale, ma ha il coraggio di sbagliare personalmente, mostra molteplici segnali di talento in opere diseguali e a lampi appassionanti e irresistibili, come Passagem ou a Meio Caminho (1980).  Come attore entra in tutti i capolavori del cinema portoghese: Silvestre di Monteiro (1981), Conversa acabada di Joao Botelho (1981), Le Soulier de satin di Manoel de Oliveira (1985), Uma Rapariga no Verao di Vitor Goncalves (1986). Poteva essere un grande regista e performer teatrale, ma non c’era verso per la sua generazione di esserlo, era attratto dal cinema irresistibilmente ma come arma di liberazione collettiva dalla vita alienata, non per diventare membro della casta, peggio ancora un Autore, anzi lavorava sodo per detronizzarne il senso, cambiare i modi di produzione, deformare il set, disprezzare la segnaletica ammiccante e settaria della borghesia colta e decostruirne il linguaggio. Lo si vede in alcune delle sue regie, sempre genialmente asimmetriche:

O Recado (Il messaggio), 1972.  Passagem ou a meio caminho (Passaggio o a metà), 1980.  Sem Sombra de Pecado (Nessuna ombra di peccato), 1983. Ninguem duas vezes (Nessuno due volte), 1984 che è dedicato al fallimento dell’utopia rivoluzionaria e che utilizza toni e sottotoni ora raffinati, ora volgari, ora intellettuali ora popolari. Il discusso Agosto, 1989.  Coitado do Jorge (Povero Giorgio), 1994. Cinco dias, cinco noites (Cinque giorni cinque notti), 1996. Antonio, um rapaz de Lisboa (Antonio, un ragazzo di Lisbona), 2002….