Alberto Farassino (1944-2003) |
di enrico ghezzi (*)
Quando arrivai, poche settimane fa, al cinema milanese dove
si teneva una laica celebrazione di Alberto Farassino prima della corsa al
cimitero, dalla platea gremita vidi lo schermo (blu, mi pare, o nero). In basso c’era scritto Sala Quattrocento, in
alto ‘nessun ingr’; questa seconda
didascalia, sempre più leggibile nelle sale specializzate quando il display
di una proiezione elettronica si proietta sullo schermo diventandone la nuova
materia, indicava evidentemente che non
c’erano ancora immagini nel videolettore, non c’era nulla in ingresso, in
attesa del breve montaggio curato da Tatti Sanguineti. La cosa per un istante mi fece paura, mi
smarrì. Poi cominciò la proiezione, e di fronte alle immagini girate da
Gianikian e Ricci Lucchi in una vacanza al mare, o meglio di fronte al
rifilmarsi rallentato di quel girarsi da sé di una vacanza davanti al mare, del
mancarsi davanti a esso, di Alberto filiforme esitante giovane con la piccola
figlia Viola per mano accompagnata a guardare quell’unica onda che non si
infrange mai davvero, ho sentito fortissimo il nome/numero di quella sala
alludere inevitabile ai Quattrocento Colpi di Truffaut. Nouvelle Vague. Uno dei film di esordio della
‘nuova onda’ del cinema di tutto il mondo, che finiva con la scoperta furtiva
attonita forse anche un po’ terribile e panica del mare , del ‘mai visto’, della sua ‘libertà’ appena intravista. Quel film così fragile e tenace, ‘piccolo’
forse, eppure prodigiosamente capace di risentire sia la costrizione della
forza centripeta che schiaccia il giovanissimo Léaud contro la parete del
cilindro al luna park sia la liberazione che ne consegue dalla forza di
gravità, sia il fantasma della morte (‘mia mamma è morta’) e dell’assenza di
genealogia sia (in essa) il fantasma della libertà.
Allora, mentre le testimonianze si succedevano, mentre si
leggeva la bellissima lettera di Piero Tortolina che infine si lamentava
dell’incongrua eccessiva velocità
impressa da un proiezionista invisibile al film ‘ALBERTO FARASSINO’ (un
muto proiettato alla velocità del sonoro?), mi parve lampante quel gesto di
accompagnarci sul limite di un mare invisibile, e di protendersi lui stesso
verso di esso, con timidezza gentile.
Ho ascoltato, e ancora ‘ascolto’ quello che un’intera
generazione di critici cinefili operatori cineasti (Moretti, Nichetti..), cioè
una di quelle generazioni fatte di almeno tre generazioni (è fatale oggi che lo scarto generazionale,
sempre più vibratile minimo subliminale, attento di sei mesi in sei mesi
all’inghiottimento immemore di una ‘moda’ e di un ‘modo’ in quelli successivi,
proprio per questo compatti poi distanze
di decenni in un’unica fantomatica cultura del dimenticarsi solidale) disse (o
diceva, se vogliamo mostrar d’essere un po’ più vicini) di alberto. E non posso che essere d’accordo: l’acutezza,
l’attenzione, la passione, la gentilezza, la nobiltà. Il lascito di cose scritte e dette. Il ruolo per
l’appunto di cerniera tra generazioni distanti e vicinissime, senza mai
lasciarsi andare verso il delirio o la partigianeria. Ne ho personalmente
sperimentato il tranquillo coraggio di posizione e di stato, nella guerra di
posizione in atto da sempre (ma da sempre e oggi più di sempre è chiaro da prima
chi ha ‘già vinto’) nella terra di nessuno tra giornalismo e critica, tra
festival istituzioni cinefilia: senza mai padrineggiare su scoperte e novità,
era peraltro sovente l’unico a rischiare scrivendo di rarità ‘taorminesi’ o di
impervie o tenere indipendenze ‘bellariesi’ su un giornale nazionale (di quelli
che in genere si distinguono nel seguire o segnalare le mutazioni di Britney
Spears o la più sparuta e insignificante italica proiezione all’estero, senza
dedicare un rigo a una prima di Straub e Huillet , né a una retrospettiva
completa di Ozu, che sia all’Istituto Giapponese o in tv), così come un paio di
volte mi stupì parlandovi di cicli o di assonanze televisive che aveva trovato
per sua curiosità e non certo per suggerimento di solerti uffici stampa.
Non avevamo bisogno di (fingere di ) essere ‘amici’. Ci si
rincontrava tra festival e manifestazioni e proiezioni senza il disagio
dell’obbligo di informarsi (‘come va?’), riprendendo ogni volta un filo che per
conto suo andava avanti o in tondo o si intricava tra cineasti e amici e film,
sentendoci vicinissimi in quella ‘distanza prossima’ che c’è tra un fotogramma
e l’altro. Ricordo le ultime volte in cui ci siamo visti. In autunno, a Parma,
dove venne da solo, stancandosi in macchina, per presentare con noi il libro di
cose scritte da Marco Melani. A fine gennaio, a Udine, per un ‘tutto Dreyer’
dove passai con ridicola fretta, trascorrendo più tempo con le immagini che con
gli amici (la mattina -scappavo lungo il corridoio verso una partenza-ci incrociammo,
disse: ‘peccato che ci siamo visti poco, non abbiamo parlato’; in treno mi
restò una tristezza, e insieme mi parve
così preciso e doloroso e giusto averlo visto lì, tra le immagini forse più
vicine a aver toccato la trasparenza dei corpi, a aver avvertito la materialità
dell’aria e del non visibile). Nel libro su melani aveva scritto, e ancora
parlò. Ammirato della qualità del ‘farsi girare la testa’ di Marco, secondo il
Rossellini di Francesco Giullare di Dio. Con la nitidezza timida che gli era
propria, evocando il mondo delle immagini come quello di fantasmi tangibili, di
un destino che ci attende o ci attese. Ecco, il disagio che risento, è proprio
quello della morte (non perché sia più ingiusta o immatura una morte; non c’è
nulla di più ingiusto del ‘sereno’ invecchiare indebolirsi deperire spegnersi),
che infine segna le date, ricorda le cronologie, le distanze e le vicinanze, le
scadenze e le ricorrenze, ribadisce le generazioni per un attimo. Alberto si
staglia allora, esile e un po’ sempre esule, in una generazione per nulla
coraggiosa, che ha per esempio lasciato lui e pochi altri regolarmente
sacrificati e dissolti sulla linea del fuoco (festival, giornali, riviste,
università, scuole, il farsi e disfarsi di un gusto e di un gioco; insomma, la
politica delle immagini e lo spettacolo della politica), a favore di
compromissioni il più delle volte solo meschine e di piccola cricca, neanche
segnate dalla grandezza della falsità o dall’eccesso dell’imbroglio. (Alberto
si è impedito per esempio di mitizzare le varie mascherature con cui la critica
cinematografica (tra restauri e copie originali e ‘autentiche’) si sta
avvicinando in minore alla creazione di puro plusvalore economicoartistico sul
modello della ‘critica d’arte’). Ma non
voglio portare lontano il discorso, accennando a quello che farassino ‘non ha
fatto’. Mi pare anzi di portarlo vicinissimo a lui, alla sua ‘temperatura’
morale, più che temperamento psicologico. Di sicuro, infatti, non mi è mai
capitato di sentire da lui una meschinità, un moto di invidia, neanche la più
banale delle cattiverie. ‘Opera’ mirabile e rara, questa, di distanza verso una
categoria, verso i piccoli dialetti gelosi propri di ogni ‘professione’.
Indifeso, come tutti i principi, e quasi lasciato insepolto, su un ‘set’ ancora
più artificiale di quelli documentati dalla sua Fulvia nelle sue fotografie. O
seppellito troppo bene oltre che troppo presto. Yervant Gianikian, dandoci per FuoriOrario
il filmato originale di quella vacanza al mare, ha ripetuto accorato:
‘rallentatelo di più, tre sette dieci
volte’.
Fino a fermare
l’immagine, forse. (Non farlo entrare nello spettacolo?). Non c’è velocità
giusta per arrivare a vedere il mare.
(*) pubblicato sul manifesto nell'aprile 2003
Chissà perché ho ritirato fuori proprio oggi dal cappello questo articolo di ghezzi di tanto tempo fa. Abbiamo perduto in questi decenni molti critici acuti e amici, Michele Mancini, Gianni Menon, Maurizio Grande, Michele Cordaro, Callisto Cosulich, Enzo Ungari, Ciro Giorgini, Gabrielle Lucantonio, Don Ranvaud... e, ancora più vicina a me e ad Alberto Farassino, Maria Pia Fusco che per noi è stato un mito: amica e collaboratrice di Joe D'Amato-Aristide Massaccesi (il bel cinema italiano umiliato e offeso), una sceneggiatrice di profonda umanità arguzia e gaiezza che passava al giornalismo di frontiera e di combattimento, invece che, come spesso avviene, fare il contrario. Si può capovolgere la casta e il suo potere seduttivo, anche con piccoli gesti gentili. Magari per illuminare un ambiente politico culturale che si è progressivamente spento dal punto di vista etico e di immagine dopo aver perduto via via l'ossatura laico-radicale originaria, Beniamino Placido, Alberto Farassino, Tommaso Chiaretti, o chi ha preferito lasciare anticipatamente repubblica, piuttosto atttonita, come Anna Maria Mori. Ma Alberto è sempre vivo. Per i suoi libri. E poi perché c'è un premio farassino a ricordarlo ogni anno. Fulvia e le sue foto. La figlia Viola, al Centro Sperimentale. Sarà forse stata la notizia della morte di Gianfranco Bettetini, il suo maestro semiologo della Cattolica, e anche quello del mucchio selvaggio di critici "milanesi" (Francesco Casetti, Mimmo Lombezzi, Tatti Sanguineti, Farassino e qualche donna che è sparita nel nulla chissà perché) che mettevano a soqquadro l'ambiente polveroso, chiuso, settario e pre-accademico del cinema italiano a ridosso del '68 e poi, modificando istituzioni inscalfibili, creando festival, riviste, inventando produzioni e distribuzione nel cinema e nella televisione. Già, l'intera band con il leader fu in tv a raccontare perché erano importanti Don Siegel e i suoi incredibili film di segreta magia. Quando ancora si faceva servizio pubblico e non servizietto spicciolo solo per il governo di truno o per il dio audience. Bettetini, tra i cattolici, e Abruzzese, tra i laici più protestanti, sono stati i grandi vecchi che hanno condotto le battaglie per liberare occhi e cuori e aizzare i più giovani al combattimento. E sono stati sconfitti, loro e gli x giovani, più o meno, ma mai vinti dal Potere. Che nel frattempo è molto più pieno di crepe, abrazioni, smottamenti. Con Farassino abbiamo partecipato a tanti festival, come Venezia, Pesaro, la Taormina di ghezzi, o anche diretto dei festival come Bellaria e Rimini. E a pensarci bene erano tutte manifestazioni che si svolgevano di fronte al mare, quasi sulla battigia. Proprio lì dove enrico l'ha ritrovato. (roberto silvestri)
Gianfranco Bettetini |
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