James Toback, regista |
Qualche
materiale per decifrare il caso James Toback, artista eccentrico e rivoluzionario,
cineasta e scrittore di ambizione “rinascimentale” particolarmente esperto di
musica e di boxe (ha girato due film con e su Tyson) ma con notevoli problemi
psichici alle spalle. Senza farsi isterizzare dalla ennesima caccia puritana
alle streghe, che è il solito corredo di una sciagurata sconfitta elettorale
(voluta anche dall’estrema sinistra estremamente pura, che, come scriveva Marx
a proposito del 1848 tedesco, è una sciagura diversamente pericolosa). Due
estremisti reazionari, con notevoli, ma diversi, problemi psichici alle spalle,
soprattutto Pale, sono alla Casa bianca.
Non ci facciamo mettere nel sacco un’altra volta, dopo l’errore Hillary.
James Toback, nato nel 1944, diplomato
a Harvard (un suo film autobiografico del2001 con Robert Downey Jr., si
intitola proprio The
Harvard Man). Da giovane sperimenta
(troppo) Lsd nel gruppo di lavoro controculturale di Timothy Leary. Partecipa
alle lotte contro l’aggressione Usa in sue est asiatico. Ha collaborato a
Harper’s bazar prima di diventare un celebre sceneggiatore (per Warren Beatty),
produttore, attore e regista piuttosto originale di soli 12 film, di cui
pochissimi usciti in Italia: Rapsodia per un killer (1978), Per amore e per denaro
(1982), Ehi, ci stai (1987), Sedotti
e abbandonati (documentario sul festival
di Cannes, con James Baldwin nel ruolo di Virgilio 2013). Ha lavorato per Karel
Reisz e Barry Levinson (Bugsy, 1991,
è un suo copione)
James Toback a Cannes |
1. Dalla
voce “Degenerati”, Il ciottasilvestri 2000
Roberto
Silvestri
James
Toback, cineasta newyorkese, ha una filmografia di drammi metropolitani di
eccezionale compattezza. Una sorta di mondo visionario e più romantico che
nietzschiano, "tarantiniano" per capirsi (in Fingers, 1978, c'è già dentro, tra l'altro, la possibilità per uno
scienziato pazzo delle immagini di giocare a Jackie Brown, con Jim Brown nella parte di Pam Grier, un umorismo
micidiale identico e i Drifters già al centro del soundtrack), ma molto più concentrato,
intenso e misterioso, meno smaltato, sensazionalistico e sezionabile.
Nel
più strano dei suoi film, The Big Bang
(1989), senza storia, senza sceneggiatura, senza personaggi, senza trovata
(come nel lontanamente simile Heaven
di Diane Keaton) una dozzina di intervistati, scelti tra pesi leggeri
portoricani, giocatori d'azzardo, mafiosi, donne dalle stranissime logiche e
pulsioni sessuali, astronomi antipatici, giocatori di basket che adorano le
fuoriserie e il lusso, produttori cinematografici che per sfuggire
all'educazione battista realizzano Flashdance
(è Don Simpson), sassofonisti immortali, come Hemphill, una donna scampata
all'Olocausto, una suora, pulsa la stessa elettricità dei suoi drammi
metropolitani "normali", si muove il mondo dei suoi contro-eroi della
fiction, e si pongono tutte le stesse domande delle sue sceneggiature Oscar (Bugsy o il meraviglioso The gambler).
Perché
siamo nati? Chi siamo? Dove andiamo? Come faccio a conquistare la donna dei
miei sogni? (The pick up artist, 1997),
perché non dobbiamo usare i metodi di Carlos per compiere la rivoluzione
mondiale? (Exposed, 1983), perché
vorrei la pelle nera dopo aver capito quanto è intenso e gentile e generoso
Mike Tyson? (lo stupendo Black and white
del 2000, uscito sul mercato francese mai nelle nostre sale tutte parrocchiali).
Una
cascata di immaginario completamente dentro il fronte di fuoco delle
performance artistiche intese come sottotraccia della tecnica anche violenta
usata da qualunque giustiziere: un volto da Botticelli dentro un corpo da
Degas, racchiude lo spirito di una antropologa, maga del Black Jack (Molly
Ringwald in Pick up artist); il
violinista-Nureyev, e la sua struggente vendetta; il rapper che ci spiega la
poesia del filone gangsta, inudibile ai più, e anche perché Tyson sia un
superuomo, non nel senso muscolare, ma perché è del genere umano uno dei
prototipi più umanamente riusciti; i pianisti alla Gould che si sfasciano di
fronte a un pubblico qualunque ma fanno faville in sala di incisione, tutti i
gruppo surf degli anni '50, e quel che fecero per modificare lo stato di cose
presenti, il mistero dell'atleta corrotto...
Con James Baldwyn a Cannes in occasione della presentazione di Sedotti e abbandonati (2013) |
2. Risposta alla domanda di Liberation
1987: perché fai cinema? (Toback fa riferimento nella sua risposa alla fine
dell’umanità, che data 2012)
James Toback: Per restare sano di spirito. Mi
impegno nella follia creativa per controllare una follia distruttiva. La pazzia
di credere (e di agire in funzione di questa supposizione) che le mie
esperienze, le mie idee e i miei fantasmi dovrebbero - devono - essere tradotti,
registrati, interpretati, fotografati e distribuiti per alimentare la coscienza
dell’umanità, almeno finché l’umanità esisterà (il che dovrebbe più o meno
succedere tra 25 anni, se crediamo alle news). Questa follia, dunque, sembra
occupare il secondo posto rispetto a quello che consiste nel fare tutte le
azioni che io metto in scena per filmarle. L’alternativa a questo modo di
espressione sarebbe una forma di repressione il cui costo potrebbe definirsi in
termini di degenerazione dello spirito e di rivolta delle cellule. Nessuna
altra arte potrebbe costituire un valido
sostituto. La teoria sinottica di Wagner era una teoria premonitrice ma la cui
applicazione è stata deviata. Solo il cinema e non l’opera può combinare
letteratura, la musica, la gestualità,
la psicologia, l’incubo, il sogno, la plastica, oltre che il
funzionamento di ogni fibra estetica. Faccio film per disseccare il mio
cervello, per coprirmi e per svelare gli altri a loro stessi in mdo che, come
me, siano fissati all’esterno di se stessi (o in una botte di legno), visto che
non ci sarà mai concesso di vederci congelati nei momenti, impossibili da fissare,
della nostra vita fisica, a allora. Fare ancorau n film è vivere. Non poter
fare ancora un film (non avere l’idea per farlo o i soldi per realizzarlo) è –
se non morire biologicamente, essere
costretto improvvisamente a trovare un’altra buona ragione per vivere (che
forse non esiste). Il cinema questa luce che vacilla per un momento nel nero assoluto, per la sua natura
stessa avicina il suo creatore all’intimità della morte. Si investe talmente
tanto durante la preparazione, , la
scrittura, la vendita,. , le riprese, il montaggio e ancora la vendita, che in
fin dei conti si ha paura di aver consumato
la totalità dell’ispirazione, delle energie, del proprio tempo. I
collaboratori con i quali si lavora e si vive sono partiti verso altri film e
si resta gli ultimi di una lunga linea –
come se ciascuno non fosse venuto che per lasciare delle traccia di immagine dietro
di sé. (Scoprire la forza di fareu n nuovo film è come resuscitare). Tutti i
film (quale che sia l’esuberanza dalla quale è uscito) portano geneticamente la
minaccia di essere l’ultimo che si realizzerà, finchP questo non accadrà
davvero. Si desidera, si lotta e si lavora perché questo accada il più tardi
possibile. Il film dà la vita proprio come annuncia l’imminenza della
morte.
1983. James Toback e Nastassja Kinski, Exposed |
3. Infine.
Questa intervista a James Toback che è
stata pubblicata sul manifesto nel 2004 quando e che è stata scritta
presumibilmente da Giulia D’Agnolo Vallan può essere utile per inquadrare la
“questione Toback”. Soprattutto attenzione all’ultima domanda
Il tuo è da sempre un cinema molto
autobiografico. Fingers, Rapsodia per
un killer, il tuo primo film da regista non fa eccezione. E segna l’incontro
con un attore molto importante per te, Harvey Keitel, che hai usato in altri
due tuoi lavori.. Trovi che Keitel sia l’attore più adatto a esprimere certe
idee che ricorrono nei tuoi film?
Assolutamente…
Ossessione per la musica e per la morte, divisioni tra genitori, impatto
dell’Edipo… Soprattutto vivere al limite della pazzia e della morte, cercando
sempre il prossimo orgasmo… Harvey ha tutte quelle qualità, è stata una scelta
felice. Infatti, in Fingers, ha
addirittura portato il personaggio in una direzione più dark di quanto io
stesso l’avessi intesa. Un giorno lo incontrai dopo la fine delle riprese; mi
disse: “Adesso che ho finito il film, devi spiegarmi come puoi sopportare il
dolore e l’angoscia in cui devi essere costantemente”. Si riferiva al fatto che
il personaggio era direttamente ispirato a me. Io gli risposi che metà di
quello che c’era sullo schermo veniva da lui, non da me. Era stato lui ad
andare in quella direzione. Mi chiese: “E perché non me lo hai detto?”. “Perché
andava benissimo, e non volevo distrarti”. Ma aveva certamente scelto il modo
più dark di leggere il materiale, specialmente per quanto riguarda il sesso,
che io avevo immaginato in modo più piacevole e soddisfacente, e che lui invece
ha interpretato in modo doloroso, contorto… quella scena dove scopa Tanya
Roberts nel bagno, ed è cinque centimetri più basso di lei, o quando si
masturba su Tisa Farrow, la sorella di Mia… È quasi come se soffrisse invece
che provare piacere. Non c’è molta differenza con le visite dall’urologo… Cosa
che era molto lontana dalle mie intenzioni ma che, a suo modo, corrisponde al
personaggio.
Hai detto che The Big Bang è la tua
sceneggiatura favorita, ma è un documentario…
È
il mio film preferito perché non esisteva sceneggiatura. Non c’era nemmeno una
traccia scritta: era tutto nella mia testa
Da dove ti era venuta l’idea?
Avevo
pensato alla relazione tra il cosmo interno e quello esterno, tra il vuoto e i
buchi neri, il vuoto nello spazio e il vuoto interno, che esplode
orgasmicamente e cosmicamente… Mi sembrava un soggeto interessante da
esplorare, scientifico e personale allo stesso tempo. Ho pensato che sarebbe
stato interessante raccogliere un gruppo di persone che avesse risposto in modo
intelligente a queste domande. Anche stilisticamente, mi attirava l’idea di
lavorare in casa, un solo set, un gruppo di persone – ottenendo un certo senso
di movimento dai loro volti, dal colore e dal design, e girando in modo tale da
riflettere quello di cui stavano parlando. Musicalmente avevo sempre voluto
usare le variazioni Goldberg di Bach. The
Big Bang mi piace perché non è né un documentario nel senso convenzionale
della parola, né un film di fiction. E mi piace perché ci sono persone diverse
che vengono da background diversi: il sopravvissuto di Auschwitz, il giocatore
di baseball, il produttore hollywoodiano…
Harvey Keitel, Rapsodia per un killer |
È ancora il tuo film favorito?
Probabilmente.
Insieme a Black and White, Two Girls and a Guy e Fingers. È sicuramente il più inusuale
di tutti. E irripetibile. Joe Kanter mi ha chiesto spesso di farne un sequel.
Ma come puoi fare il sequel di una cosa del genere?
L’idea di lavorare senza sceneggiatura
ti ha condotto a Black and White.
Certo.
È stato molto importante vedere come certe persone reagiscono bene alla totale
assenza di uno script, alla prospettive di lavorare senza un vero e proprio
piano, rivelandosi poco a poco, mentre tu dai loro solo un’intenzione, un
soggetto, una direzione verso cui muoversi. Ci sono persone che rispondono in
modo meravigliosamente viscerale. È stato affascinante scoprire quanto degli
individui essenzialmente interessanti siano ansiosi – e non lo dico in senso
esibizionista – di rivelare se stessi. Così, dopo The Big Bang, ho pensato che avrei potuto usare degli attori, oltre
che dei non attori, nello stesso modo. Metà del cast di Black and White è usato così.
Quanto avevi scritto della
sceneggiatura quando hai iniziato la lavorazione?
Per
alcuni attori ho scritto tutto. Sono stati loro a chiederemelo: Ben Stiller
voleva tutto scritto, come Allan Huston e Claudia Schiffer. Non ho scritto
nulla per il Wu-Tang Can, per Mike Tyson, per Bijou Phillips, Brooke Shields e
Robert Downey Jr.
Black and White, Schiffer e Tyson |
Perché hai scelto il Wu-Tang Clan?
Una
volta deciso che avrei fatto un film su quel mondo, su quel fenomeno così
inventivo dal punto di vista musicale, insolente e ultra avanzato da quello
linguistico, non c’era competizione. Erano perfetti: l’avanguardia. Ho
incontrato qualche altro gruppo per formalità, ma sapevo che avrei scelto loro
dalla prima volta che li sentii e, in particolare, quando conobbi Power. Aveva
in sé delle qualità fisiche e vocali estremamente magnetiche: sarebbe stato
fotogenico e la sua personalità sarebbe risaltata sullo schermo. Mi sé sembrato
il tipo ideale.
Eri interessato all’hip hop da prima?
No,
è un interesse piuttosto recente. Sapevo dell’esistenza del Wu-Tang Clan, ma ho
iniziato ad ascoltarli solo quando stavo preparando il film.
Tra i film che hanno cercato di
esplorare la fascinazione che, attraverso l’hip hop, i giovani
dell’upper-middle class bianca hanno per la musica e i modelli culturali delle
inner cities il tuo è certamente il più interessante. Ed è anche il più vero.
Paradossalmente, il ritratto che dai dei neri è più articolato e complesso di
quanto emerga del gruppo di fan bianchi…
Lo
credo anch’io. Va detto che si tratta di un gruppo di persone che ha fatto più
cose, si è più realizzato, del gruppo di Bijou Philips e degli altri teen agers
bianchi, che sono comunque piuttosto svegli. Ma ho dato ai neri più libertà e
controllo sui personaggi. Ho permesso loro di essere miei collaboratori nel
vero senso della parola, mentre agli altri ho dato direzioni più precise. Anche
musicalmente… Sono io che ho portato l’undicesima sinfonia di Shostakovich e
alcuni altri brani, ma il resto è tutto loro. Ho pensato che a nessuno sarebbe
interessata la mia interpretazione del Wu-Tang Clan. E che invece, se avessi
contrapposto il loro mondo a quest’altro mondo, se ci avessi messo dentro Mike
Tyson e roba simile… sarebbe saltato fuori sicuramente qualcosa di
interessante.
A Venezia, Biennale cinema |
Perche credi che l’hip hop abbia
questa straordinaria influenza non solo sui giovani, ma sul linguaggio in
generale e sulla cultura?
Non
c’è alternativa. Un tempo, la cultura popolare produceva un tipo di
entertainment separato e ben distinto, ma c’era anche la possibilità di
studiare musica più, per così dire, “seria”. Non necessariamente classica, ma
“seria”, in opposizione a quanto viene diffuso in massa grazie alle nuove
tecnologie e al potere della televisione. È una diffusione così capillare che
ha provocato una specie di lavaggio del cervello di massa: la gente che resiste
è, di giorno in giorno, sempre più una minoranza. Quindi c’è un numero sempre
minore di persone interessato a quel tipo di musica “alta”. Ci pensavo in
relazione al mio ultimo film, che è un film in cui chiunque abbia avuto
esperienze di droga può identificarsi, ma che rappresenta più una sfida dal
punto di vista musicale. Ho infatti deciso che userò la Quinta di Shostakovich,
un sestetto di Brahms, Bach… È
musica magnifica, e sarà un vero test vedere la reazione del pubblico, se
reagirà o meno, in massa, a questo tipo di suoni… Non so… Adoro il Wu-Tang Clan
e altri hip-hoppers, ma musicalmente non sono certo allo stesso livello di
Mahler, Shostakovich o Bach. O meglio, puoi anche metterli alla pari, ma ciò
vuol dire essere ignoranti. Perché non è una questione di gusto, ma di
complessità… È come dire che Elvis Costello canta come Pavarotti, o che Richard
Ford scrive come Dostoevskij. Sono diversi. Sono diversi, e ciò non significa
che abbiano lo stesso valore.
Dicevi che, girando Black and White, ti sei praticamente
trasferito a vivere con il Wu-Tang Clan…
Ero
alla loro mercé ogni giorno. Non succede spesso che si faccia un film in cui il
regista chiede ai suoi attori: cosa diresti? Cosa faresti qui? Questa è la mia
idea generale ma vorrei sapere come le vedi tu… Era molto importante per me
coinvolgerli, tenere alto il loro livello di energia creativa, così che ogni
giorno, quando iniziavamo, erano eccitati per quello che stavamo facendo. Anche
perché non è che li stessi pagando… Poteva benissimo succedere che un giorno
arrivassero a mi dicessero: cosa cazzo stiamo facendo ? che cosa ne ricaviamo
noi da tutto questo? Ti garantisco che era una possibilità concreta.
concertista da competizione e killer per la mafia, Harvey Keitel in Rapsodia per un killer |
È il tuo terzo film con Robert Downey
Jr., che, insieme a Keitel, è forse il tuo attore più importante…
Harvey
e io abbiamo fatto quattro film insieme, ma il meglio lo abbiamo dato con Fingers. A tutt’oggi credo sia la sua
migliore interpretazione. Spero che un giorno faremo qualcos’altro insieme,
anche se non sono sicuro che potrà mai superare quella parte. Robert è diverso,
è più flessibile… Harvey ha un raggio molto specifico in cui funziona bene;
Downey, invece, è un sorta di scherzo della natura – e lo ha dimostrato benissimo
in Two Girls and a Guy. Non c’è un
altro attore sulla terra che avrebbe potuto interpretare quella parte cantando
meravigliosamnete, muovendosi come un ballerino e, allo stesso tempo, recitando
quel passaggio dell’Amleto come lo fa
lui. Il suo livello di abilità, e le molteplici personalità che possiede, gli
permettono di fare praticamente tutto. E’ virtualmente impossibile rimanere
senza nuove idee da fargli sperimentare. E adesso sarà ancora più interessante.
L’ho visto di recente, dopo che è uscito di prigione, perché abbiamo registrato
insieme delle interviste per il Dvd di Two
Girls and a Guy. Non è più la stessa persona… ed è logico, perché la
prigione cambia tutti. Sarà interessante vedere come ciò si rifletterà nella
sua recitazione.
Two
Girls and a Guy era sostanzialmente scritto per lui…
Era
tutto scritto, eccetto la scena con loro tre intorno alla vasca da bagno, verso
la fine. Quella l’abbiamo girata in venti ciak di dieci minuti ciascuno, tutti
improvvisati. Per il resto abbiamo improvvisato un po’ qua e là, ma dialoghi e
azione erano piuttosto definiti. Anche a quel tempo, Robert era appena uscito
di prigione e io volevo fare un altro film con lui dopo The Pick Up Artist. La duplicità mi sembro un soggetto
interessante, perché Downey è prismatico, e pensai anche che la duplicità
sessuale fosse un buon soggetto drammatico. Sapevo che era un film che avrei
potuto scrivere facilmente, e che avrei trovato un bel loft dove girarlo. È
successo in fretta, e con facilità.
Anche The Pick Up Artist era pensato per Downey?
No,
inizialmente volevo De Niro. E, ancora prima di lui, Warren Beatty, che aveva
comprato la sceneggiatura e l’aveva offerta a De Niro. Bob sembrava
intenzionato ad accettare, quando un giorno, io lui e Warren arrivammo alla
stessa conclusione: quel personaggio avrebbe dovuto essere vent’anni più
giovane. Al che David McLeod, il cugino di Warren che produceva il film, mi
suggerì Downey, che aveva visto in questo filmino stupido che si chiamava Tough Turf. Mi sembrò ridicolo, ed ero
anche poco convinto dopo averlo visto su Saturday
Night Live, dove era ospite regolare. Decisi di incontrarlo comunque, e lo
scritturai così, su due piedi. Era così instantaneamente piacevole… diventammo
amici nel giro di due secondi.
Sembra che i tuoi film, sempre di più,
siano destinati a prendere forma durante le riprese; eppure, allo stesso tempo,
a Hollywood sei uno sceneggiatore molto stimato…
Posso
scrivere quel tipo di script per altri, ma non più per me. Non riesco più a
pensare a un film che non sia il meno possibile pianificato. Intorno a te, sul
set possono succedere cose eccezionali: perché eliminarle a priori?
Oltre a The Gambler (40 mila dollari
per non morire) e a Bugsy su quali altre sceneggiatura hollywoodiane hai
lavorato in modo particolare?
Quelle
su cui sono veramente intervento sono Bulworth,
di cui ho scritto la prima stesura e Bad
Boys, che inizialmente doveva essere interpretato da Jon Loviz e Dana
Carvey. Mi aveva chiesto di scriverla Don Simpson, che avevo usato per The Big Bang, e che era mio amico. Ne
buttai giù una stesura che faceva piuttosto schifo. Non era roba per me, ma
Simpson mi piaceva, e mi aveva offerto un bel po’ di soldi:
settecentocinquantamila dollari per lavorare tre settimane! Ne avevo bisogno:
ho un modo piuttosto folle di usare il denaro, quindi sono sempre a corto.
E cosa hai scritto di A Love Affair?
Un
paio di scene con Gary Shandling.
Come definiresti la tua relazione con
Warren Beatty?
È
probabilmente il mio migliore amico. Siamo veramente vicini da una ventina
d’anni.
Da
quando lo hai praticamente obbligato a comprare Love and Money.
Lui
e Alain Delon erano i miei due attori favoriti.
Harvard Man, il film a cui stai
lavorando, e che volevi fare da moltissimo tempo, è una storia che risale a
quando frequentavi l’università.
L’evento
centrale del film è l’evento centrale della mia vita. E cioè flippare con
l’Lsd. Ho perso veramente la testa e, visto che se perdi la testi perdi te
stesso, stavo esistendo senza veramente esistere. È uno stato in cui sono
rimasto otto giorni. Era Lsd 25, molto potente, e nel film esploro quello
stato, cosa significhi perdere la testa grazie a un trip andato male. Ci
saranno voci misteriose, allucinazioni… In una scena c’è una donna che esce da
un quadro di Gauguin
Puoi paragonarlo a qualche altro film
psichedelico?
No,
è veramente un film a sé.
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