mercoledì 25 ottobre 2017

Tre pezzi su James Toback, l'allievo di Timothy Leary che perse il cervello

James Toback, regista 

Qualche materiale per decifrare il caso James Toback, artista eccentrico e rivoluzionario, cineasta e scrittore di ambizione “rinascimentale” particolarmente esperto di musica e di boxe (ha girato due film con e su Tyson) ma con notevoli problemi psichici alle spalle. Senza farsi isterizzare dalla ennesima caccia puritana alle streghe, che è il solito corredo di una sciagurata sconfitta elettorale (voluta anche dall’estrema sinistra estremamente pura, che, come scriveva Marx a proposito del 1848 tedesco, è una sciagura diversamente pericolosa). Due estremisti reazionari, con notevoli, ma diversi, problemi psichici alle spalle, soprattutto Pale, sono alla Casa bianca.  Non ci facciamo mettere nel sacco un’altra volta, dopo l’errore Hillary.


James Toback, nato nel 1944, diplomato a Harvard (un suo film autobiografico del2001 con Robert Downey Jr., si intitola proprio The Harvard Man). Da giovane sperimenta (troppo) Lsd nel gruppo di lavoro controculturale di Timothy Leary. Partecipa alle lotte contro l’aggressione Usa in sue est asiatico. Ha collaborato a Harper’s bazar prima di diventare un celebre sceneggiatore (per Warren Beatty), produttore, attore e regista piuttosto originale di soli 12 film, di cui pochissimi usciti in Italia: Rapsodia per un killer (1978), Per amore e per denaro (1982), Ehi, ci stai (1987), Sedotti e abbandonati (documentario sul festival di Cannes, con James Baldwin nel ruolo di Virgilio 2013). Ha lavorato per Karel Reisz e Barry Levinson (Bugsy, 1991, è un suo copione)


James Toback a Cannes
1. Dalla voce “Degenerati”, Il ciottasilvestri 2000
Roberto Silvestri

James Toback, cineasta newyorkese, ha una filmografia di drammi metropolitani di eccezionale compattezza. Una sorta di mondo visionario e più romantico che nietzschiano, "tarantiniano" per capirsi (in Fingers, 1978, c'è già dentro, tra l'altro, la possibilità per uno scienziato pazzo delle immagini di giocare a Jackie Brown, con Jim Brown nella parte di Pam Grier, un umorismo micidiale identico e i Drifters già al centro del soundtrack), ma molto più concentrato, intenso e misterioso, meno smaltato, sensazionalistico e sezionabile.
Nel più strano dei suoi film, The Big Bang (1989), senza storia, senza sceneggiatura, senza personaggi, senza trovata (come nel lontanamente simile Heaven di Diane Keaton) una dozzina di intervistati, scelti tra pesi leggeri portoricani, giocatori d'azzardo, mafiosi, donne dalle stranissime logiche e pulsioni sessuali, astronomi antipatici, giocatori di basket che adorano le fuoriserie e il lusso, produttori cinematografici che per sfuggire all'educazione battista realizzano Flashdance (è Don Simpson), sassofonisti immortali, come Hemphill, una donna scampata all'Olocausto, una suora, pulsa la stessa elettricità dei suoi drammi metropolitani "normali", si muove il mondo dei suoi contro-eroi della fiction, e si pongono tutte le stesse domande delle sue sceneggiature Oscar (Bugsy o il meraviglioso The gambler).
Perché siamo nati? Chi siamo? Dove andiamo? Come faccio a conquistare la donna dei miei sogni? (The pick up artist, 1997), perché non dobbiamo usare i metodi di Carlos per compiere la rivoluzione mondiale? (Exposed, 1983), perché vorrei la pelle nera dopo aver capito quanto è intenso e gentile e generoso Mike Tyson? (lo stupendo Black and white del 2000, uscito sul mercato francese mai nelle nostre sale tutte parrocchiali).
Una cascata di immaginario completamente dentro il fronte di fuoco delle performance artistiche intese come sottotraccia della tecnica anche violenta usata da qualunque giustiziere: un volto da Botticelli dentro un corpo da Degas, racchiude lo spirito di una antropologa, maga del Black Jack (Molly Ringwald in Pick up artist); il violinista-Nureyev, e la sua struggente vendetta; il rapper che ci spiega la poesia del filone gangsta, inudibile ai più, e anche perché Tyson sia un superuomo, non nel senso muscolare, ma perché è del genere umano uno dei prototipi più umanamente riusciti; i pianisti alla Gould che si sfasciano di fronte a un pubblico qualunque ma fanno faville in sala di incisione, tutti i gruppo surf degli anni '50, e quel che fecero per modificare lo stato di cose presenti, il mistero dell'atleta corrotto...



Con James Baldwyn a Cannes in occasione della presentazione di Sedotti e abbandonati (2013)
2. Risposta alla domanda di Liberation 1987: perché fai cinema? (Toback fa riferimento nella sua risposa alla fine dell’umanità, che data 2012)

James Toback: Per restare sano di spirito. Mi impegno nella follia creativa per controllare una follia distruttiva. La pazzia di credere (e di agire in funzione di questa supposizione) che le mie esperienze, le mie idee e i miei fantasmi dovrebbero - devono - essere tradotti, registrati, interpretati, fotografati e distribuiti per alimentare la coscienza dell’umanità, almeno finché l’umanità esisterà (il che dovrebbe più o meno succedere tra 25 anni, se crediamo alle news). Questa follia, dunque, sembra occupare il secondo posto rispetto a quello che consiste nel fare tutte le azioni che io metto in scena per filmarle. L’alternativa a questo modo di espressione sarebbe una forma di repressione il cui costo potrebbe definirsi in termini di degenerazione dello spirito e di rivolta delle cellule. Nessuna altra arte potrebbe  costituire un valido sostituto. La teoria sinottica di Wagner era una teoria premonitrice ma la cui applicazione è stata deviata. Solo il cinema e non l’opera può combinare letteratura, la musica, la gestualità,  la psicologia, l’incubo, il sogno, la plastica, oltre che il funzionamento di ogni fibra estetica. Faccio film per disseccare il mio cervello, per coprirmi e per svelare gli altri a loro stessi in mdo che, come me, siano fissati all’esterno di se stessi (o in una botte di legno), visto che non ci sarà mai concesso di vederci congelati nei momenti, impossibili da fissare, della nostra vita fisica, a allora. Fare ancorau n film è vivere. Non poter fare ancora un film (non avere l’idea per farlo o i soldi per realizzarlo) è – se non morire biologicamente,  essere costretto improvvisamente a trovare un’altra buona ragione per vivere (che forse non esiste). Il cinema questa luce che vacilla  per un momento nel nero assoluto, per la sua natura stessa avicina il suo creatore all’intimità della morte. Si investe talmente tanto  durante la preparazione, , la scrittura, la vendita,. , le riprese, il montaggio e ancora la vendita, che in fin dei conti si ha paura di aver consumato  la totalità dell’ispirazione, delle energie, del proprio tempo. I collaboratori con i quali si lavora e si vive sono partiti verso altri film e si resta  gli ultimi di una lunga linea – come se ciascuno non fosse venuto che per lasciare delle traccia di immagine dietro di sé. (Scoprire la forza di fareu n nuovo film è come resuscitare). Tutti i film (quale che sia l’esuberanza dalla quale è uscito) portano geneticamente la minaccia di essere l’ultimo che si realizzerà, finchP questo non accadrà davvero. Si desidera, si lotta e si lavora perché questo accada il più tardi possibile. Il film dà la vita proprio come annuncia l’imminenza della morte.       




1983. James Toback e Nastassja Kinski, Exposed



3. Infine.
Questa intervista a James Toback che è stata pubblicata sul manifesto nel 2004 quando e che è stata scritta presumibilmente da Giulia D’Agnolo Vallan può essere utile per inquadrare la “questione Toback”. Soprattutto attenzione all’ultima domanda  




Il tuo è da sempre un cinema molto autobiografico. Fingers, Rapsodia per un killer, il tuo primo film da regista non fa eccezione. E segna l’incontro con un attore molto importante per te, Harvey Keitel, che hai usato in altri due tuoi lavori.. Trovi che Keitel sia l’attore più adatto a esprimere certe idee che ricorrono nei tuoi film?

Assolutamente… Ossessione per la musica e per la morte, divisioni tra genitori, impatto dell’Edipo… Soprattutto vivere al limite della pazzia e della morte, cercando sempre il prossimo orgasmo… Harvey ha tutte quelle qualità, è stata una scelta felice. Infatti, in Fingers, ha addirittura portato il personaggio in una direzione più dark di quanto io stesso l’avessi intesa. Un giorno lo incontrai dopo la fine delle riprese; mi disse: “Adesso che ho finito il film, devi spiegarmi come puoi sopportare il dolore e l’angoscia in cui devi essere costantemente”. Si riferiva al fatto che il personaggio era direttamente ispirato a me. Io gli risposi che metà di quello che c’era sullo schermo veniva da lui, non da me. Era stato lui ad andare in quella direzione. Mi chiese: “E perché non me lo hai detto?”. “Perché andava benissimo, e non volevo distrarti”. Ma aveva certamente scelto il modo più dark di leggere il materiale, specialmente per quanto riguarda il sesso, che io avevo immaginato in modo più piacevole e soddisfacente, e che lui invece ha interpretato in modo doloroso, contorto… quella scena dove scopa Tanya Roberts nel bagno, ed è cinque centimetri più basso di lei, o quando si masturba su Tisa Farrow, la sorella di Mia… È quasi come se soffrisse invece che provare piacere. Non c’è molta differenza con le visite dall’urologo… Cosa che era molto lontana dalle mie intenzioni ma che, a suo modo, corrisponde al personaggio.

Hai detto che The Big Bang è la tua sceneggiatura favorita, ma è un documentario…
È il mio film preferito perché non esisteva sceneggiatura. Non c’era nemmeno una traccia scritta: era tutto nella mia testa

Da dove ti era venuta l’idea?
Avevo pensato alla relazione tra il cosmo interno e quello esterno, tra il vuoto e i buchi neri, il vuoto nello spazio e il vuoto interno, che esplode orgasmicamente e cosmicamente… Mi sembrava un soggeto interessante da esplorare, scientifico e personale allo stesso tempo. Ho pensato che sarebbe stato interessante raccogliere un gruppo di persone che avesse risposto in modo intelligente a queste domande. Anche stilisticamente, mi attirava l’idea di lavorare in casa, un solo set, un gruppo di persone – ottenendo un certo senso di movimento dai loro volti, dal colore e dal design, e girando in modo tale da riflettere quello di cui stavano parlando. Musicalmente avevo sempre voluto usare le variazioni Goldberg di Bach. The Big Bang mi piace perché non è né un documentario nel senso convenzionale della parola, né un film di fiction. E mi piace perché ci sono persone diverse che vengono da background diversi: il sopravvissuto di Auschwitz, il giocatore di baseball, il produttore hollywoodiano…

Harvey Keitel, Rapsodia per un killer 
È ancora il tuo film favorito?
Probabilmente. Insieme a Black and White, Two Girls and a Guy e Fingers. È sicuramente il più inusuale di tutti. E irripetibile. Joe Kanter mi ha chiesto spesso di farne un sequel. Ma come puoi fare il sequel di una cosa del genere?

L’idea di lavorare senza sceneggiatura ti ha condotto a Black and White.
Certo. È stato molto importante vedere come certe persone reagiscono bene alla totale assenza di uno script, alla prospettive di lavorare senza un vero e proprio piano, rivelandosi poco a poco, mentre tu dai loro solo un’intenzione, un soggetto, una direzione verso cui muoversi. Ci sono persone che rispondono in modo meravigliosamente viscerale. È stato affascinante scoprire quanto degli individui essenzialmente interessanti siano ansiosi – e non lo dico in senso esibizionista – di rivelare se stessi. Così, dopo The Big Bang, ho pensato che avrei potuto usare degli attori, oltre che dei non attori, nello stesso modo. Metà del cast di Black and White è usato così.

Quanto avevi scritto della sceneggiatura quando hai iniziato la lavorazione?
Per alcuni attori ho scritto tutto. Sono stati loro a chiederemelo: Ben Stiller voleva tutto scritto, come Allan Huston e Claudia Schiffer. Non ho scritto nulla per il Wu-Tang Can, per Mike Tyson, per Bijou Phillips, Brooke Shields e Robert Downey Jr.

Black and White, Schiffer e Tyson
Perché hai scelto il Wu-Tang Clan?
Una volta deciso che avrei fatto un film su quel mondo, su quel fenomeno così inventivo dal punto di vista musicale, insolente e ultra avanzato da quello linguistico, non c’era competizione. Erano perfetti: l’avanguardia. Ho incontrato qualche altro gruppo per formalità, ma sapevo che avrei scelto loro dalla prima volta che li sentii e, in particolare, quando conobbi Power. Aveva in sé delle qualità fisiche e vocali estremamente magnetiche: sarebbe stato fotogenico e la sua personalità sarebbe risaltata sullo schermo. Mi sé sembrato il tipo ideale.

Eri interessato all’hip hop da prima?
No, è un interesse piuttosto recente. Sapevo dell’esistenza del Wu-Tang Clan, ma ho iniziato ad ascoltarli solo quando stavo preparando il film.

Tra i film che hanno cercato di esplorare la fascinazione che, attraverso l’hip hop, i giovani dell’upper-middle class bianca hanno per la musica e i modelli culturali delle inner cities il tuo è certamente il più interessante. Ed è anche il più vero. Paradossalmente, il ritratto che dai dei neri è più articolato e complesso di quanto emerga del gruppo di fan bianchi…
Lo credo anch’io. Va detto che si tratta di un gruppo di persone che ha fatto più cose, si è più realizzato, del gruppo di Bijou Philips e degli altri teen agers bianchi, che sono comunque piuttosto svegli. Ma ho dato ai neri più libertà e controllo sui personaggi. Ho permesso loro di essere miei collaboratori nel vero senso della parola, mentre agli altri ho dato direzioni più precise. Anche musicalmente… Sono io che ho portato l’undicesima sinfonia di Shostakovich e alcuni altri brani, ma il resto è tutto loro. Ho pensato che a nessuno sarebbe interessata la mia interpretazione del Wu-Tang Clan. E che invece, se avessi contrapposto il loro mondo a quest’altro mondo, se ci avessi messo dentro Mike Tyson e roba simile… sarebbe saltato fuori sicuramente qualcosa di interessante.

A Venezia, Biennale cinema 
Perche credi che l’hip hop abbia questa straordinaria influenza non solo sui giovani, ma sul linguaggio in generale e sulla cultura?
Non c’è alternativa. Un tempo, la cultura popolare produceva un tipo di entertainment separato e ben distinto, ma c’era anche la possibilità di studiare musica più, per così dire, “seria”. Non necessariamente classica, ma “seria”, in opposizione a quanto viene diffuso in massa grazie alle nuove tecnologie e al potere della televisione. È una diffusione così capillare che ha provocato una specie di lavaggio del cervello di massa: la gente che resiste è, di giorno in giorno, sempre più una minoranza. Quindi c’è un numero sempre minore di persone interessato a quel tipo di musica “alta”. Ci pensavo in relazione al mio ultimo film, che è un film in cui chiunque abbia avuto esperienze di droga può identificarsi, ma che rappresenta più una sfida dal punto di vista musicale. Ho infatti deciso che userò la Quinta di Shostakovich, un sestetto di Brahms, Bach… È musica magnifica, e sarà un vero test vedere la reazione del pubblico, se reagirà o meno, in massa, a questo tipo di suoni… Non so… Adoro il Wu-Tang Clan e altri hip-hoppers, ma musicalmente non sono certo allo stesso livello di Mahler, Shostakovich o Bach. O meglio, puoi anche metterli alla pari, ma ciò vuol dire essere ignoranti. Perché non è una questione di gusto, ma di complessità… È come dire che Elvis Costello canta come Pavarotti, o che Richard Ford scrive come Dostoevskij. Sono diversi. Sono diversi, e ciò non significa che abbiano lo stesso valore.

Dicevi che, girando Black and White, ti sei praticamente trasferito a vivere con il Wu-Tang Clan…
Ero alla loro mercé ogni giorno. Non succede spesso che si faccia un film in cui il regista chiede ai suoi attori: cosa diresti? Cosa faresti qui? Questa è la mia idea generale ma vorrei sapere come le vedi tu… Era molto importante per me coinvolgerli, tenere alto il loro livello di energia creativa, così che ogni giorno, quando iniziavamo, erano eccitati per quello che stavamo facendo. Anche perché non è che li stessi pagando… Poteva benissimo succedere che un giorno arrivassero a mi dicessero: cosa cazzo stiamo facendo ? che cosa ne ricaviamo noi da tutto questo? Ti garantisco che era una possibilità concreta.

concertista da competizione e killer per la mafia, Harvey Keitel in Rapsodia per un killer 
È il tuo terzo film con Robert Downey Jr., che, insieme a Keitel, è forse il tuo attore più importante…
Harvey e io abbiamo fatto quattro film insieme, ma il meglio lo abbiamo dato con Fingers. A tutt’oggi credo sia la sua migliore interpretazione. Spero che un giorno faremo qualcos’altro insieme, anche se non sono sicuro che potrà mai superare quella parte. Robert è diverso, è più flessibile… Harvey ha un raggio molto specifico in cui funziona bene; Downey, invece, è un sorta di scherzo della natura – e lo ha dimostrato benissimo in Two Girls and a Guy. Non c’è un altro attore sulla terra che avrebbe potuto interpretare quella parte cantando meravigliosamnete, muovendosi come un ballerino e, allo stesso tempo, recitando quel passaggio dell’Amleto come lo fa lui. Il suo livello di abilità, e le molteplici personalità che possiede, gli permettono di fare praticamente tutto. E’ virtualmente impossibile rimanere senza nuove idee da fargli sperimentare. E adesso sarà ancora più interessante. L’ho visto di recente, dopo che è uscito di prigione, perché abbiamo registrato insieme delle interviste per il Dvd di Two Girls and a Guy. Non è più la stessa persona… ed è logico, perché la prigione cambia tutti. Sarà interessante vedere come ciò si rifletterà nella sua recitazione.

Two Girls and a Guy era sostanzialmente scritto per lui…
Era tutto scritto, eccetto la scena con loro tre intorno alla vasca da bagno, verso la fine. Quella l’abbiamo girata in venti ciak di dieci minuti ciascuno, tutti improvvisati. Per il resto abbiamo improvvisato un po’ qua e là, ma dialoghi e azione erano piuttosto definiti. Anche a quel tempo, Robert era appena uscito di prigione e io volevo fare un altro film con lui dopo The Pick Up Artist. La duplicità mi sembro un soggetto interessante, perché Downey è prismatico, e pensai anche che la duplicità sessuale fosse un buon soggetto drammatico. Sapevo che era un film che avrei potuto scrivere facilmente, e che avrei trovato un bel loft dove girarlo. È successo in fretta, e con facilità.



Anche The Pick Up Artist era pensato per Downey?
No, inizialmente volevo De Niro. E, ancora prima di lui, Warren Beatty, che aveva comprato la sceneggiatura e l’aveva offerta a De Niro. Bob sembrava intenzionato ad accettare, quando un giorno, io lui e Warren arrivammo alla stessa conclusione: quel personaggio avrebbe dovuto essere vent’anni più giovane. Al che David McLeod, il cugino di Warren che produceva il film, mi suggerì Downey, che aveva visto in questo filmino stupido che si chiamava Tough Turf. Mi sembrò ridicolo, ed ero anche poco convinto dopo averlo visto su Saturday Night Live, dove era ospite regolare. Decisi di incontrarlo comunque, e lo scritturai così, su due piedi. Era così instantaneamente piacevole… diventammo amici nel giro di due secondi.

Sembra che i tuoi film, sempre di più, siano destinati a prendere forma durante le riprese; eppure, allo stesso tempo, a Hollywood sei uno sceneggiatore molto stimato…
Posso scrivere quel tipo di script per altri, ma non più per me. Non riesco più a pensare a un film che non sia il meno possibile pianificato. Intorno a te, sul set possono succedere cose eccezionali: perché eliminarle a priori?

Oltre a The Gambler (40 mila dollari per non morire) e a Bugsy su quali altre sceneggiatura hollywoodiane hai lavorato in modo particolare?
Quelle su cui sono veramente intervento sono Bulworth, di cui ho scritto la prima stesura e Bad Boys, che inizialmente doveva essere interpretato da Jon Loviz e Dana Carvey. Mi aveva chiesto di scriverla Don Simpson, che avevo usato per The Big Bang, e che era mio amico. Ne buttai giù una stesura che faceva piuttosto schifo. Non era roba per me, ma Simpson mi piaceva, e mi aveva offerto un bel po’ di soldi: settecentocinquantamila dollari per lavorare tre settimane! Ne avevo bisogno: ho un modo piuttosto folle di usare il denaro, quindi sono sempre a corto.

E cosa hai scritto di A Love Affair?
Un paio di scene con Gary Shandling.

Come definiresti la tua relazione con Warren Beatty?
È probabilmente il mio migliore amico. Siamo veramente vicini da una ventina d’anni.
Da quando lo hai praticamente obbligato a comprare Love and Money.
Lui e Alain Delon erano i miei due attori favoriti.

Harvard Man, il film a cui stai lavorando, e che volevi fare da moltissimo tempo, è una storia che risale a quando frequentavi l’università.
L’evento centrale del film è l’evento centrale della mia vita. E cioè flippare con l’Lsd. Ho perso veramente la testa e, visto che se perdi la testi perdi te stesso, stavo esistendo senza veramente esistere. È uno stato in cui sono rimasto otto giorni. Era Lsd 25, molto potente, e nel film esploro quello stato, cosa significhi perdere la testa grazie a un trip andato male. Ci saranno voci misteriose, allucinazioni… In una scena c’è una donna che esce da un quadro di Gauguin

Puoi paragonarlo a qualche altro film psichedelico?
No, è veramente un film a sé.







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